Racconti di Cinema: Kill Bill – Volume 2 di Quentin Tarantino
Ecco la seconda parte del dittico Kill Bill, film suddiviso in due tronconi per puro scopo commerciale. E anche perché negli anni duemila nessuno avrebbe visto al cinema un film di quattro ore. Nessuno, esattamente, no. Io sì, ma io non sono la maggioranza del pubblico pagante.
E allora, dopo solo un paio di mesi di distanza dalla release del primo, ecco questo secondo capitolo, o meglio Volume, della durata di 2h e 17 minuti.
Innanzitutto, ci viene ben spiegato con una lunga scena che La Sposa non è stata aggredita e massacrata nel giorno delle sue nozze, bensì durante le prove di matrimonio.
Ed entra in scena, mellifluo e con un flauto da Pifferaio Magico, Bill, un David Carradine macilento ed emaciato, dai capelli crespi, sfibrati e dal viso cosparso di profonde rughe scavate nella pietra dei suoi duri lineamenti spigolosi.
Una figura titanica, un padre-amante terribile e crudele, spietato, che non perdona che la sua donna preferita si voglia sposare, come dice lui, con un gran coglione, e si riduca a passare tutto il resto della sua vita a smerciare dischi usati in un negozietto scalcagnato assieme a questo ragazzone tenerissimo ma babbeo, trascorrendo le sue giornate nell’arida, vuota contea di El Paso.
E aveva già dato ordine ai suoi scagnozzi di fare irruzione nella cappella nuziale e ammazzare tutti.
Quindi, dopo questo avvolgente e cupo flashback tutto in bianco e nero, con annesso il cameo dell’attore per eccellenza di Tarantino, l’onnipresente Samuel L. Jackson nei panni di Rufus, suonatore di pianoforte, la storia riprende e la programmatica vendetta della Sposa viene scansionata da Tarantino, potrei dire, in ogni minuzioso dettaglio. Con scrupolosità eccessiva.
Le rimangono, oltre a Bill per l’attesa dell’epico scontro finale, altre due persone da ammazzare.
Ovvero Budd (Michael Madsen), che adesso è un rottame alcolizzato che sbarca come può miseramente il lunario, umiliandosi come buttafuori malpagato, e la luciferina donna da un occhio solo, Elle Driver (Daryl Hannah), il cui nome in codice è Mountain Snake.
La Sposa trova Budd ma il piano di uccisione non va come si augurava. Budd la trafigge al petto, sparandole a bruciapelo col fucile e poi decide di seppellirla viva.
La Sposa viene sepolta, una sepoltura atroce e barbarica, è legata alle mani, e può solo dunque attendere in modo straziante di esalare l’ultimo respiro, aspettando che l’ossigeno del loculo si esaurisca? No, perché allora lei ricorda gli insegnamenti del suo maestro Pai Mei, e riuscirà miracolosamente a fuggire. Ricominciando la caccia.
Adesso non vi spiegherò cosa avviene ma quel che avviene è certamente la parte del film che m’ha convinto meno. Budd è un cattivo assurdamente ridicolo, senz’alcuno spessore, si fa fregare con una facilità che lascia perplessi ed esterrefatti, proprio lui che era un sicario infallibile del micidiale Bill. Ed ecco che spunta un serpente letale, il Black Mamba, che è peraltro il nome in codice della Sposa, il cui vero nome all’anagrafe è a sua volta Beatrix Kiddo.
Se questo serpente non avesse morso Budd che sarebbe successo? E perché Elle Driver, dinanzi a Budd agonizzante e in fin di vita, gli recita un’insulsa pappardella dal suo bloc–notes come fosse un documentario del National Geographic o di Quark? E perché queste donne, nella roulotte di Bill, si picchiano, se le danno a morte, rotolano sul pavimento, distruggono tutto, fracassano le pareti e del Black Mamba non scorgiamo neanche l’ombra e questo serpente velenoso appare invece soltanto a combattimento terminato?
Di tali incongruenze e grossolanità rendiamo conto a Tarantino, che in questa scena si è divertito troppo infantilmente, perdendo di vista ogni seria coerenza logica, burlandosi sinceramente della nostra intelligenza di spettatori esperti e maliziosi.
