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Most Beautiful Island – Intervista ad Ana Asensio, regista, attrice e produttrice del film

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Buongiorno Ana Asensio.

Innanzitutto, complimenti per il suo film, che ci è piaciuto molto, e complimenti anche per la sua bellezza. È una donna, oltre che talentuosa e coraggiosa, davvero affascinante.

1) Most Beautiful Island è un film dichiaratamente in parte autobiografico. In cosa esattamente lo è e in cosa invece è frutto di pura fantasia? Credo che, dopo la visione del suo film, è la domanda spontanea che si porrebbe qualsiasi spettatore curioso.

– La storia è stata ispirata dalla mia vita e da altre donne che ho incontrato nel momento in cui sono arrivata a New York. A quel tempo, stavo lottando per capire la mia strada lì. Molte delle cose che vediamo in Luciana nella prima parte del film sono cose che ho fatto per cavarmela. Alcune sue caratteristiche sono fictionizzate, tuttavia, nella mia vita reale, ho davvero partecipato a una festa “particolare”, qualcosa che si è rivelato non essere ciò che mi avevano detto inizialmente, spaventoso…

2) Il film ha una struttura narrativa e stilistica che, per certi versi, nonostante le adeguate differenze, può essere accostata soprattutto nella prima mezz’ora a una pellicola di Ken Loach. Si è ispirata al suo Cinema o, invece, sente che il suo film è assolutamente personale e non attinge a modelli e stilemi di nessuna corrente cinematografica?

– Amo i film di Ken Loach e, in generale, amo i film che trattano temi sociali in modo molto intimo e realistico. Ho avuto molte fonti di ispirazione mentre inventavo le immagini del film, ed è altresì vero che intendevo dar corpo alla mia voce, permettendomi di esplorarla in modo anticonvenzionale.

3) Al cinema e in tv, in particolar modo negli ultimi anni, abbiamo assistito spesso a lunghe scene, come accade nella sua pellicola, di donne o uomini che si addentrano nel sottobosco perverso dei ricchi e partecipano misteriosamente ai loro “festini”. Naturalmente, il “caso” più eclatante è Eyes Wide Shut di Kubrick, ma penso anche a Rachel McAdams nella seconda stagione di True Detective.

Chi ha visto il film sa che lei ha girato qualcosa di estremamente simile ai “casi” appena citati ma al contempo ha inventato qualcosa di sorprendente, mai visto prima e ancora più perturbante. Come l’è venuto in mente, se vuole gentilmente confidarcelo, di creare una situazione di questo tipo?

– Ho deciso di giocare con le aspettative degli spettatori, dando loro il tempo di proiettare le proprie paure e i propri desideri. Penso che sia questo l’elemento chiave. Appoggiando la fotocamera sui volti e lasciare che i silenzi e le pause fossero più eloquenti di tante inutili parole. Questo modo di girare e queste soggettive aiutano il pubblico a vivere attimo per attimo in empatia con il personaggio principale. Ciò che si disvela alla fine potrebbe essere meno spaventoso di quello a cui le nostre paure ci stavano conducendo.

4) Lei del film è regista, sceneggiatrice e protagonista assoluta. Ci può parlare, brevemente, del percorso creativo che ha portato alla scelta di ritagliarsi contemporaneamente questi tre “ruoli” primari e centrali?

– Il mio obiettivo principale è stato sempre quello di uscire dal solo, limitante ruolo di “attrice” e assumerne uno più proattivo, creando qualcosa di più personale. Quindi, per prima cosa, ho pensato alla trama e ho iniziato a riferirla a poche persone che conoscevo, solo per vedere se quello che pensavo fosse interessante e poteva interessare gli altri. La reazione è stata molto positiva e mi ha incoraggiata a sviluppare la sceneggiatura. Era la mia prima volta, quindi non è stato facile! Ho fatto molte riscritture! Ma ho anche impiegato parecchio tempo per capire in che maniera avrei realizzato questo film. Quindi ho assunto un ruolo molto attivo anche come produttrice. Sebbene la sceneggiatura non fosse completamente finita, ho iniziato a bussare alle porte, a cercare luoghi, ecc…, e alla fine ho trovato tutti i finanziamenti per il film e molte delle location. L’idea di dirigere era chiara fin dall’inizio e la scelta d’interpretare Luciana era qualcosa che volevo assolutamente. Anche se a volte avevo dei dubbi su come avrei potuto concretizzare questa mia ambizione. Sono molto testarda e non mi arrendo facilmente. Ho pensato a questo film per tantissimo tempo e mi ci sono voluti molti anni per realizzarlo. Ma alla fine ci sono riuscita, e il film è stato realizzato nel modo in cui ho sempre desiderato.

5) Nel film, specie all’inizio, assistiamo a molte scene apparentemente “gratuite” e delle quali non ne capiamo il senso. Poi, comprendiamo che ogni inquadratura era decisiva per essere collegata a quello che vediamo dopo. E non era affatto sganciata dal contesto o semplicemente un vezzo civettuolo. Perché alla fine tutti gli elementi visivi presentati nel film si allineano a quello che incredibilmente scorre davanti ai nostri occhi. Questa sua scelta registica lei l’aveva in mente sin dapprincipio o è maturata in corso d’opera?

– Era presente nella mia mente sin dall’inizio, ma è anche vero che, dalle molteplici bozze che ho fatto e poi dalla sceneggiatura completa, ho continuato a “lucidare” e ridefinire alcuni dettagli, concentrandomi su quegli indizi narrativi che potevano aiutare a legare insieme la storia. Ad esempio, la sequenza di apertura del film non è mai stata scritta ed è qualcosa che ho deciso dopo aver modificato l’intero film.

6) Come attrice, lei ha già quasi trenta credits all’attivo. Most Beautiful Island è il suo primo film da regista. Qual è la ragione, se possiamo saperla, che l’ha spinta a volersi dirigere da sola e a scrivere da sé la storia?

– Per molti anni ho aspettato e sperato in buoni ruoli. A un certo punto ho deciso di crearmeli da sola. Per fare davvero il lavoro nella forma in cui più credo e poter avere maggior potere sul processo creativo. Per prima cosa ho iniziato a produrre i miei show personali e in seguito ho deciso di scrivere e dirigere questo film.

