Racconti di Cinema: Distretto 13 – Le brigate della morte di John Carpenter
E Carpenter firma quello che, dopo tanti ripensamenti e revisioni da parte della Critica, è oramai accertato che sia il suo primo, vero capolavoro, ovvero Distretto 13 – Le brigate della morte. Un film di una potenza visionaria e di una compattezza granitica da stremare e lasciarci storditi per l’eleganza con la quale è stato claustrofobicamente girato, ancora una volta un kammerspiel sui generis, come saranno poi anche La cosa o Il signore del male, ma perfino lo stesso Halloween. E irrompe il tema e lo stilema pressoché uniforme di molta della poetica carpenteriana.
L’asserragliamento di alcune persone, diverse fra loro per gusti, estrazione sociale e carattere, che giocoforza saranno costrette ad affiancarsi nella lotta per la vita, ad affiatarsi e a scendere amicalmente a patti per sventare, sventrare e combattere la minaccia mortale che incombe, oscura e profeticamente tagliente come una lama sottilissima di rasoio, come l’accecante, allucinante tensione che si respira in questo capodopera inconfutabile dalla secca, abrasiva durata di 1h e 31 min., morbidamente calibrati nella suspense lugubre di un eccitante cardiopalma visivo-emozionale.
Carpenter attinge a uno dei suoi must, un film che deve aver amato alla follia, Un dollaro d’onore (Rio Bravo) di Howard Hawks, ma più che eseguirne un rifacimento, lo parafrasa e lo trasla in un’ambientazione decadentistica ai confini di una cittadina, Anderson in California, tetramente aggomitolata in una cappa soffocante dalla glaciale atemporalità.
Sì, il film è del 1976 e la vicenda si svolge in quell’anno, ma pare di assistere a un’avventura fuori dallo spazio-tempo, in una zona sospesa nel rabbrividente buio dell’impalpabile asincronia trascendente.
Sei uomini di una gang, in un ghetto losangelino, vengono trucidati dalla polizia e i voodoo, i sicari di una brigata armata e folle, giurano vendetta agli sbirri. Come dei kamikaze senza paura di morire, accecati dalla bramosia vendicativa a zenit della loro pazza visione del mondo, si scaglieranno contro le forze dell’ordine, costi quel che costi. In una missione suicida e catartica. Spericolata da puri guerriglieri metropolitani, ancor prima dei warriors di Walter Hill. In una notte interminabile, livida e spettrale ove rifulgeranno messianici d’ira implacabile, a incarnazione quasi incorporea del loro odio inesorabilmente livoroso nei confronti del bieco, pusillanime ordine costituito, esaltati dalla lor cieca furia maestosa, divini fantasmi senza volto di un assedio imperituro, dopo aver depositato il loro straccio insanguinato, in segno di plateale e incontrovertibile sfida alla polizia, dinanzi all’entrata del tredicesimo distretto del posto.
In questo distretto, c’è un nero appena nominato Tenente, Ethan Bishop (Austin Stoker), incaricato quella notte di prendere il comando della stazione di polizia, prima che venga spostata in una zona meno isolata. Qui, al tredicesimo distretto, sosta un pullman diretto a Sonora, che sta deportando tre pericolosi criminali in una prigione di massima sicurezza. E il poliziotto che li scorta è obbligato a chiedere asilo, per quella notte, a Bishop, perché uno dei prigionieri versa in precarissime condizioni di salute e la polmonite, di cui è affetto, sta rischiando di ammazzarlo. E lui non può permettere che un detenuto, in sua custodia, muoia senza che possa ricevere assistenza medica, almeno fin quando sarà sotto la sua supervisione.
Fra i tre prigionieri, spicca Napoleone Wilson (Darwin Joston), un uomo condannato alla pena capitale.
Potrei stare a raccontarvi altro, del padre sotto shock, a cui hanno appena ucciso la sua bambina, in una scena che all’epoca fece molto scalpore per la sua crudezza e non fu censurata per miracolo, che stremato approda al distretto e chiede protezione, per sfuggire agli assassini di sua figlia che lo stanno inseguendo… e dirvi che Napoleone dimostrerà a tutti di essere un cattivo più buono dei buoni che tanto buoni non sono affatto, o perlomeno potrei pedantemente, didascalicamente sottolinearvi come la labilissima linea di demarcazione fra straight men e criminals diventi qui inesistente e indistinguibile, perché i buoni sono molto più furbescamente, cruentemente sanguinari dei cattivi, più di quanto il loro onesto mestiere incorruttibile lasci presagire e supporre. Ma non mi va di peccare di pleonastica, descrittiva, minuziosa pignoleria esegetica. È nelle virili, spassosissime schermaglie, nei siparietti dialogistici fra il tenente e Napoleone, fra Leigh (Laurie Zimmer) e Napoleone stesso, che il film gioca tutte le sue carte migliori. Perché, in una tale situazione di pericolo estremo, ove il distretto è stato preso infinitamente di mira dai brigatisti psicopatici, bisogna sopravvivere e abbandonare ogni vera, artefatta o falsa maschera che la società ci ha frettolosamente appioppato ed è necessario entrar in combutta l’uno con l’altro, azzerando le differenze etico-comportamentali che ci hanno, almeno esteriormente, reso quel che, erroneamente, superficialmente siamo agli occhi degli altri, per rimanere a far parte di questo sporco, ingiusto, cannibalesco mondo.