Lasciando perdere ciò, La Sposa finalmente, dopo tante peripezie, si reca di soppiatto a casa di Bill.
E scopre che sua figlia è ancora viva.
L’ultimo capitolo… e sappiamo già come andrà a finire…
Carradine è straordinario, e non comprendiamo come mai abbia ottenuto solo una nomination ai Golden Globe, quando a mio avviso era davvero meritevole dell’Oscar come Miglior Attore non Protagonista, con buona pace del Morgan Freeman di Million Dollar Baby, che vinse, e certamente la scena in cui recita la teoria dei supereroi e di Superman dinanzi alla Sposa è da antologia. E non a torto è stata “youtubizzata” a mo’ di cult istantaneo, da vedere ad libitum, in loop continuo.
Ma basta un Carradine ieratico e spaventoso e una genialata di script per fare un grande film? No, e infatti, nonostante questo Volume 2 sia decisamente superiore al primo, rimane comunque come il primo un balocco fine a sé stesso. Iper-citazionista ma sterile, soprattutto a livello emozionale, e Tarantino abusa di musiche leoniane laddove non ce ne sarebbe stata la necessità. A eccezione del duello finale fra La Sposa e Bill, la cui epicità della musica è molto pertinente, perché infatti enfatizzare, con l’ingresso di una colonna sonora à la Morricone, la scena in cui Budd, dopo aver sparato alla Sposa, si diverte a umiliarla? Che funzione ha una musica del genere in questa scena?
Insomma, per farla breve, Kill Bill rimane un’opera magistrale dal punto di vista tecnico, perfetta se presa a tranci, poiché le singole sequenze sono impeccabili, ma secondo me Tarantino ha voluto mettere troppa carne al fuoco, smarrendo la poesia, mancando di pura autenticità. Un film sbilanciato, sostanzialmente malato di velleitarismo e perfino fastidioso in quanto mero, gratuito, esibizionistico sfoggio di stile alla lunga pacchiano e mal miscelato. Senza romanticismo. Scarsamente coeso e artefatto.
Curiosità: Pai Mei è un personaggio storico davvero esistito.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema: Kill Bill – Volume 1 di Quentin Tarantino
Ecco, Quentin Tarantino alla prova del nove. Di solito, la prova del nove avviene dopo un esordio entusiasmante, per attestare se la grandezza della prima opera di un autore sia addebitabile alla cosiddetta fortuna del principiante, dovuta a circostanze favorevoli, a istanze ben miscelate e perfettamente funzionali o addirittura rivoluzionarie per il tempo fatale e magico in cui son state, diciamo, orchestrate, nel quale si son miracolosamente scaturite per concomitanza di fortuiti fattori alchimici, o invece, e in questo caso parlo di un regista spuntato dal nulla, il talento ce l’ha davvero, semmai smisurato, incontestabile, oramai unanimemente acclarato, assodato e nella sua seconda opera ribadito maestosamente. Tarantino la prova del nove l’aveva superata alla grandissima, dopo Le iene, proprio con l’epocale Pulp Fiction. Creando un film manifesto per un’intera generazione cresciuta a Corn Flakes, fumetti da leggere sulla tazza del cesso, tv spazzatura sparata nelle vene neuronali delle più lerce pubescenze di ragazzotti tirati su nel “patchwork” di una cultura pop sincreticamente eterogenea, un film in cui erano confluiti il trash, la destrutturazione temporale da Rapina a mano armata, l’inventiva di dialoghi caustici e irriverenti, guasconi e buffoneschi, personaggi clowneschi nati dalla celluloide e dalle cellule impazzite del mito americano della celebrità e del divismo, ove anche un gangster appesantito può conoscere a menadito la sottile differenza che intercorre fra Marilyn Monroe e Mamie Van Doren e non potrebbe mai confonderle con Jayne Mansfield. Un cocktail micidiale modellato su una sceneggiatura radente come un rasoio, dall’incessante, propulsivo ritmo “orecchiabile” come una colonna sonora trascinante, leggerissima ma potente, violenta ma romanticissima.
E poi aveva diretto Jackie Brown. Noir tratto da Elmore Leonard, o chiamatelo hard–boiled se preferite.