7) Piccolo “spoiler”. I ragni velenosi, e chi ha visto il film sa di cosa parlo, sono veri?

– Non abbiamo usato effetti visivi né “body double”. È tutto reale.

8) Il suo film è stato un ottimo successo di Critica, e ha vinto già riconoscimenti importanti. Si aspettava quest’accoglienza tanto positiva?

– Ero molto nervosa riguardo la possibile reazione del pubblico e della Critica, non sapevo davvero cosa aspettarmi, dato che sapevo che avrei presentato un film “insolito”.

9) Quali saranno i suoi prossimi impegni cinematografici?

– Sto scrivendo la mia seconda sceneggiatura, da cui spero quanto prima di poter dirigere un altro film.

10) Ultima domanda. Sa benissimo che il suo film potrà dare molto fastidio ai perbenisti. Lei crede che uno dei grandi meriti del Cinema sia anche quello di creare storie disturbanti e potenti?

– Credo che, quando realizzi dei film, hai nelle tue mani un potente strumento e puoi spingerti molto lontano, ed è meraviglioso usarlo, per far sì che le persone possano pensare e sentire in modo diverso dal consueto, al di fuori dei loro soliti schemi.

di Stefano Falotico

 

Venom, il nuovissimo trailer in italiano del film con Tom Hardy

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Dopo essere stato presentato in anteprima, qualche giorno fa, ai Comic-Con di San Diego, ecco a noi anche in italiano, dal canale ufficiale YouTube della Sony Pictures, il nuovo, mirabolante trailer di Venom con un roccioso e arcigno Tom Hardy.

La pellicola è diretta da Ruben Fleischer, il regista di Gangster Squad, e nel cast ci sono nomi importanti come quelli di Woody Harrelson (True Detective, Assassini nati, Verso il sole). Michelle Williams (Manchester by the Sea, Shutter Island) e Riz Ahmed, lo straordinario interprete di The Night Of, vincitore dell’Emmy Award.

Apritevi all’oscurità, il mondo ha già abbastanza supereroi.

Che dire? Effetti speciali a man bassa e finalmente vediamo il “parassita” Venom in tutto il suo orripilante fulgore. Il taglio dato al film pare molto giovanilistico, e sinceramente ci aspettavamo qualcosa di più originale. Ma è ancora presto per poter giudicare. Certo è che da queste immagini trasuda una certa indubbia propensione per le battute a effetto, come se il “prodotto” si rivolgesse ai teenager.

E forse Tom Hardy risulta perfino un po’ fuori posto, lui, attore carismatico e tostissimo di pellicole come Warrior e Mad Max, alle prese con un cinecomic rivolto, a quanto pare, soprattutto al pubblico adolescente.

Nel trailer italiano, potete ascoltare la bellissima voce roca di Adriano Giannini.

di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema: The Ward – Il reparto di John Carpenter

The Ward Locandina

The Ward è un film considerato del 2010, sebbene dobbiamo essere precisi in merito. Fu presentato in anteprima mondiale, infatti, al Toronto International Film Festival il 13 Settembre, appunto, del 2010. E poi subito dopo, da noi in Italia, al Torino Film Festival, il 28 Novembre dello stesso anno. Uscendo però nei nostri cinema, distribuito dalla BIM, il primo Aprile del 2011. Vietato ai minori di 18 anni per via delle molte scene violente e splatter. Negli Stati Uniti invece, vista la freddissima accoglienza della Critica e lo scarsissimo successo di pubblico ottenuto in Europa, è stato immediatamente confinato al mercato home video. Saltando a piè pari la distribuzione in sala.

A tutt’oggi, è l’ultimo lungometraggio di John Carpenter, che, da quel lontano 2010, non ha più diretto nessun altro film. E immensamente me ne dispiaccio perché, se The Ward dovesse rimanere l’ultima sua pellicola, non posso obiettivamente affermare che John si sia congedato dalla regia cinematografica con un’opera indimenticabile. Tutt’altro.

A nove anni di distanza da Fantasmi da Marte, insomma, noi suoi estremi ammiratori sfegatati non abbiamo potuto che rimanere un po’ delusi dal suo ritorno. Stanley Kubrick, quando uscì “postumo” con Eyes Wide Shut, fece intercorrere più di un decennio dalla sua precedente opera, Full Metal Jacket, ma il suo comeback fu decisamente in linea con le enormi aspettative di noi cinefili, perché Eyes Wide Shutça va sans dire, è incontestabilmente un capolavoro. E tanta enorme attesa fu ripagata appieno.

No, non fraintendetemi, The Ward non è affatto un brutto film, è un gioiellino figlio del suo autore, con tutti i suoi splendidi crismi, una sua creatura a tutti gli effetti, ma devo essere equanime e indubitabilmente imparziale nel criticare i suoi tanti ed evidenti difetti, e non posso esimermi dall’essere un po’ duro, per quanto mi stringa il cuore fare ciò.

No, siamo molto lontani dai suoi capolavori. E si mettessero l’anima in pace i fan irriducibili di John (ai quali peraltro io stesso mi annetto ma dai quali, a causa della mia coerente obiettività schietta, stavolta mi dissocio), se qualcuno osa dir loro che, anziché difendere a spada tratta questo film, per puro, istintivo amore viscerale, spassionato e romanticissimo nei riguardi del suo comunque impareggiabile autore-maestro (si sa, l’amore è cieco e irrazionale), oscurati dalla loro irrimediabile idolatria che non vuol sentir ragioni, continuando orgogliosi a sostenere che anche The Ward, appunto, sia un’opera massima e incriticabile, dovrebbero essere molto più onesti e guardare in faccia la realtà.

No, capolavoro non lo è. Minimamente.

La trama è parossisticamente semplicissima. Ah, premetto che, se vorrete continuare nella lettura di questa mia recensione, gli spoiler abbonderanno a dismisura, quindi, se non avete (imperdonabilmente!) visto il film, astenetevi dal proseguire perché vi dirò tutto.