Carpenter è autore anche del montaggio, nascondendosi dietro lo pseudonimo di John T. Chance, ovvero il nome del personaggio di John Wayne in Un dollaro d’onore, e firma la celebre track sonora, diventata un classico intramontabile. In più, si concede un fugacissimo cammeo nella parte di uno degli assalitori del distretto a cui sparano mentre cerca di entrare da una finestra.
Anni fa, non so perché, accostavo questo film a Fog. E devo dire che, nelle mie strambe emozionalità adolescenziali, la mia mente non mi aveva affatto giocato brutti scherzi. E il parallelismo era ed è quanto mai calzante. Perché Distretto 13 è in fondo una storia di ectoplasmi e nosferatu, di zombi alla Romero, di morti giammai davvero morti che pare risuscitino e si rigenerino, spiriti imprendibili che danzano nella penombra della luna, quando la città è avvolta dalla notte più profonda e misterica.
Un impareggiabile capolavoro imitato e stra-copiato, che ha avuto un remake per la regia di Jean-François Richet, e in qualche maniera è stato futuristicamente rifatto dallo stesso Carpenter nel “newquel” Fantasmi da Marte.
Un film che alcuni considerano un caposaldo perfino di quel tipo di pellicole ad alto tasso scioccante e terrorizzante appartenenti al sottogenere Shoxploitation.
E che, invero, è talmente grande e stratificato che non puoi collocare in nessuna classificazione generica. È un metropolitano western, un thriller, un film fantascientifico. E quant’altro.
Forse solo immane Cinema altro.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema: Cape Fear – Il promontorio della paura di Martin Scorsese con Robert De Niro e Nick Nolte
Oggi voglio parlarvi di un film che certamente avrete visto almeno una volta in vita vostra, ovvero Cape Fear – Il promontorio della paura, remake spaventosamente moderno, datato 1991, dell’omonimo film del 1962 di J. Lee Thompson con Robert Mitchum e Gregory Peck. Che qui tornano in brevi camei, assieme a Martin Balsam, in ruoli antitetici rispetto alla pellicola originaria. Mitchum fa il poliziotto e Peck l’avvocato difensore del criminale.
Il film originale, così come naturalmente di conseguenza quest’affascinante, magniloquente rifacimento di Scorsese, è tratto dal romanzo The Executioners di John D. MacDonald.
La regia di Cape Fear – Il promontorio della paura inizialmente doveva essere di Spielberg che aveva già preso accordi con Robert De Niro per affidargli la parte ingrata ma superbamente, peccaminosamente attraente di Max Cady. Ma Spielberg ritenne, col senno di poi, che il materiale fosse troppo violento, decidendo di optare per Schindler’s List. Cosicché la regia passò a Martin Scorsese dietro insistiti suggerimenti di Spielberg stesso che di Cape Fear rimase produttore, sebbene non accreditato. Nonostante le diffidenze e le mille titubanze di Scorsese, il quale alla fine cedette e si lasciò piacevolmente persuadere a dirigerlo, chiedendo però espressamente allo sceneggiatore Wesley Strick di apportare notevoli modifiche alla sceneggiatura, per renderla più magmaticamente metafisica, affinché la semplice storia di vendetta contenuta nel soggetto di partenza, che è il centro nevralgico della vicenda e il motore propulsivo che innesca le azioni comportamentali fra i personaggi, venisse trasformata e trasmutata in un ritratto cupamente angoscioso da thriller raffinatamente psicologico. Per creare maggiore dualità introspettiva fra i due opposti protagonisti principali e tratteggiar meglio e con più finezza analitica le loro sfaccettate, perverse personalità ambigue. E specularmente tanto all’apparenza distanti quanto similmente univoche, ottuse e ripugnanti, spregevolissime nella loro radicalizzata visione del mondo. Il pazzo psicotico che, dopo le brutture e le violenze subite in penitenziario, si è forgiato in una corazza invincibile da mostro superomista, l’incarnazione muscolosa del Krueger di Nightmare, e il borghese adagiatosi nell’ipocrita mestizia falsamente felice di una vita sporcamente ambiziosa e decorosa.
Sì, perché la trama è abbastanza elementare. Max Cady (Robert De Niro), uno stupratore, ha scontato una pena durissima in carcere e ora, riagguantata la libertà furentemente agognata, sofferta e straziantemente ambita, vuole terribilmente vendicarsi del suo ex avvocato, che l’ha tradito, ché omise un fascicolo decisivo che poteva alleggerirgli l’estenuante, brutale, sfibrante, crudelissima condanna esiziale.
Che l’ha costretto a vivere sulla propria anima martoriata e sulla sua anima coartata e annientata un patimento estremo, quasi biblico, da sacrificale bestia umiliata. E che l’ha indotto ad animalizzarsi furibondamente e a elevarsi filosoficamente per rigenerare sé stesso nel cuore diveltogli.