Blaxploitation sui generis, anacronistica, compassata, lentissima con schizzi poi velocissimi del solito imbrattamento di sangue, qui però più contenuto e spesso fuori scena, sangue languido ed estasiante soprattutto incastonato, effuso caldamente alla nostra anima invigorita da tanta malinconica bellezza ruggente.
Ma Tarantino è un fenomeno, e come tutti i fenomeni ha detrattori in ogni dove, e uno di questi acerrimi suoi detrattori sarà perfino nascosto in una ciotola di riso pronto a sparargli nel culo. Sono pronto a scommettermi le palle che i suoi detrattori crescano, di ora in ora, come inestirpabili funghi.
Dunque, ogni film di Tarantino aderisce a questa innegabile regola primaria e imprescindibile, anche ora che, trascurando l’episodio di Four Rooms, e considerando appunto questo Kill Bill come opus e unicum indivisibile ripartito in due parti solo per meri fini lucrativi, il nostro Quentin sta girando il suo nono lungometraggio, Once Upon a Time in Hollywood. Tarantino è uno di quei registi che, visto il suo essere inclassificabile e mutevole, contaminatore spericolato e sempre all’arrembaggio in qualsiasi genere, non potendo essere ascritto a nessuna categoria precisa, dovrà patire sino alla morte l’irrimediabile pregiudizio ostinato di molti critici e di quegli spettatori che lo detestano e aspettano fervidamente un suo clamoroso passo falso per scavargli la tomba e poter baldanzosamente sciocchi decretargli di essere stato sempre un bluff. Tarantino ha già dimostrato di essere un grande, bisogna vedere se lo sarà nell’avvenire.
Queste invidie sono figlie della pusillanimità e dell’ingratitudine di coloro che, mal tollerando il suo successo e la sua indubbia personalità debordante, non vedono l’ora, come avvoltoi, di potergli rodere il fegato, perché a ogni sua nuova opera acclamata si sentono rosicchiare sin alle viscere più putride ed esplodono acrimoniosi di bilioso odio imbattibile. Pregando in silenzio affinché miseramente fallisca. Per appioppargli, come malevoli si augurano, l’etichetta di ciarlatano.
Detto questo e sottolineato quindi che ogni nuova opera futura di Tarantino sarà sempre per lui una prova del nove, questa richiesta di “test attitudinale” da parte della moltitudine di eterni prevenuti nei riguardi del suo Cinema, ossessionati come San Tommaso a controllare se davvero possedeva e possieda mirabili qualità innovative, è calzata a pennello quando è uscito Kill Bill.
Perché molti si sono chiesti: ebbene, dopo queste sue incursioni, certo originali e straordinarie, ma nere e cruenti, splatter e sanguinolente, saprà autenticamente dimostrare di saperci fare anche con una semplice storia di vendetta echeggiante C’era una volta il West?
La riposta qual è stata?
Personalmente, ricordo che andai a vedere Kill Bill Vol. 1 in una fresca serata invernale, nel tepore dei miei umori ballerini, e a dire il vero, a parte un certo pathos in crescendo da me emozionalmente introiettato e sinceramente vissuto per il cliffhanger dei 5 min finali, con la lapidaria frase di Michael Madsen… quella donna merita la sua vendetta, e noi meritiamo di morire, non uscii dalla sala incantato dalla sua visione, anzi, una netta delusione ingravidò il mio animo incontentabile e giudicai questo film infantilmente anemico e velleitario.
L’altra sera, a fine Maggio 2018, l’ho rivisto integralmente. Ma qui mi limito per ora a sacramentare su tal primo volume.
Nato da una squinternata idea generata da discussioni fra Tarantino e Uma Thurman, ecco che dopo mille revisioni e uno script ideato e poi infinitamente, innumerevoli volte rieditato, Kill Bill Vol. 1 inizia proprio sulle note melodiose di Nancy Sinatra e della sua Bang Bang (My Baby Shot Me Down).
Tanto per farci capire subito che Uma Thurman/La Sposa/Black Mamba altri non è che un prosieguo ideale e meta-cinematografico di Mia Wallace…
Sì, chi è effettivamente La Sposa, The Bride? Una donna samurai che, nel suo più bel giorno della sua vita, quello delle nozze, viene barbaramente pestata da un “covo di vipere”, è il caso di dirlo, la sadica Deadly Viper Assassination Squad. Che fa capo al terribile, mefistofelico, disumano monstre, qui ancora senza volto, di Bill/David Carradine, un carnefice edonista marcio.