Una ragazza di nome Kristen (Amber Heard), dopo aver dato fuoco a una vecchia fattoria, viene internata. Sì, vien trascinata con la forza in un lugubre ospedale psichiatrico. Kristen, rinchiusa e sedata in maniera coatta, tenterà in ogni modo di giustificare la sua sanità mentale, cercando di dimostrare che il suo internamento è soltanto figlio di un madornale equivoco. Nel frattempo, stringerà amicizia con altre giovani pazienti ricoverate lì oramai da una vita. E ben presto si accorgerà che il reparto nasconde un orribile segreto, perché via via le ragazze, a una a una, spariranno nel nulla. Sì, inspiegabili sparizioni avverranno, di notte, al tonar crepitante e tremebondo dei fulmini, e un’inquietantissima figura di donna-zombi attenterà all’incolumità delle ragazze, apparendo a Kristen più e più volte in maniera allucinatoria.

Kristen è davvero pazza e soffre di deliri allucinativi oppure il manicomio è realmente un posto mostruoso ove si cela, acquattato al buio, il babau delle nostre paure più inconsce?

Un babau che par provenire dai mostri di Wes Craven, un viscido, inafferrabile incubo a occhi aperti che, nel nightmare terrorizzante dell’insondabilità profonda, si anima di forza ancestrale e divora i suoi figli più cari, inghiottendoli nella sua bramosa, luciferina, putrefacente orridità.

Ma poi ci sarà l’imprevisto coup de théâtre, il twist finale, chiamatelo molto più banalmente inaspettato e rivelatorio colpo di scena, che mischierà tutte le carte in tavola, fornendoci una prospettiva retrospettivamente esegetica dell’intera storia.

The Ward… un film uscito con qualche mese di ritardo rispetto all’analogo Shutter Island, soltanto per diverse logiche distributive ma probabilissimamente girato in contemporanea al film di Scorsese, quindi non si può imputare a Carpenter la “colpa” di aver copiato dal film con DiCaprio. Ma possiamo certamente asserire in tutta franchezza che l’espediente della sconvolgente rivelazione finale è oramai abusatissimo, e Shyamalan docet, ma Hitchcock n’è stato fautore e il capolavoro incompreso di Alan Parker, Angel Heart, è a mio avviso in questo senso un modello tutt’ora insuperato di finezza strutturale, una vetta ancora magneticamente irraggiungibile, un congegno a orologeria ben più plausibile e strutturato di The Ward. Che invece, anche a una seconda visione, lascia perplessi riguardo alla verosimiglianza della vicenda narrata e presenta dei buchi narrativi impressionanti che, con tutto il bene che possiamo volere a Carpenter, ci lasciano assai fastidiosamente interdetti.

The Ward è insomma un filmetto ammantato di autorialità solo per il fatto di essere stato diretto da un innovatore, da un gigantesco pioniere del new horror, da un istitutore avanguardistico dei meccanismi della suspense, che anche in questo caso comunque funziona a meraviglia, o è un’opera da amare a prescindere, a torto, perché appunto generata, firmata, ideata e sigillata dal suo colossale, imbattibile poeta-autore?

The Ward si apre con dei magnifici titoli di testa e pare un film anni ottanta spu(n)tato nell’anacronistico 2010.

E a sessantadue anni (tanti ne aveva quando ha girato questo film) John Carpenter dimostra ancora di saper stilisticamente reinventare i suoi stessi topos, che da Dark Star in poi sono stati, immarcescibilmente, un suo riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Col solito stilema, qui à la page, di un posto chiuso e claustrofobico senza vie di fuga che soffoca i protagonisti delle sue storie, costretti a combattere spesso contro una minaccia invisibile, assediati da forze misteriosamente invisibili e fantasmatiche. E John è come sempre affezionato alle sinistre e anguste strutture psichiatriche perché, ricordiamolo e ribadiamolo, Michael Myers di Halloween fuggì da una di queste prigioni dell’anima, seminando terrore e panico, Sam Neill de Il seme della follia venne ghettizzato a livello manicomiale, e Jena Plissken dovette combattere per la sua vita in una grandissima prigione pazzescamente asfittica, New York, mentre in Distretto 13 era già racchiusa esemplificativamente in maniera acutissima tutta la summa di un altro attinente, stilistico e filosofico suo tratto distintivo immancabile, quello dell’uomo, abbandonato in un “bunker” quasi, oserei dire, metafisicamente sganciato dall’esterno, costretto a sopravvivere dinanzi all’ignoto incombente che salta fuori dal nulla. E lo opprime fra le barriere di una sorta di carcere infernale, soffocandolo, straziandolo.

The Ward diventa quindi, ancora una volta, un metaforico, pessimista, nerissimo film sulla società. Perché la società stessa, con le sue insindacabili regole falsamente, (a)moralmente coercitive, è un grande, accerchiante manicomio da cui, pare dirci John sardonicamente, nessuno può scappare. Siamo liberi, come individui, a livello puramente fantasioso e illusorio ma, chi più chi meno, siamo tutti schiavi degli ingranaggi sociali, ideologici, educativi, pedagogici, lavorativi e persino famigliari.

Come diceva al solito illuminatamente Carmelo Bene… a sua volta citando Deleuze:

On n’échappe pas de la machine… non si sfugge da-alla macchina.

Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto. Se la democrazia fosse mai libertà. Ma la democrazia non è niente, è mera demagogia…

Non si scappa. Uscendo dalla catena di montaggio, la macchina, la catena di montaggio si fa ancora più forte nella vostra strada che percorrete, poi nel tram, poi in auto, poi a casa, in famiglia… aumenta ancora, si fa sentire l’oppressione della catena di montaggio, si fa sentire il nulla della vita. L’oppressione… financo nell’amore, nella rivoluzione ancora di più e, soprattutto, l’oppressione si sente, si risente, nell’entusiasmo

Kristen è Alice, Alice è Kristen, Alice è ora guarita. Da cosa in realtà è guarita? Da nulla. Fittiziamente guarita. Perché dallo specchio, lo stesso specchio disgregato, frantumato, spezzato della sua memoria, lo specchio dei titoli di testa, dall’ambiguo specchio figlio de Il signore del male, che si fa qui congiunzione tangibile ed ectoplasmatica diabolicamente inestirpabile, personalità multipla mentalmente invincibile che ora puoi toccare, vedere e guardare negli occhi, echeggerà sempre il mostro maligno della nostra aberrante condizione umana.