Allorché, Cady comincia spietatamente a terrorizzare l’avvocato Bowden (Nick Nolte) prendendo finemente di mira sua moglie (Jessica Lange) e la sua figlia adolescente (Juliette Lewis), per far ribollire tutti di paura. La paura più intangibilmente sulfurea ma mefistofelica e spettrale. E peraltro il suo “stalking” assiduo e agghiacciante non può essere tacciabile di crimine perché Cady sa come subdolamente agire, senza mai sfociare nell’illegalità facilmente punibile.
Esploderà, dopo tanta viscidità, dal reliquiario delle infide, ingannatrici, reciproche sfide psicologiche fra Cady e Bowden, la violenza catartica, quasi apocalitticamente sanguinosa, e rimarrà soltanto l’incancellabile ricordo di un incubo abissalmente contagioso. Sì, perché Cady morirà finalmente, ma la famiglia Bowden, dopo quel raccapricciante sgomento tanto sterminatamente perduratosi, non sarà più come prima. È stata mutata indelebilmente nella sua percezione del mondo stesso, nonostante possa sembrare che sia rimasta sana e salva, all’apparenza illesa.
Un film metaforico imperfetto, troppo caricato così come lo è volutamente la pur eccelsa prova attoriale di De Niro (candidato all’Oscar assieme alla prodigiosa e fragile Juliette Lewis), pieno di eccessi, incongruenze narrative e iperboli stilistiche non sempre impeccabili. Ma resta un film di granitico fascino morboso, che si può seguire appassionatamente sia sul versante ludico da film d’intrattenimento di genere sia sul versante esegetico di una storia combattiva da gatto col topo, ma che si può filtrare persino anche attraverso letture, appunto, tipicamente scorsesiane. Esemplificate dalle molte scene nelle quali il personaggio di Cady, marcio e oramai umanamente lurido, si confronta con la giovinezza repressa e inascoltata incarnata del personaggio della Lewis, speranzosa ma timida, impaurita e al contempo curiosissima, dilaniata e soffocata nel tunnel della polarità turbativa fra l’irresistibile voglia trasgressiva di crescere e la mesta rassegnazione di accettare gl’ipocriti precetti impartiteli dai genitori.
Tormentata dal dubbio giovanissimo e bellissimo se scegliere nella vita o farsi scegliere dalle regole farisee della società.
Il film sbanda più volte, contiene esagerate scene di violenza a mio avviso, qui sì, gratuite e troppo effettistiche, sganciate dalla poetica scorsesiana per adeguarsi semplicemente a qualche disambigua standardizzazione negativamente hollywoodiana dello splatter più macabramente scontato e un po’ disgustoso.
Ma sono colpe e pecche che possiamo perdonargli. Possiamo promuovere questa storia di peccati e redenzioni, di rinascenze e resilienze mostruose, a pieni voti.
Fotografia limpida e iridescente del chiaroscurale, magico e stellato, lynchiano Freddie Francis.
De Niro, quell’anno, perse ai punti l’Oscar contro un “mostro” ancor più titanico, trionfale e scioccante del suo Max Cady, l’Anthony Hopkins/Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti.
E sarebbe stimolante un giorno scrutare e studiare i parallelismi fra le due performance.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – Al di là della vita di Martin Scorsese con Nicolas Cage
Ebbene, in questi giorni Martin Scorsese è a Bologna e, a fine anno, come tutti sappiamo, è atteso col suo già epocale The Irishman con Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, anche se, essendo una produzione Netflix, non sappiamo se il film, com’è molto probabile ma non certo, verrà presentato in sala o uscirà direttamente sulla piattaforma di streaming più famosa al mondo. Quel che è quasi assicurato è che questo mastodontico kolossal, per poter gareggiare agli Oscar, verrà mostrato in anteprima prima della fine del 2018. E ci auguriamo davvero che ciò possa accadere, che la post-produzione non si attardi troppo per via dei notevoli, massicci effetti speciali che necessitano di mesi e mesi di affinamento, sebbene noi spettatori non lo potremo vedere prima dell’anno a venire. Detto questo, quale migliore occasione per rispolverare una perla magnifica di Scorsese, Al di là della vita (Bringing Out the Dead), una di quelle pellicole forse talmente belle, nitidamente angoscianti, cristologica, paurosamente dostoevskijana, soffusamente maledetta che nessuno prende mai in considerazione e, quando si parla di Scorsese, in pochissimi citano? Wikipedia perfino si è scordata di essa e le dedica solo un trafiletto banale che la liquida in poche epigrafiche righe.