Che, dopo che quelli della sua squadra l’avevano massacrata di calci e pugne, di sua mano le spara in testa.
La Sposa è morta. No, La Sposa non è morta. È entrata in coma ma la figlia che portava in grembo, nata dall’unione carnale amorosa col suo protettore Bill, uomo che lei venerava, sì, da lui avuta, è crepata (o almeno questo pensa lei).
La Sposa resta in coma per quattro anni, poi si risveglia e risorge. Resurrezione atroce! Prende immediatamente coscienza di quel che abominevolmente le è accaduto, e allora ha una sola testardissima ossessione bastarda, vendicarsi di tutti i colpevoli e ammazzare Bill in maniera ferina, con imperdonabilità furiosa egualmente proporzionale all’aberrante sua efferatezza perpetratele.
Il film allora diventa tutto e niente, wuxiapian, avventura, demenziale, fumetto, anima giapponese, yakuza movie, iperrealista western metropolitano, perfino un gioco à la Mortal Kombat stilizzato in piani-sequenza come Brian De Palma tritato in salsa tarantiniana. Tarantino gira da Dio, alcune sequenze sono magnetiche ma qui è forse solo un abile giocoliere, un mirabolante giostraio di frame che, presi singolarmente, sarebbero da incorniciare, vuoi anche la levigatezza formale del direttore della fotografia Robert Richardson, ma nel loro insieme appaiono come un innocuo collage anti-emotivo, privo di ogni sanguigna visceralità davvero poetica.
La Thurman è adesso grintosa e macha, poi dolce e tenerissima, fragile e durissima, perfetto corpo androgino da combattimento e poi inadeguata, senza physique du rôle, scialba e, oserei dire, anche sgraziata.
Le coreografie degli stessi combattimenti e di quello dei quaranta minuti finale sono magistrali, ma mancano di ogni epica e diventano soltanto esercizio di stile meraviglioso a vedersi ma emozionalmente, ripeto, vacuo e inane.
Allora questo Kill Bill Vol. 1 assomiglia tanto alla puntata di un serial televisivo che ci ha visivamente stordito, rimbambito e che si è interrotta sul più bello, tenendoci incollati davanti allo schermo per circa due ore grazie, a mio avviso, solo alla splendida, variopinta e poi leoniana colonna sonora.
Sì, dunque a distanza di anni, rimango del giudizio che Kill Bill Vol. 1 sia stata una prova del nove non superata.
Non vogliatemi male.
di Stefano Falotico
City of Lies | Official Trailer with Johnny Depp
Based on the true story of one of the most notorious and unsolved cases in recent time, CITY OF LIES is a provocative thriller revealing a never-before-seen look at the infamous murder of The Notorious B.I.G. shortly following the death of Tupac. L.A.P.D. detective Russell Poole (Johnny Depp) has spent years trying to solve his biggest case, but after two decades, the investigation remains open. “Jack” Jackson (Forest Whitaker), a reporter desperate to save his reputation and career, is determined to find out why. In search of the truth, the two team up and unravel a growing web of institutional corruption and lies. Relentless in their hunt, these two determined men threaten to uncover the conspiracy and crack the foundation of the L.A.P.D. and an entire city.
Racconti di Cinema – Essi vivono di John Carpenter
Ebbene, oggi voglio parlarvi di Essi vivono (They Live), al solito del Maestro per antonomasia, il re dei brividi e il profeta del nostro mondo, sospeso com’è nella perentoria immanenza di un presente inevitabilmente ancorato al passato, ma in perenne, continuo, inarrestabile, putrefacente divenire. Un mondo già squagliato, eroso, malato e infetto, che imperterrito però prosegue nel suo aderire adorante a un processo irreversibile forse di autodistruzione, soccombente a una crisi incombente, ma invisibile ai più, scongiurata dalla retorica insistita e invadente dei mass media che, con le loro fake news, influenzano il nostro stile di vita, sgualcendolo nella sua incontaminata, libera, democratica bellezza.