Perché, dopo aver passato tutta l’adolescenza chiusa in manicomio, a vivere di una sua immane, delirante fantasia, Alice può adesso tornare alla vita normale, riabbracciare i genitori, è stata dimessa dalla (sua) struttura, dalla sua follia ma, invero, il mondo che l’aspetta là fuori, il mondo che a noi tutti pare rassicurante e tranquillo, è solo un’altra propagazione del manicomio stesso, un manicomio più esteso e ancor più subdolo, strozzante, un posto terribile che toglie il respiro. Ancor più inconsciamente agghiacciante e crudele. Che non ci seda farmacologicamente, ma ove non potremo mai essere pienamente, entusiasticamente liberi, ove saremo perennemente ricattati e compressi da chiunque, insidiati e assediati, soprattutto avviluppati dai nostri demoni interiori.

In questa chiave interpretativa allora The Ward è un film carpenteriano, ed è un grande film.

Nel resto, nell’assurda e insostenibile illogicità narrativa, nelle figure di contorno, scialbe, tagliate con l’accetta, incolori e caricaturali, improponibili come nel caso dello psichiatra-direttore, è un film già visto, se non addirittura imbarazzante e ridicolo. Nelle scene truculente simili al peggior Cinema di Rob Zombie.

Sceneggiano i fratelli Rasmussen, Michael e Shawn, e il film dura 1h e 29 min. La fotografia, alle volte perfino un po’ patinata, è di Yaron Orbach, ma grazie a quel sopraffino metteur en scène, ch’è Carpenter, diventa non poche volte notevolmente, suadentemente pittorica, mentre la bellissima scenografia di Paul Peters, che sfrutta il vero Eastern Washington State Mental Hospital, rimembra l’Overlook Hotel, appunto, del kubrickiano, immortale Shining.

Il ruolo dello psichiatra Gerald Stringer è interpretato dal figlio di Richard Harris, Jared, mentre una delle giovani ragazze, Emily, è interpretata da Mamie Gummer, figlia di Meryl Streep e dello scultore Don Gummer.

La cattivissima infermiera Lundt è interpretata alla perfezione da Susanna Burney, ed è chiarissimo che sia l’omaggiante reincarnazione della memorabile, devastante Louise Fletcher di Qualcuno volò sul nido del cuculo.

di Stefano Falotico

 

Robert De Niro In Talks For Joaquin Phoenix ‘Joker’ Film From Todd Phillips

Joker De Niro

From Deadline:

EXCLUSIVERobert De Niro is in talks to join Joaquin Phoenix in Warner Bros’ Joker origins movie starring Joaquin PhoenixTodd Phillips is directing and co-wrote the backstory tale of Batman’s archnemesis, which is described as a gritty character study but also a broader cautionary tale of a man disregarded by society who becomes the ultimate supervillain.

These talks have been going on for weeks, but a deal is near and they have finally worked out the financials. As opposed to the iconic turn Jack Nicholson took in the Joker role in Tim Burton’s Batman, De Niro will be bringing his iconic status to a different role. Sources said he’ll play a talk show host, a formative figure in the development of the character who eventually becomes The Joker. But De Niro’s character is not a villain, I’m told.

Co-scripted by Scott Silver (The Fighter), the untitled DC Universe film will do battle against Paramount’s sci-fi pic Gemini Man and Fox’s Amy Adams thriller The Woman in the Window which are also dated October 4, 2019.   

Emma Tillinger Koskoff is producing the WB/Village Roadshow Joker movie, which Richard Baratta is exec producing. Filming begins in the fall on the pic, which is expected to be released under a new DC banner.

De Niro is repped by CAA.

 

Racconti di Cinema – Villaggio dei dannati di John Carpenter

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Dopo Il seme della follia, considerato a ragion veduta una delle sue massime opere, apogeo di tutta la sua personale e affascinante poetica, John Carpenter si presenta alle platee mondiali con Villaggio dei dannati. Sì, questo il titolo esatto, anche se probabilmente i distributori italiani hanno peccato d’indelicatezza nella traduzione, troppo letterale, che invece abbisognava dell’articolo determinativo davanti. Ma si sa, si è spesso frettolosi e, per sbadata adesione a un’erronea filologia traduttiva, si casca paradossalmente nell’inesattezza più sconcertante. O meglio, a essere precisi, in maniera stupida, con ogni probabilità lo si è intitolato così per differenziarlo dall’originale, di cui questo è un remakesui generis, cioè Il villaggio dei dannati del 1960 per la regia di Wolf Rilla.

Film considerato minore o addirittura sbagliato, che all’epoca fu assai disdegnato da tutti. Il pubblico rimase interdetto dinanzi a tale oggetto strano, così lo potremmo definire, e inclassificabile, arrivando alla sin troppo scontata e pressappochistica conclusione che Carpenter, stavolta, imbrigliato da una pellicola girata su commissione, non avesse affatto centrato il bersaglio, rimanendo intrappolato in quello che fu sbrigativamente, superficialmente etichettato come uno sconclusionato pasticcio. Nemmeno la Critica gli fu benevola, anzi, addivenne a giudizi a mio avviso scorretti e fastidiosamente, repentinamente drastici, che liquidarono il film, categorizzandolo tra i “dimenticabili”. E snobbando l’opera con manifesta, ingiusta irrisione.

Che fu invece soprattutto ricordata per aver offerto al compianto Christopher Reeve (Superman) uno dei suoi ultimi ruoli, se non l’ultimo addirittura, prima della tragica paralisi che lo colpì e lo costrinse sulla sedia a rotelle. E che a causa dell’aggravarsi della sua salute, già molto cagionevole, tanto lo debilitò da portarlo precocemente alla morte, avvenuta per infarto, a soltanto cinquantadue anni.

Il film è un parziale rifacimento, come detto, del film degli anni sessanta, che però sposta l’ambientazione dal Regno Unito agli Stati Uniti. La località nella quale si svolge la vicenda si chiama sempre allo stesso modo, cioè Midwich, ma stavolta ci troviamo all’interno di una città costiera californiana.