Perché trattano in questo modo quello che invece, stupendamente, è l’ultimo grande capolavoro di Scorsese? Sì, avete letto bene. Permettetemi di obiettare contro chi sostiene che i film con DiCaprio siano grandiosi, personalmente, è paradossale lo so, Gangs of New York, The Aviator, The Departed (seppure oscarizzato), Shutter Island e l’insopportabile, sopravvalutato e indigesto The Wolf of Wall Street, non me ne voglia il comunque superlativo DiCaprio, sono proprio i suoi film peggiori. Non ho detto brutti ma peggiori perché sono un avido compromesso con le case di produzione che hanno rattrappito e strozzato il virulento, sanguigno, passionale Scorsese nel mainstream delle logiche commerciali. Film elegantemente magistrali ma privi di quel suo tocco viscerale, poeticamente straziante, funambolico e furioso delle sue massime opere. E, tralasciando DiCaprio, Hugo Cabret e Silence sono, sì, vette altissime, ma scevre della potenza cinematografica più puramente scorsesiana. Laddove, di contraltare, invece i suoi capidopera c’avevano sempre dissanguato emozionalmente, turbandoci nel loro essere furentemente sleepers. Quei film che t’entravano sottopelle, nell’asma dell’anima meandrica squarciata da tanta venustà turbativa, ché non si scollavano più dagli occhi pulsanti e dal cuore nostro dell’interminabilmente adorarli in acute vertigini dell’ammirazione più incantata.
Sì, Al di là della vita è l’ultimo, vero capolavoro di Scorsese. Anno 1999, Scorsese opziona l’allucinata e allucinante novella di Joe Connelly da noi tradotta come Pronto Soccorso, affidandosi al suo folle scudiero Paul Schrader, che riesuma, elucubra e vivifica incendiario il loro masterpiece assoluto Taxi Driver, aggiornandolo, spostandolo e retrodatandolo ai primi anni novanta, in una New York degradata, cimiteriale ma ripulita dallo spietato sindaco Rudolph Giuliani.
Un’altra storia notturna, come Taxi Driver, un’altra parabola delirante e pregna, debordante di umorismo nero come Fuori orario, scandita in sussulti tremolanti, fievolmente fluida e poi cesellata con vigoria, destrezza spericolata da un’infermabile e infernale macchina da presa mobilissima e mai doma, spalmata sull’intaglio sottilissimo d’immagini sghembe, stroboscopiche, fra neon lampeggianti, sirene intermittentemente allineate al brivido corrosivo di anime impazzite, fra catartiche ed esplosive notti livide immerse nella fotografia sbiadita e poi satura, iridescente di Robert Richardson.
Martin Scorsese vuole Edward Norton nei panni del protagonista perché il Norton di quel periodo è praticamente la reincarnazione di Robert De Niro. E il protagonista di questo trip acido e romanticamente doloroso altri non è che il fantasma riposseduto di Travis Bickle, un Don Chisciotte smarrito nella languidezza esiziale del suo perenne tormento esistenziale, assalito da inauditi sensi di colpa, afflitto da un’insanabile, ferale, insistente insonnia spettrale.
Ma Scorsese deve girare con la Paramount e Nicolas Cage, il quale proprio con la Paramount aveva firmato un contratto che lo legava a tre film da interpretare, dopo Face/Off e Omicidio in diretta, libero in quel momento da altri impegni, è stata la scelta pressoché obbligata della produzione.
E, in fin dei conti, la scelta forzata di Scorsese non si è rivelata poi così disdicevole perché a quei tempi Nicolas Cage era genialmente stralunato, iracondo e tenero, buffo, patetico, disarmonicamente aggraziato nelle sue movenze ipercinetiche, dinamicamente (dis)articolate come un invertebrato clown sardonico e sbeffeggiante, la faccia giusta per Frank Pierce, paramedico allo sbando in una New York sull’orlo del collasso nervoso. E i suoi occhi azzurro-verdi son stati un abbinamento fotocromatico strabiliante fra luci e colori liquidamente magmatici.
Frank non è riuscito a salvare una ragazza tossica, morta di overdose, in una freddissima mattina di neve le si è accasciata fra le sue braccia impotenti e mortificate. E da allora vaga come un ectoplasma in una città-metropoli dedalica, scura, tetra e al contempo variopinta, pervasa dalla violenza spasmodica, con sguardo sommesso e poi inferocito, e platonicamente, nella sua pietas, s’innamora di una ragazza bionda di nome Mary Burke come la madonna (Patricia Arquette), il cui padre attende di risvegliarsi dal coma.
In questa sua missione viene accompagnato da tre colleghi più fuori di testa di lui, tre angeli diabolici e sgangherati, degli ubriachi di lavoro a cui il proprio difficile mestiere ha dato al cervello. Incarnati da tre caratteristi da applausi a scena aperta, il grasso e smisurato John Goodman (Larry Verber), Ving Rhames (Marcus) e quell’istrione fumantino e rubicondo di Tom Sizemore (Tom Wells) prima che lo perdessimo…
Dolore, dolore e ancora dolore. E poi i fuochi artificiali nell’immensità luminescente di grattacieli che lambiscono carezzevolmente il cielo, nella vastità della vita sterminata nel suo disperato protendersi verso l’irraggiungibile, vicinissimo e lontano al di là…
Siamo figli delle stelle e dei loro soavi, martorianti ruggiti. Sin al termine di ogni notte.