Film uscito in patria, cioè negli Stati Uniti, il 4 Novembre del 1988 e arrivato da noi, come sovente tutt’ora accade con molte pellicole contemporanee, in leggero ritardo, ovvero il 16 Aprile del 1989. Film della durata secca e oserei dire nerboruta di un’ora e trentaquattro minuti. Sì, perché Carpenter non ha mai amato girare lungometraggi troppo lunghi ed è sempre stato puntualmente contenuto nel minutaggio, rimanendo sotto le due ore. Anzi, filmografia alla mano, posso altresì confermare che solo Christine e Starman si avvicinano a 120 min. ma neppure ci arrivano, gli altri stanno invece tutti molto sotto. Insomma, Carpenter ha rispettato inderogabilmente questo permanente parametro, e non credo sia un caso, ma una scelta, quasi un suo stilema e marchio inconfondibile di fabbrica. Questa è un’altra delle sue caratteristiche, la stringatezza sintetica delle sue opere non inficia l’effettiva, radente potenza incisiva del suo Cinema.
Anzi, nella lapidaria sinteticità delle sue opere consiste e rifulge vigorosa la loro concisa efficacia inattaccabile e poderosa.
Essi vivono è un altro dei suoi indubbi capolavori. Sì, lo è. Con buona pace dei suoi infimi detrattori che si ostinano a relegare questo film semplicemente fra le interessanti pellicole d’intrattenimento. E sostengono che sia sopravvalutato.
Dicevo della durata. Sì, su per giù è quanto quella di una puntata un po’ più espansa di Black Mirror. E non a caso cito la serie Netflix che da qualche anno a questa parte spopola tra milioni di fan. Io non ne sono affatto un cultore e più di tanto, nonostante ne riconosca i pregi e nudamente ammetta che il suo fervido creatore Charlie Brooker abbia compiuto davvero dei prodigi immaginifici, non mi son lasciato incatenare e influenzare dall’orda di sfegatati ammiratori che l’elevano superbamente in auge. E sapete perché? Perché molti dei suoi temi trattati, come l’influsso subliminale delle tecnologie, l’alienazione dell’alterata società contemporanea, ideologicamente lobotomizzata dalla meccanizzazione delle coscienze, eran già stati ampiamente evidenziati in questo film seminale di Carpenter. Sì, perché uno degli enormi pregi di Carpenter è sempre stato quello di aver inventato idee a profusione, di aver vivificato la fantasia più creativa e aver anticipato il Cinema e la televisione a venire. Quasi tutte le sue opere sono infatti modelli granitici, eterni, progenitori e ispiratori di ciò che è venuto dopo e di quel che inesorabilmente gli è stato anche, volente o nolente, inconsapevolmente debitore.
Detto questo, Carpenter firma qui, oltre alle musiche, anche la sceneggiatura, attingendo a un racconto del 1963 di Ray Nelson, Alle otto del mattino, e celandosi dietro lo pseudonimo di Frank Armitage, che è peraltro il nome di uno dei co-protagonisti del film.
Ecco qua la storia… un vagabondo senza meta, John Nada (interpretato dal compianto ex wrestler canadese Roddy Piper, morto a soli 61 anni per un arresto cardiaco nel 2015), arriva a Los Angeles in cerca di lavoro. Grazie all’aiuto di un uomo di colore, Frank Armitage appunto (Keith David), viene assunto come operaio in un cantiere e alloggia assieme a lui in una baraccopoli ai piedi di una periferia fatiscente che affaccia sugli svettanti grattacieli di cristallo della metropoli. E già sarebbe da lodare Carpenter per quest’uso suggestivo delle location, il covo dei diseredati in contrasto col panorama e lo sfondo sfavillante delle luci roboanti della città. Contrasto che acquisisce toni seducentemente ipnotici agli occhi di noi spettatori nelle prime cupe, irreali e perfino fiabescamente macabre scene notturne, quasi nebbiose e traslucide.
Nada però si accorge subito che qualcosa non va… e bizzarri accadimenti gli gravitano intorno. Un invasato predicatore cieco, in pieno delirio da apparente sobillatore, sprona la gente del luogo a vedere il mondo nella sua trasparenza, mentre un altro uomo invia indecifrabili, criptici messaggi attraverso delle interferenze televisive, affinché la gente possa ridestarsi dal torpore e dal buio delle loro anime addormentate.