La sceneggiatura è di David Himmelstein e attinge, parimenti all’originale, al romanzo fantascientifico di John Wyndham, I figli dell’invasione (The Midwich Cuckoos).

La trama è semplice, molto lineare…

A Midwich, la popolazione all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, viene colpita da una sorta di blackout collettivo, si addormenta e cade in momentaneo stato di trance.

Al risveglio, dieci donne, alcune peraltro vergini, all’unisono rimangono miracolosamente incinte. Trascorsi nove mesi esatti, nella stessa notte tutte partoriscono i loro rispettivi bambini. Ma una bambina nasce morta, cioè non è sopravvissuta al parto, per asfissia polmonare. E il suo feto viene rubato e prelevato dall’enigmatica dottoressa Susan Verner (Kirstie Alley), che pare già sapere che i figli di questo parto di massa sono e saranno dei mostri, dei bambini dai capelli albini e platinati, dotati di malvagissimi poteri telepatici, capaci di far commettere alle persone, con la loro malevola influenza psichica, degli atti scellerati, autolesivi. Sì, i bambini possiedono l’aberrante dono di poter plagiare le menti delle persone, tanto da indurle perfino al suicidio o a gesti riprovevoli.

I bambini crescono e si coalizzano, vivendo in perfetta, angosciante simbiosi. Pare che non provino emozioni, tanto sono spietati, crudeli e robotici. Soltanto uno di loro, David, è capace davvero di provare emozioni. A differenza degli altri che, appena avvertono sentimenti negativi nei loro riguardi, si vendicano dei loro torturatori, David sa invece entrare in profonda, umanissima empatia con la gente del paese, sa sondare nelle loro personali afflizioni per discernere, carpire e capire meglio i dolori che tanto li tormentano. E sa angelicamente comprenderli. Ciò non viene esplicitato del tutto ma è sottilmente sottinteso.

Il resto lo scoprirete guardando il film.

Film molto classico, con bellissime inquadrature iniziali ove la macchina da presa sorvola la costa e plana, a volo di elicottero, sulla vegetazione, infondendo allo spettatore un vertiginoso, cataclismatico senso già molto alienante di distopica placidità perturbante.

Un film, sì, imperfetto, ma invero anche molto seducente, girato davvero come fosse un film degli anni sessanta, e parte del merito di questo sapiente aggiornamento fedelmente retrospettivo va al direttore della fotografia, Gary B. Kibbe, immancabile creatore di atmosfere ammalianti quando lavora col suo fido maestro John.

Capace d’illuderci stupendamente di essere catapultati davvero in una pellicola più antica rispetto al tempo nel quale è stata filmata.

Un film pregiato d’annata dal sapore, appunto, vintage. Perfino il soffuso logo iniziale della Universal, ad apertura degli open credits, pare volutamente spuntare e provenire da un’intrigante pellicola anni 50/60.

Un film dal pacato ritmo soporifero come se, assistendovi, noi stessi spettatori rimanessimo sotto ipnosi, un film carezzevolmente ondulato e morbido. Spiazzante.

Film dai toni plumbei e dalle tonalità di colori opachi con sprazzi di vivacità da Cinema espressionista.

Film che gioca apposta sul colore delle cornee, delle lucenti e traslucide iridi dei protagonisti e dei loro occhi da marziani, sia quelli dei bambini, ritoccati digitalmente dagli effetti speciali della Industrial Light & Magic, sia quelli degli umani adulti.

Appositamente Carpenter infatti sceglie come interpreti Christopher Reeve, famoso per il suo sguardo languido e acquoso, dà un piccolo ruolo a Michael Paré, uomo dagli occhi blu, e si concentra soprattutto sulle sfumature espressive dello sguardo perversamente ambiguo, fatale e ipnotico di Kirstie Alley, che pare la sorella dell’altrettanto aliena e inquietante Meg Foster di Essi vivono. E, come nel caso di They Live, il film, se guardato attraverso quest’ottica, diviene profeticamente un’altra riflessione sul potere dello sguardo e della vista.

Non tutto funziona, e il film è indubbiamente un po’ attorcigliato su sé stesso, non prende mai davvero il volo, resta un po’ fiacco e strozzato.

Ma è elegantissimo, da ricordare anche per le presenze, invero soltanto accessorie ma comunque funzionali, della bella Linda Kozlowski (Mr. Crocodile Dundee) e di Mark Hamill (il mitico Luke Skywalker di Guerre stellari).

di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema – Il seme della follia di John Carpenter

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Ed eccoci con Il seme della follia, pellicola uscita sugli schermi italiani il 4 Maggio del 1995, ma che viene unanimemente considerata dell’anno prima, e infatti proprio in Italia fu presentata in esclusiva al Noir in Festival il 10 Dicembre del ’94.

Terzo e conclusivo capitolo della Trilogia dell’Apocalisse carpenteriana, dopo La cosa e Il signore del male, e ancora una volta, come nel caso dei due film appena citati, un altro emblematico capolavoro esemplare e imbattibile, vetta assoluta della summa poetica di John.

Film dalla durata snella e compatta, fluidissima di un’ora e trentacinque minuti netti, scritto da Michael De Luca.

E interpretato da Sam Neill in quella che considero la performance della sua vita. Perché in questo film titanicamente s’impossessa del miglior personaggio offertogli nella sua altalenante, discontinua eppur brillante carriera d’attore, aderendovi ineccepibilmente con classe impari e infondendogli un’ambiguità sulfurea da pregiato interprete capace di mille sfumature espressive.

Trama…

John Trent (Neill), investigatore privato specializzato in truffe contro le assicurazioni, viene internato in manicomio. Ove, legato da una stretta camicia di forza e tenuto fermo dagli infermieri, arriva in pieno stato delirante.

Ma è pazzo davvero? A uno psichiatra che vuole aiutarlo, giunto nella clinica psichiatrica per fornirgli udienza e soccorso, in un lunghissimo flashback ininterrotto racconta la folle vicenda che gli è capitata, che lui naturalmente sostiene essere vera e non figlia della sua mente malata.