Di ogni cuore vivo o già morto, resuscitato o crocefisso.
di Stefano Falotico
211 – Rapina in corso, recensione del film con Nicolas Cage
Ecco, se in queste serate oramai estive, il caldo vi asfissia e cercate il refrigerio dell’aria condizionata in una sala cinematografica, non pretendete niente da un film e volete passare un’ora e mezza di totale svago scacciapensieri, questo 211 potrà anche non infastidirvi. È come sorseggiare una bibita ghiacciata dopo il caldo pressante. Anche se questo film è tutt’altro che una bevanda dissetante e neppure è una bella boccata d’aria fresca, potrebbe turbinosamente rovinarvi la digestione e, per la sua evidentissima bruttezza, darvi il voltastomaco dopo una cenetta sfiziosa a base di prosciutto e melone.
Cominciamo col dire che 211 è uno di quei film che un tempo appartenevano alla categoria denominata fondi di magazzino, cioè quelle pellicole che non puoi far uscire in periodi caldi, cinematograficamente parlando (non mi riferisco più alla torrida afa atmosferica, adesso), che sono di contraltare proprio i rigidi mesi invernali, nei quali le major sfoderano i loro pezzi da novanta e le pellicole da Oscar, e allora, dopo una lunga attesa, vengono rilasciate in periodi abbastanza morti come metà Giugno, quando oramai il Cinema di serie A, quello che conta, sta andando in vacanza.
Uno di quei film direct to video, che in Italia hanno pensato bene invece di destinare in sala. Innanzitutto perché c’è Nicolas Cage, uno che non è più un attore A–lister a Hollywood e la cui carriera sta andando a rotoli completamente, ma che a noi italiani continua a piacere, che vive di un’aura attrattiva morbosamente affascinante perché è conclamato, accertato, iper-acclarato e fuor d’ogni dubbio che si stia svendendo, scialacquando la nomea creatasi del comunque ottimo attore che è stato in passato più e più volte, girando 5/6 film all’anno a cui non crede neanche lui, e a cui presta il suo faccione unicamente, sfacciatamente per risanare i debiti nei quali è affondato, ma rimane tutto sommato un simpaticissimo.
Uno di quei film, questo 211, che dopo trenta secondi dall’inizio capisci che è tremendamente inguardabile. La fotografia sembra quella di un gialletto tedesco da sabati pomeriggio, e intuisci al decimo fotogramma, però, che un film così non potrebbero invece tranquillamente programmarlo alla tv in quelle ore, in quanto contiene molte scene di violenza, seppure stilizzata, con notevoli spargimenti di sangue.
Quindi, è un film dunque non solo inclassificabile ma che, usando un gergo informatico da blog, è fuori da ogni categoria possibile, uncategorized. Ciò va premesso in maniera categorica.
D’altronde, non possiamo prendercela col suo regista, York Alec Shackleton, ex snowboarder e campione di skate, affascinato dai disagi giovanili. E infatti nel film vi è un ragazzino nero bullizzato.
Quali competenze può avere uno come Shackleton?
È già troppo quello che fa, tra esplosioni e lunghe sparatorie, filmate con poca grazia e tagli rudemente televisivi, ma almeno ci ha provato e, lungo i novanta minuti di durata, perfino ci ha stupito con alcune sequenze genialmente bizzarre, esteticamente terribili, ma coraggiosissimamente intrepide, senza sprezzo del pericolo, prive di qualsiasi logica d’intrattenimento né minimamente dotate di senso filmico, scevre dell’ABC del ciò che è bello e dignitosamente presentabile. Perché dal punto di vista puramente oggettivo le scene son talmente malfatte, appallottolate fra pistolettate disarmonicamente grezze, dal brusco ritmo aspro e antiestetico da poter, per paradosso, stimolare e allettare il divertimento dello spettatore smaliziato che, ben conscio di assistere a una sciocchezza pedestre, potrebbe addirittura prenderla appunto a ridere, sì, divertirsi. E salire sul film, come si diceva una volta. Compreso subito che è un film dozzinale e sciattissimo, ove quasi tutti gli attori sono imbarazzanti e la sceneggiatura un infarcimento sconclusionato di battute oscene, lo si può seguire fin all’ultimo secondo, almeno per vedere come andrà a finire.
La trama è piuttosto semplice. Quattro criminali terroristi assaltano una filiale bancaria di Los Angeles, e prendono in ostaggio ventisei persone. Il film è dichiaratamente ispirato alla più sanguinaria rapina di tutti i tempi…
Sembra un giorno come tutti gli altri. L’agente di polizia Mike Chandler (Nicolas Cage) è in pattugliamento col collega Steve MacAvoy (Dwayne Cameron), che è anche il suo genero e che quella mattina ha ricevuto una lietissima novella da sua moglie Lisa (Sophie Skelton, cioè appunto la figlia di Chandler, l’esaltante, gioiosa notizia che aspettano un bambino.
Quel giorno i due hanno caricato anche il ragazzino nero, da me menzionato prima, messo in punizione dalla preside della scuola dopo che, angariato a morte dai malfidati compagni bulli, esasperato, ha aggredito uno di loro. I due poliziotti devono scortarlo e portarlo a spasso…
Al che i tre, ragazzino compreso naturalmente, si accorgono che una banca è stata assaltata. E Chandler prova disperatamente a negoziare con i malviventi, ma non c’è niente da fare, i quattro criminali non vogliono scendere a patti e comincia la carneficina. I criminali sono armati fino ai denti e non si fanno mancare niente, un armamentario bellico da caserma militare.