Inoltre, nella strada antistante, c’è una chiesa. Nada vi entra di nascosto e se n’incunea, e scopre ben presto che lì la gente non si riunisce per pregare o assistere alle funzioni religiose, bensì si sta organizzando per cospirare contro lo Stato dittatoriale.
La sera stessa le forze dell’ordine violentemente fanno irruzione nel campo “nomade”, lo sventrano e lo sgomberano, facendo piazza pulita. Il mattino dopo, Nada ritorna nella chiesa e rinviene in una scatola un paio di occhiali da sole. Li indossa e cammina per le strade. E la realtà gli si svela paurosamente per quella che è. Molti degli abitanti gli appaiono ora come degli alieni-zombi, scarnificati e scheletrici, Nada comprende spaventevolmente che la città è sotto assedio e legge scritte come “Stay Asleep”, “No Imagination”, “Submit to Authority”, mascherate dietro la pubblicità e i cartelloni promozionali.
Insomma, il mondo è tenuto in scacco da una fazione di governanti totalitaristici che sta imprigionando a livello subconscio le persone, desensibilizzando le coscienze di massa con messaggi e simboli occultamente persuasivi per invogliarli al consumismo e per bloccare e inibire i loro liberi arbitri.
Inutile che vada avanti nel raccontarvi per filo e per segno la trama. Guardate o riguardate il film o consultate enciclopedie online come Wikipedia per far promemoria di quel che verrà dopo.
Come andrà a finire? Lo scoprirete solo amandolo…
Carpenter, pur con scarsità di mezzi (solo quattro milioni di dollari di budget), dà fondo a tutta la sua vulcanica inventiva, profetizzando perfino i droni odierni, e il suo film è un chiaro attacco alla società capitalistica. Se negli anni cinquanta i nemici erano i comunisti, a fine anni ottanta sono i rampanti e edonisti yuppies.
Sì, la pellicola ha anche vistosi difetti e, al di là del finale con qualche opportuno effetto speciale, è puro artigianato girato con quattro soldi. E Piper, che attore professionista non era, è visibilmente in imbarazzo e impacciato soprattutto nelle scene iniziali, e pare spesso che, col suo sguardo indeciso e goffo, si rivolga a Carpenter per capire meglio come deve girare le scene. Ah, quelle mani in tasca… Incertezza recitativa che neanche il montaggio conclusivo è riuscito a cancellare, ma forse proprio nell’imbranataggine simpatica e nella modesta naturalezza espressiva di Piper, scelto probabilmente apposta per il suo corpaccione da worker, da proletario rozzo, risiede il fascino del film. Nella sua rude schiettezza.
E se trascuriamo qualche palese didascalismo forzato, il messaggio inviatoci da Carpenter trent’anni fa era quanto mai attuale e divinatorio: il male c’è, dietro il falso benessere vi è celato l’orrore, ma siamo stati resi ciechi da anni di condizionamenti televisivi e massmediatici per accorgercene. Forza, gente, they live, we sleep, è tempo di riaprire gli occhi una volta per tutte. E ribellarci.
Masterpiece! Non si discute!
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – The Hateful Eight, capolavoro o boiata deplorevole?
Ebbene, a distanza di due anni e mezzo dalla sua uscita nei cinema, voglio ritornare su questo film iper-discusso e decisamente controverso di Quentin Tarantino, opus n. 8 del nostro bad boy. E infatti il nostro orgoglioso Quentin ci tiene a ribadirlo nei titoli di testa… the 8th film by…
E ne voglio parlare perché, come saprete, stanno iniziando le riprese dell’attesissimo Once Upon a Time in Hollywood, nona sua opera con Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Anzi, secondo IMDb i primi ciak sono già stati scattati. E dunque facciamo promemoria e un salto a ritroso.
Un tempo si usava l’espressione grand–guignol. Espressione adesso desueta e pressoché scomparsa. Invece è assolutamente pertinente per inquadrare, appunto, la natura grandguinolesca di quest’opera.