Considerato il miglior detective sulla piazza per il suo fiuto infallibile nello smascherare gli imbroglioni, Trent era stato assunto dalla casa editrice che pubblica lo scrittore più letto al mondo, Sutter Cane (Jürgen Prochnow), i cui libri vendono più di Stephen King, affinché si mettesse alla ricerca proprio dello stesso Cane, sparito nel nulla.

Il passato è il presente, il presente è già il futuro, visualizziamo a mo’ di cronistoria cos’è successo, come fosse accaduto adesso.

Prima di entrare nel vivo delle indagini, Trent comincia a leggere alcuni libri di Cane. Molto scettico riguardo alla valenza delle opere di Cane, che invece letteralmente fanno impazzire i suoi appassionati, le sfoglia inizialmente sbuffando, con grande noia e supponenza ma poi, sebbene continui a sminuirne il valore, ne viene anche lui magneticamente attratto. Riconoscendo che lo stile di scrittura di Cane, seppur descrittivamente banale e logoro, in qualche maniera cattura ipnoticamente e invoglierebbe chiunque infinitamente a proseguire la lettura. Al che, com’illuminato da una fulminea rivelazione, si accorge che, ritagliando accuratamente nei punti esatti le copertine dei suoi libri e congiungendone i pezzi, si addiviene a una mappa topografica che ritrae la perfetta ubicazione geografica di Hobb’s End, cittadina realmente esistente che veniva invece dapprima reputata solo immaginaria e frutto della fantasia di Cane. Hobb’s End esiste, non è mera finzione.

Così, accompagnato dall’assistente e redattrice dei manoscritti di Cane, Linda Styles (Julie Carmen), si mette in viaggio alla volta della bramata città “fantasma”.

Arrivato lì, assiste a eventi impensabili. Prima crede, scherzandoci sopra, che ciò a cui sta presenziando, sorpreso, incredulo ma disincantato, sia tutta una messa in scena e una mossa pubblicitaria architettata per promuovere il futuro libro di Cane, abilmente congegnata per suggestionarlo.

Ma pian piano gli avvenimenti sovrastano la sua ragione e le sue certezze barcollano e soccombono, scricchiolando sotto il peso irrazionale dei dubbi più inoppugnabili. Trent non riesce insomma a darsi una spiegazione logica di ciò che gli succede intorno. E quel posto lo terrorizzerà in un crescendo emozionale tremendo. Sin a divellere e sventrare ogni suo calibrato raziocinio.

Un posto macabro e spaventevole nel quale la realtà par superare di gran lunga la fantasia e dove il confine stesso tra reale e sovrannaturale scompare e si compenetra terribilmente. E Trent vede materializzarsi, davanti ai suoi occhi sempre più allibiti, sconcertati e impauriti, nel succedersi incredibile degli accadimenti sinistri che si concretizzano dinanzi a lui, come se i personaggi descritti nei libri di Cane fossero marionette e burattini manovrati dall’immaginazione creativamente mostruosa del suo mefistofelico autore maledetto, l’imponderabile glacialmente, contagiosamente demoniaco che prende, via via, orripilantemente forma.

E alla fine, probabilmente, impazzirà.

L’umanità intera stessa è impazzita, nessuno è sopravvissuto al morbo epidemico indotto dalla lettura e letteratura pazzamente plagiante le coscienze di Sutter Cane, e Trent allora fugge dal manicomio, recandosi in un cinema deserto in cui stanno proiettando proprio In the Mouth of Madness, film ricavato dal libro intanto pubblicato di Cane, con Trent, sì, lui stesso protagonista, che rivede tutto lo spettacolo a cui finora noi spettatori abbiamo assistito.

Un film ovviamente diretto da John Carpenter in persona.

Carpenter affida non a caso al canuto, iconico Charlton Heston, in una delle sue ultime, grandiose apparizioni cinematografiche, il breve ma centralissimo ruolo di Jackson Harglow. Se nell’indimenticabile, storico I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille, Heston incarnava Mosè, cioè il profeta-ambasciatore a cui Dio consegnava le tavole bibliche affinché da emissario fedelissimo diffondesse la sua Parola agli uomini e li irretisse al suo insindacabile volere, qui Carpenter gli cuce addosso i panni dell’editore del demiurgo Cane, uomo fattosi superuomo e diabolicamente assurto a Dio maligno di una nuova era. Un dio satanico, o un Satana divino.

Insomma, la speculare e allo stesso tempo antitetica, identica faccia della medaglia del Signore del maleprince of darkness

Il seme della follia è un impareggiabile apologo radicalmente pessimista, pieno di trovate visive e scenografiche, un pamphlet apocalittico e un horror irraggiungibile, film del brivido che è anche una lucidissima e lungimirante riflessione sulla società delle immagini e sul loro smodato, inesausto proliferare schizofrenico, e quant’altro.

Che attinge dichiaratamente ad Howard Phillips Lovecraft, a uno dei suoi capolavori, Alle montagne della follia, e al suo mito di Cthulhu, a Stephen King, alla letteratura alta e bassa, fumettistica od orrorifica, a Edgar Allan Poe e ai suoi Racconti del terrore, e genialmente miscela il tutto con classe ineguagliabile, figlia dell’eleganza e dell’ipnotismo narrativo di John Carpenter.

Un Carpenter ai suoi massimi livelli. Che al solito è anche autore della clamorosa colonna sonora.

Unica “pecca”: di solito, nelle cliniche psichiatriche, non concedono ai pazienti di usare materiale contundente, come potrebbe essere una matita appuntita. Matita che invece viene data a Trent.

Perché i pazienti potrebbero ferirsi o lacerarsi la pelle. O addirittura bucarsi i polsi.

E come ha fatto Trent a disegnarsi sul viso, sulle guance e sulla fronte delle croci così sapientemente, simmetricamente realizzate a regola d’arte?

E, soprattutto, com’è riuscito con una sola matita a dipingere tutta la stanza tappezzata?

Ma perdoniamo a Carpenter questa, probabilmente volontaria, svista, perché ci pare una licenza prettamente poetica per meglio cesellare e disegnare la figura archetipica di Trent/Sam Neill.

E ricordate, come dice Linda a John: sani e pazzi potrebbero scambiarsi i ruoli. Se un giorno i pazzi fossero la maggioranza, lei si ritroverebbe dentro una cella imbottita.