Ma tutto è bene ciò che finisce bene. Steve, che sembrava spacciato e morto, a un anno di distanza dagli eventi, è vivo e vegeto, è nato il figlio e, assieme al ragazzino nero, ad amici e parenti, aspetta che Chandler rincasi dopo la sua corsetta “scaldamuscoli” per festeggiarlo. Perché è un bravo ragazzo e nessuno lo può negar!
I cattivi sono tutti morti ammazzati, giustizia è fatta, i nostri eroi sono rimasti illesi e vivono felici e contenti. Allegria!
Incredibile? No, tutto vero e ridicolmente, arditamente filmato con estrema serietà.
Il regista si è burlato di noi alla grandissima? Può darsi…
Ma che c’importa?
Perché dunque distribuire un tipo di produzione del genere in sala? Perché c’è lui, Nicolas Cage. E infatti non succede con nessun altro attore, che invece viene relegato direttamente, senza filtri all’home video. Lui merita il passaggio in sala. Perché Nicolas Cage è impazzito, cinematograficamente è degenerato, e noi sappiamo che, salvo miracoli dell’ultima ora, non lo vedremo mai più, che ne so, in un film di Lynch.
Perché Nicolas Cage, quando esibisce senza tagli, acconciature eccentriche o trucchi posticci, il suo abituale, stempiato look a caschetto con tanto di occhiali da sole e ciclopiche lenti scure, emana ancora fascino da vendere. E, fra allucinanti, disturbanti scene simil-My Life con Michael Keaton e il ragazzino che armeggia col cellulare, fra inquadrature a loro volta da iPhone, è lui che “giganteggia”, Nicolas. Smodato, smidollato, commovente, con la faccia gonfia e le occhiaie profonde, affetto da vistosa bolsaggine e flaccido doppio mento, che si dà come un dannato e non teme niente e nessuno, che della Critica se ne frega altamente, e avanza di filmaccio in filmetto come se nulla fosse. Adesso che non è più una star, la sua recitazione è diventata umanissima, tenerissima. Da perfetto uomo della “normal people”, è divenuto uno di noi, affettuoso, anche un po’ imbranato e sfigato. Dinoccolato, ingobbito, anchilosato, stanco, decaduto. Giammai però arreso. Immarcescibilmente Cage!
Sì, 211 è un Nicolas Cage movie. A tutti gli effetti, nel bene e nel male. Vampirizzato dalla sua folle deriva attoriale.
Ecco perché, volenti o nolenti, dovete vederlo.
E poi c’è pure il suo grasso figlioccio, Weston Cage.
Cosa volete di più?
di Stefano Falotico
Welcome to Marwen – Official Trailer
This holiday season, Academy Award® winner Robert Zemeckis—the groundbreaking filmmaker behind Forrest Gump, Flight and Cast Away—directs Steve Carell in the most original movie of the year. Welcome to Marwen tells the miraculous true story of one broken man’s fight as he discovers how artistic imagination can restore the human spirit. When a devastating attack shatters Mark Hogancamp (Carell) and wipes away all memories, no one expected recovery. Putting together pieces from his old and new life, Mark meticulously creates a wondrous town where he can heal and be heroic. As he builds an astonishing art installation—a testament to the most powerful women he knows—through his fantasy world, he draws strength to triumph in the real one. In a bold, wondrous and timely film from this revolutionary pioneer of contemporary cinema, Welcome to Marwen shows that when your only weapon is your imagination…you’ll find courage in the most unexpected place. The epic drama is produced by Oscar®-winning producer Steve Starkey (Forrest Gump, Flight), Jack Rapke (Cast Away, Flight), and Cherylanne Martin (The Pacific, Flight) of Zemeckis’ Universal-based ImageMovers banner produce alongside the director. It is executive produced by Jackie Levine, as well as Jeff Malmberg, who directed the riveting 2010 documentary that inspired the film.
Creed II, il primo deludente trailer italiano con Sylvester Stallone, Michal B. Jordan e Dolph lundgren (?)
Ebbene, la Warner Bros ha rilasciato pochi minuti fa il primo trailer italiano del sequel dello spin–off sulla saga balboiana, ovvero l’atteso Creed II.
Film che ha per protagonisti gli interpreti del primo, ovvio, ovvero Michael B. Jordan, nei panni ancora una volta del grintoso Adonis, figlio del compianto e defunto Apollo Creed, del granitico Sylvester Stallone, di Tessa Thompson as Bianca, e Dolph Lundgren in quelli di Ivan Drago.
Deludente, dicevo. Sì, perché come sappiamo il film verterà sullo scontro generazionale, da combattere come sempre sul ring, fra Adonis e il figlio di Ivan Drago, interpretato dal parimenti gigantesco Florian Munteanu. Una montagna di muscoli cattivissima e brutale quanto il padre, colui che uccise Apollo nel quarto capitolo di Rocky.