Non voglio spiegarvi l’etimologia di questo termine? Invece, lo farò, Il nome deriva da un burattino parigino, di Montmartre, e poi questa definizione è stata espansa per definire il Teatro della capitale francese in cui si offrivano rappresentazioni che mettevano in scena orrori e truculenze con schietto, abrasivo realismo per esasperare la tragicità della vicenda e mescolarla al grottesco, all’assurdo, perfino al comico.
Quindi, tal definizione quanto mai è concernente lo spirito che pervade questo film di Tarantino. Non è pedanteria la mia, né vezzo e neanche pignoleria sofistica. È mettere i puntini sulle i in stile Samuel L. Jackson, appunto, dei film di Tarantino.
Subito dopo la fine della Guerra di Successione, in un Wyoming nivale, aperto da una lunga carrellata zoomante su un crocefisso innevato e inquietante, Morricone scandisce sin dapprincipio la sua leggenda leoniana, nel rimembrarci l’epica del western, della spazio-temporalità mitica e persino mistica di un Cinema collocato in una realtà vintage, demodé ma eternamente fascinosa. Cristallizzata, come ghiaccio rovente, nella sperduta nostra memoria sognante, immortalata negli anfratti dei nostri cuori e panoramicamente volteggiante su questi suggestivi, pittoreschi paesaggi animati da personaggi solitari, brutti e sporchi, sudici nelle lor anime già corrose, avvelenate e inique.
Una carovana si sta dirigendo verso Red Rock. E nella carrozza c’è un boia che deve consegnare all’impiccagione una donna omicida, abbruttita e deturpata in viso dalle botte ricevute. Al che, come su un palcoscenico atipico, come Teatro filmato, entrano in scena i successivi personaggi. Prima un altro cacciatore di teste che sostiene di essere amico di pennino, di lettera di Abramo Lincoln, quindi un sedicente sceriffo.
Una forte tormenta incombe e allora la diligenza è costretta a fermarsi. E i quattro si fermano a un emporio. Ove già stazionano altri loschi figuri, seduti attorno al focolare del vasto locale, tutti lì ad aspettare che la tempesta si plachi. E, nel gelo polare dei loro segreti inconfessabili ma poi furiosamente, lentissimamente svelati, pian piano confidati, deflagrano morbosi e infidi i conflitti e inizia un gioco al massacro di rivalità, scaramucce, provocazioni e virili complicità bastarde.
Sino all’esplosione tonante della tragedia finale. Distillata col contagocce ed ettolitri di sangue a fiumi.
È inutile che vi stia a elencare pedissequamente, per filo e per segno, i nomi dei vari characters e che, con puntiglio, vi dica chi rispettivamente li interpreta. Gli attori del cast li conoscete benissimo e, probabilmente, se avete visto il film, e desumo facilmente che, se siete cinefili, l’avrete perfino rivisto più e più volte, saprete esattamente che Samuel L. Jackson è il Maggiore Marquis Warren, Kurt Russell è John Ruth, Jennifer Jason Leigh è Daisy Domergue, Walton Goggins è lo sceriffo (?) Chris Mannix, Demián Bichir è Bob, Tim Roth è Oswaldo Mobray, Michael Madsen è Joe Gage, e Bruce Dern è il Generale Sandy Smithers.
Sì, alla fine li ho elencati tutti. E, maniacalmente, come la sceneggiatura di questo film, ho sancito, potrei dire, parimenti al modus operandi di Tarantino e del suo ingarbugliato, iterativo intreccio, la necessità di ripetere interminabilmente ciò che si sa ma potrebbe esserci sfuggito, rimarcando di analessi mnemonica ciò che innanzitutto va tenuto ben presente. Perché potremmo scordarci qualche passaggio e peccare di superficialità. E non possiamo dimenticarci dei loro nomi se vogliamo vederci chiaro…
Ribadito l’ovvio, devo ammettere con enorme dispiacere che questo suo film non mi è affatto piaciuto o perlomeno mi ha deluso. Perché sì, alla faccia dei tarantiniani e tarantinati che lo elevano sempre in gloria, questo non è uno dei suoi migliori. Anzi, con tutta probabilità è il peggiore. Eh sì, è afflitto, mi duole non sapete quanto dirlo, da una “scontatezza” e da un’insipidità da lasciarmi basito e addolorato.