 

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di Stefano Falotico

 

Gotti – Il primo padrino, il trailer italiano del film con John Travolta

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Dopo essere uscito pochissimo tempo fa negli Stati Uniti, ove è stato macellato dalla Critica, tanto da totalizzare una media recensoria impressionantemente bassa su Metacritic, solo 24%, il prossimo 13 Settembre uscirà anche nei cinema italiani il film Gotti – Il primo padrino interpretato da John Travolta, distribuito dalla Eagle Pictures.

E poche ore fa proprio la Eagle Pictures ha diffuso il primissimo trailer italiano, che vi mostriamo.

 

A dire il vero, a giudicare da queste immagini, il film non pare così brutto e disdicevole come si è detto, sembra finemente girato anche se sarà pieno zeppo di luoghi, molto stereotipato e probabilmente poco originale, perché di storie su capi dei capi e boss mafiosi oramai ne abbiamo viste a bizzeffe ed è difficile, se non sei Martin Scorsese, dire qualcosa di nuovo, coinvolgente e incisivo.

Questo film è stato fortemente voluto dal suo attore protagonista, John Travolta appunto, e dopo innumerevoli revisioni (la prima versione doveva essere diretta dal regista Barry Levinson e aveva nel cast Al Pacino e Joe Pesci), Travolta, non dandosi mai per vinto, finalmente è riuscito a portarlo sullo schermo. Sebbene, come detto, stando almeno ai giudizi critici statunitensi, assai poco lusinghieri, la pellicola si sia poi, a conti fatti, rivelata un grossissimo insuccesso.

È diretta da Kevin Connolly e vi recita anche la vera moglie di Travolta nella vita privata, l’attrice Kelly Preston.

 

di Stefano Falotico

 

Most Beautiful Island, recensione dell’esordio alla regia di Ana Asensio

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Ebbene, oggi siamo orgogliosi di presentarvi in anteprima l’interessantissimo e affascinante Most Beautiful Islandthriller psicologico spagnolo di elegante fattura, che uscirà sui nostri schermi il 16 Agosto con ExitMedia, presentato con successo al recente Festival del Cinema Spagnolo.

Most Beautiful Island ha già ricevuto notevoli plausi da parte della Critica mondiale, tanto da totalizzare su Metacritic un più che lodevole 73% di voti positivi nella media recensoria, e si è aggiudicato molti importanti riconoscimenti di valore nei festival nei quali è stato presentato, vincendo il Premio speciale della Giuria all’ultimo SXSW di Austin e primeggiando da winner incontrastato al Sidewalk Film Festival come Best Life & Liberty Film.

Una pellicola girata in 16mm, scritta e interpretata dalla talentuosa e bella, conturbante Ana Asensio, qui al suo esordio assoluto dietro la macchina da presa. Insomma, questo film è stato per l’Asensio un vero e proprio tour de force da factotum versatile e sorprendente.

Una sceneggiatura, come detto, da lei stessa allestita, basata in parte sulle difficili esperienze vissute sulla propria pelle quando era un’immigrata. E questo prioritario, basilare tocco autobiografico è indispensabile per poter meglio farci comprendere la vicenda narrata, e farcene entrare in empatia, immergendoci appieno nel climax narrativo.

Lucia (Ana Asensio) è una giovane, coraggiosa donna che ha abbandonato le sue origini, la famiglia e il precedente lavoro, e ora si è trasferita nella Grande Mela, la tentacolare e pericolosa New York. Lucia ha un passato traumatico alle spalle e adesso, nella sua combattiva, tenace resilienza emotiva, deve fare i conti con una metropoli-giungla che cinicamente t’inghiotte, divora e sbrana se non possiedi un’enorme forza di volontà. Una città così tentatrice può rischiare presto di farti soccombere e devastarti.

Tanto da lasciarti smarrita nella sua melma. E poi da quella palude buia non ti può più salvare nessuno.

Lucia, pur di sopravvivere, accetta ogni tipo di lavoro, dal più umile al più trasgressivo e immorale.

Prima distribuisce volantini, conciata da pollo, poi fa la babysitter, quindi addirittura partecipa a una festa privatissima, un party piccante e molto privé in cui, in cambio di duemila dollari, deve lasciarsi guardare da dei voyeur. Ma è un party alla Eyes Wide Shut o qualcosa di più perversamente strano…?

Non possiamo naturalmente svelarvelo. Cosa succede in quella stanza ove, a turno, entrano le ragazze della festa?

Lucia, sì, solo lei senza nessuno, deve combattere con ogni mezzo lecito e non, giorno dopo giorno, ora dopo ora, pur di non farsi infangare nella dignità. In continue prove di resistenza che demoralizzerebbero chiunque.

Come andrà a finire?

New York è la città dei big, big dreams…

Possiamo dirvi che se amate i film dei supereroi Most Beautiful Island non è il film che fa per voi. Riprese a mano, pochi dialoghi, un’atmosfera di morte quasi esoterica percorre tutto il film e la scena del party dura quasi la metà del film. Lenta, lentissima, basata quasi esclusivamente sulle emozioni del viso di Lucia.

Fotografia essenziale, simil Dogma, di Noah Greenberg.

È il classico film che fa male ai perbenisti per il semplice fatto di essere moralmente, mortalmente ambiguo, forse non per altro, con una suspense nel finale in puro stile Hitchcock.

Il classico film che, appena capisci che piega prende, puoi respingere immediatamente o guardarlo, quasi da guardone, tutto d’un fiato per assistere allo spettacolo…

Abbiamo già detto troppo.most-beautiful-island-recensione-film-01-

di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema – La cosa di John Carpenter, ipotetica Trilogia dell’Apocalisse

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La cosa… film del 1982 della durata di 1h e 49 min.

Sceneggiato da Bill Lancaster dal racconto orrorifico e fantascientifico di John W. Campbell Jr., La cosa da un altro mondo, già alla base dell’omonimo film originale di Christian Nyby girato in collaborazione con Howard Hawks, che lo produsse e co-diresse non accreditato.

E rappresenta, sulla base delle dichiarazioni di Carpenter stesso, il primo capitolo di una sorta d’ipotetica Trilogia dell’Apocalisse, a cui faranno seguito Il signore del male e Il seme della follia.