Ora, premesso che Rocky IV è un film cinematograficamente assai discutibile, tanto per essere eufemistici, già dapprincipio l’idea di Stallone, che di questo film è sceneggiatore, di riesumare Ivan Drago, mi è parsa assai banale, un espediente tristissimo, una scusa bella e buona, assai patetica ma soprattutto bieca e capziosa, per allungare il brodo a fini prettamente, squallidamente commerciali. Ma, chissà, Stallone potrebbe invece aver estratto dal cilindro un imprevisto colpo di genio e, quando la pellicola uscirà da noi, il 29 Novembre, invece entusiasta plaudirò alla sua lungimiranza creativa. Anche se ne dubito…
Ma, al momento, permettetemi di dire che mi sembra una delle idee più stupide e infantili di sempre.
E poi di Ivan Drago, che doveva essere lo “spettacolo” del film, in questo trailer… nemmeno l’ombra. Dov’è? Voi l’avete visto? A me è sinceramente sfuggito. Ah sì, s’intravede fugacemente, appunto. Un mezzo frame da lente d’ingrandimento.
Tutto qua?
Stallone compare nel filmato all’inizio, sciorinando trita e melensa retorica d’accatto, e poi scompare. E le immagini sono pervase da una mortifera atmosfera di morte che, più che fascinosamente tenebrosa, ci trasmette l’idea che il regista Steven Caple Jr. sia stato molto svogliato, filmando il tutto in maniera sciatta e frettolosa.
Insomma, per farla breve, tira aria di stanchezza, di svogliatezza, di noia. E, ripeto, spero che, alla sua uscita, Stallone & company possano smentirmi.
di Stefano Falotico
Dumbo di Tim Burton, teaser trailer anche in italiano
From Disney and visionary director Tim Burton, the all-new grand live-action adventure “Dumbo” expands on the beloved classic story where differences are celebrated, family is cherished and dreams take flight. Circus owner Max Medici (Danny DeVito) enlists former star Holt Farrier (Colin Farrell) and his children Milly (Nico Parker) and Joe (Finley Hobbins) to care for a newborn elephant whose oversized ears make him a laughingstock in an already struggling circus. But when they discover that Dumbo can fly, the circus makes an incredible comeback, attracting persuasive entrepreneur V.A. Vandevere (Michael Keaton), who recruits the peculiar pachyderm for his newest, larger-than-life entertainment venture, Dreamland. Dumbo soars to new heights alongside a charming and spectacular aerial artist, Colette Marchant (Eva Green), until Holt learns that beneath its shiny veneer, Dreamland is full of dark secrets.
Racconti di Cinema – Starman di John Carpenter
Eccoci arrivati, in quest’excursus filmografico volutamente anacronistico, a Starman, pellicola del 1984.
Dopo il successo commerciale di Christine – La macchina infernale, Carpenter accetta un film su commissione, che potremmo definire un’autoriale commistione fra i suoi stilemi, come la poetica dell’amore fra diversi e l’aspra, dura critica al sistema militare americano, e la strizzatina d’occhi, necessaria e pressoché obbligatoria, verso quel grande pubblico che l’aveva tradito, in termini d’incasso, per le sue due precedenti pellicole. Arrivando a un compromesso ineludibile per potersi permettere di finanziare progetti assolutamente più personali, non rinunciando però, come detto, al suo sguardo d’autore.
Starman diventa allora il film più odiato e bistrattato, potremmo dire, dai carpenteriani e, come poi parimenti accadrà con Grosso guaio…, guardato immediatamente con sospetto dai suoi detrattori. Inutile dire che non è di certo il suo capolavoro o la sua opera migliore e più compiuta, e le scelte imposte dalla produzione hanno avuto il loro rilevante peso sul risultato finale, inficiando quello che poteva essere, e ne aveva tutti i crismi, un magnifico film. Che però rimane grande e molto poetico, merito anche della musica di Jack Nitzsche, candidata al Golden Globe.
Qui Carpenter cambia subito rotta, devia dalle consuete sue traiettorie stilistiche e c’immerge in un’atmosfera nostalgica temperata in un tiepido, lirico romanticismo. Un’astronave aliena viene dirottata da un attacco terrestre ed è costretta a un atterraggio di emergenza.
L’alieno abbandona la carcassa della sua astronave e si mette alla ricerca di qualche forma di vita umana su cui trasmigrare. Giunge ai piedi della casa di Jenny Hayden (Karen Allen), una vedova che ancor soffre immensamente per la morte del marito e, infatti, passa inconsolabilmente il tempo a rivedere vecchi filmini in cui lei e il suo defunto marito si amavano melodiosamente sulle note delle loro canzoni preferite.