Siamo in Antartide e il film è ambientato esattamente nel 1982, proprio l’anno di uscita del film, quindi è un fanta-thriller contemporaneo rispetto al periodo in cui è stato girato.

Qui, al Polo Sud, è ubicata una stazione di ricercatori ove il tempo pare essersi fermato, cristallizzato nella monotonia di gesti e azioni lentissime, di una piccola comunità soporifera, immersa nella nevosità d’un clima ostile e cupissimo (la fotografia atmosferica, nera e livida, è nuovamente di Dean Cundey). Così, dopo i titoli di testa, anticipati da un disco volante che, planando in avaria e perdendo la rotta, si schianta, esplodendo frantumato vicino alla crosta terrestre, nell’enigmatico buio stellato dell’universo, risuona scandita l’incalzante musica ossessiva di Ennio Morricone (qui alla sua prima, stupenda ma unica collaborazione con Carpenter, ingiustamente disdegnata dalla Critica che lo candidò al Razzie Award) e assistiamo lentamente a una scena agghiacciante. Un elicottero sorvola le montagne e insegue un cane siberian husky. Il tiratore prova a uccidere l’animale ma l’animale rimane illeso e schiva ogni colpo con funambolica destrezza e fortuita abilità. Quindi, inseguito da questo cinico, umano predatore, viene accolto a braccia aperte dagli uomini della stazione scientifica, giunti in suo soccorso. L’uomo dell’elicottero però, come fosse in preda a una follia rabbiosa e implacabile, scende dal velivolo e continua a fucilare incessantemente, fino a che un uomo lo trafigge e ammazza, sparandogli a un occhio e silenziandolo all’istante.

Ma perché quell’uomo, che scopriamo essere un norvegese, così come i suoi compagni adesso tutti morti, voleva a tutti i costi uccidere quella povera bestia, nell’atto sconsiderato e scellerato della sua spietata caccia mostruosa? E pareva essere posseduto da una furia omicida dannatamente oscena?

Scende la sera, pacatamente gli uomini ritornano alle loro postazioni, ognuno occupandosi delle consuete, abitudinarie mansioni. Ma all’improvviso, nel canile all’interno della base, una creatura terrificante, fra latrati abnormemente, orridamente raccapriccianti e grandguignoleschi, sta divorando tutti gli husky, si trasmuta in loro e ne sta assumendo le sembianze, contorcendosi sanguinariamente animato da una forza sovrumana.

Gli uomini, terrificati da quegli abbaiamenti spaventevoli, si precipitano verso il canile e assistono, raggelati, all’orrendo pasto lupesco, è il caso di dirlo, di quella ributtante e inguardabile creatura, che ora si dimena ancora più furibondamente, fra budella tumefatte e un corpo in perenne mutazione, alla cui sommità e tutt’intorno spuntano le teste dei cani da essa stessa divorati.

Come se quella creatura non identificabile avesse fagocitato le bestie e le avesse assorbite nel suo codice genetico. In un tumultuoso torcersi sbranante in cui ha incorporato e assimilato gli animali a sé in pazzesca, allucinante metamorfosi simbiotica.

Questa, sì, è la cosa. Un’entità aliena risvegliata dai norvegesi, risorta da un letargo durato migliaia di anni, in cui è stata ibernata sotto i ghiacciai, adesso imprendibilmente fuggita a piede libero per contagiare e divorare ogni essere vivente del pianeta Terra nella sua ferina, inarrestabile mostruosità rigenerativa e infettiva, distruggendo a sua volta ogni altra cosa, ricreandosi e plasmandosi al DNA delle sue vittime.

La cosa non si fermerà e ora sta contagiando tutti gli uomini della base polare-antartica.

Dev’essere abbattuta e bruciata viva, ma la cosa è qualcosa d’infidamente invisibile che risorge dalle sue ceneri e, morbosamente maliarda, è diabolicamente invincibile. La cosa è immortale e la sua immortalità cerca vita nella morte perpetrata agli esseri dapprima vivi.

Tutti possono essere contagiati e nessuno si fida di chi gli sta di fronte o accanto. Uno di loro potrebbe essere la cosa trasformatasi in un uomo, tutti potrebbero essere la cosa, la persona all’apparenza normale potrebbe essere stata già indelebilmente infettata.

E cresce la paura, la tensione si taglia col coltello, vibra la suspense montante in un assordante urlo delle notti più terrificanti.

Alla fine rimarranno due uomini a guardarsi in faccia, uno dei due o entrambi sono la cosa?

Un altro monito apocalittico di Carpenter, pessimista, radicale, perché pare volerci dire, senza troppe metafore, che forse siamo noi, uomini, l’incarnazione stessa della cosa. Chiunque di noi lo è e, per sopravvivere, parassitariamente assimila ciò che lo circonda, in maniera funereamente viva e glaciale. Malevola e subdola.

Il film, come detto, è del 1982 e incassò assai maluccio, annientato da E.T. – L’extra-terrestre.

Due grandi film, uno figlio della poetica spielberghiana di quel periodo, con la “cosa” aliena contagiosamente buona, col suo carico di ottimismo sognante e leggiadro, e di contro questo di Carpenter, spietato, nerissimo, a profetizzare invece un nostro immediato futuro catastrofico. Enormemente spaventoso.

Ah, scusate, non ho citato gli stratosferici effetti speciali di Rob Bottin, già autore per Carpenter degli Special Effects di Fog.

La cosa però, a mio avviso, non è il capolavoro tanto miticizzato dai fan di John. Alla sua uscita, la Critica gli fu molto freddina, col tempo adesso nessuno si sente di obiettare sulla sua grandezza.

E io non ho la pretesa di schierarmi in nessuna delle due fazioni.

La cosa è un film importantissimo, ovvio e inconfutabile che lo sia, ma il rischio d’idealizzarlo troppo e amplificarne i meriti è dietro l’angolo.

È il classico film ingiustamente snobbato quando uscì e poi forse iper-glorificato oltre i suoi reali meriti. Dove sta la verità?

La verità è che capolavoro lo è. Eh eh.

di Stefano Falotico

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