L’alieno, circospettamente, quando lei sta per addormentarsi, s’infiltra in casa, avvista una foto in cui lei e il marito sono felicemente l’una nelle braccia dell’altro, al che, come se dall’ologramma trasfigurato del marito volesse, diciamo, espatriare nel corpo del consorte defunto, ne fa una fotografia genetica, per appurare se trasferirsi in quel corpo gli possa convenire. Sì, l’uomo (Jeff Bridges) era robusto, in salute, adatto alla sua umanizzante metamorfosi. Ecco allora che s’incarna dapprima in un feto, nel neonato del marito materializzatosi sul pavimento e lentamente, a vista d’occhio, sotto lo sguardo dell’adesso sveglissima moglie, cresce progressivamente, assumendo le sembianze del marito. Ne diviene morfologicamente la sua quasi perfetta copia clonata. Una mirabolante trasformazione resa esemplarmente dagli effetti speciali del mago dell’animatronica Rick Baker, qui al servizio dell’estro visionario di Carpenter. Un prodigioso effetto speciale che all’epoca ebbe il suo notevole impatto e che, rivisto oggi, potrebbe apparire a noi smaliziati uomini del nuovo millennio senz’altro datato ma, ricordiamoci, eravamo nei primi anni ottanta, in piena era analogica e il morphing e la computer graphics stavano soltanto facendo i loro primi passi. E, comunque, anche ora che affondiamo gigantescamente in piena epoca informatico-computerizzata, quest’effetto speciale sorprendentemente continua a stupefarci. Incantevole.
L’alieno come ha fatto a riprodursi nel corpo dell’uomo morto? Dal DNA di una piccola ciocca di capelli?
Lo scopriremo lungo l’arco del film o forse non lo sapremo mai. L’alieno rapisce dunque la donna, senza però usarle violenza, addomesticandola a livello subliminale perché lei n’è terrorizzata ma al contempo rivede in lui il marito morto e ciecamente se ne fida. Proverà a fuggire ma poi, come travolta da un’irrazionale sentimento di attrazione amorosa, facilmente comprensibile, visto che l’alieno personifica esteticamente il suo perduto, insostituibile marito, desisterà, si piegherà affettuosamente al suo volere e lo assisterà nel suo viaggio di ritorno. Innamorandosene completamente. Ma lui deve lasciarla perché altrimenti morirebbe e in Arizona i suoi amici alieni lo stanno aspettando. E allora Starman e la donna intraprenderanno un’avventura, non priva d’imprevisti, per portare a termine la missione.
Ma il Governo è sulle tracce di Starman, Starman rappresenta l’incarnazione reale dell’esistenza della vita aliena nell’universo. E dunque la Scienza, personificata dal burocratico Mark Shermin della polizia federale (Charles Martin Smith), non può lasciarsi scappare, per nessuna ragione al mondo, un’occasione di questo tipo, anzi, potremmo dire, non può assolutamente rinunciare a quest’incontro ravvicinato del terzo tipo. Deve far sì che si concretizzi. Costi quel che costi. A costo addirittura di uccidere l’alieno. Lo scopo primario è quello di analizzarlo e vivisezionarlo, vivo o esanime, ferito o morto ammazzato che sia.
Sarà un viaggio intervallato da momenti di fatato lirismo, come in alcune delle scene più riuscite e commoventi dell’intera pellicola. Quando Starman, in un’area di servizio, ai piedi di una tavola calda, risveglierà un cervo abbattuto da un bruto cacciatore e la donna, assistendo meravigliata ai suoi poteri divini, se ne turberà infatuata. Estaticamente e ipnoticamente attonita. Oppure quando Starman confiderà alla donna che aspetterà un bambino da lui.
E Karen Allen è stata eccellente nel tratteggiare il suo dolente personaggio difficile di vedova irrimediabilmente ferita dalla tragedia della morte del marito, sospesa tra l’intimo dolore trattenuto, la moderata euforia dinanzi agli eventi incredibili che le accadono attorno, e via via sempre più fragilmente sedotta e affascinata da questo marziano identico fisicamente al suo ex consorte e contemporaneamente così diverso. Una superba prova d’attrice. E ci spiace che la Allen sia stata così spesso emarginata da un’Hollywood cinica che mai davvero ha saputo riconoscere la sua delicata bravura. Anche Jeff Bridges è bravissimo, e infatti è stato candidato all’Oscar, ma non era poi così complicato, tutto sommato, caratterizzare un personaggio stralunato e, appunto, alieno, buffo e tenero, robotico e con lo sguardo perennemente esterrefatto e perso nel vuoto. La cosiddetta prova recitativa che, a prima vista, potrebbe sembrare stupefacente e invece è molto più facile di quel che possa apparire. Non occorre avere un pozzo di scienza attoriale né spiccate qualità per interpretare un personaggio che, già di per sé, è simpatico, farsesco e strambo. Basta un pizzico di manierismo e una bella faccia tosta come quella del Bridges di quegl’intrepidi anni allegri della sua giovinezza matura. Ma rimane una prova abbastanza toccante. Alla fine il maledetto Governo cesserà la testarda, ottusa guerra e Starman volerà via come un angelo sceso sulla Terra destinato a un aldilà adatto alla sua alterità. Forse migliore della Terra, forse peggiore. Sulle note della colonna sonora dolcemente malinconica e trasognante.
Da rivedere, da riamare, da sciogliere nelle emozioni ingenuamente sobrie, profumate di poesia semplice e infantilmente morbida.
di Stefano Falotico