E dunque mi accodo a quelli che non l’hanno sopportato.
Sì, Tarantino è sempre stato questo, verboso e logorroico ma, se nei suoi precedenti film, anche nei più citazionistici, nei guilty pleasure come A prova di morte, la verbosità aveva un preciso senso, oserei dire, morale e funzionale alla sua poetica, qui diventa un catalogo fastidiosissimo di autocompiaciuto e ossessivo cercar di compensare l’anemia emozionale e drammaturgica della sua opera, costruendo impalcature diegetiche che non reggono attraverso sterminati dialoghi in fin dei conti vuoti e superbamente insignificanti, che nemmeno l’ineccepibile sua bravura tecnica, la certosina cura dei dettagli e l’al solito magistrale fotografia di Robert Richardson, celebre sin dai tempi di Oliver Stone e dello Scorsese di Casinò e Al di là della vita per saturare ogni sfumatura con le sue luci soffuse e “riverberanti”, son riusciti a farmelo amare.
Lo ammetto, con onestà. Certo, Tarantino è sicuramente un regista geniale, così tanto da mangiar sé stesso e perdersi, come accade qui, in un narcisistico tanto sbellicarsi e auto-adorarsi da diventare il cannibale della sua stessa autoriale unicità. I suoi pregi di scrittura diventano in questo caso difetti evidenti del suo ingigantirsi, imbrodarsi, un intollerabile e referenziale celebrarsi vanitoso e vano.
Dialogicamente è superlativo, le scene sono indiscutibilmente girate da Dio, gli attori sono bravissimi e carismatici, soprattutto Tim Roth, a metà strada fra Christoph Waltz (e infatti la parte era stata scritta per lui) e la classe monologante di Al Pacino, e il sempre impeccabile, da Oscar, debordante Samuel L. Jackson, ma a livello contenutistico è un giallo risaputo, prolisso, lunghissimo e, diciamo la verità, in molte parti sinceramente noioso da morire.
Se poi siete fra quelli che adorano un film anche solo per speculare sulla complicatezza snervante delle singole scene, per minuziosamente sondare ciò che sta dietro di esse e v’incantate a osservare ogni rifinita minuzia della messa in scena, non posso dirvi niente. Santificatelo e continuate a riguardarlo.
A ognuno la sua visione del Cinema.
Quindi, The Hateful Eight è paradossalmente il film più tarantiniano di tutti, se vogliamo concederci questi estremismi, ed è per questo che i suoi fan incalliti lo difendono a spada tratta. È lo zenit esponenziale del Suo Cinema, la summa compressa e sproporzionata, oserei dire, di ogni suo film precedente. Vi è il jeu de massacre come ne Le iene (e mi stupisco, vista la presenza di Tim Roth e Michael Madsen, che Tarantino non abbia richiamato Harvey Keitel, ma fra i due pare non scorrere più buon sangue) e, come in Reservoir Dogs, uno dei protagonisti è una talpa, uno che si nasconde dietro una doppia identità, o forse a mentire sono tutti o la maggioranza di essi, c’è la stessa verbosità, qui però ingigantita e dilatata a iosa, di Pulp Fiction e Jackie Brown, di Grindhouse e Bastardi senza gloria, ma in questi film la trama presentava degli snodi e dei geniali deragliamenti, mentre qui il film, lento come una melassa, è di una piattezza sconfortante e poco emozionante.
Ora, questo però è indubbiamente un western, sui generis certo, e Tarantino ha sempre dichiarato il suo viscerale amore, anche esplicitato, dunque sviscerato in alcune delle succitate pellicole, per Sergio Leone e per Carpenter. Sì, Carpenter è stato un regista di grandi western, metropolitani e distopici, infatti Distretto 13, 1997: Fuga da New York, Vampires e Fantasmi da Marte, secondo voi, cosa sono se non western mascherati da altro?
E allora chiama a raccolta il suo idolo Ennio Morricone, che a sua volta ricicla pezzi sonori da La cosa.
Però, questo film è quanto di più lontano da Leone e Carpenter ci possa essere. Carpenter ha sempre amato le pause, le ambientazioni claustrofobiche, ma le sue compressioni e le sue digressioni servivano per sviluppare e far detonare l’azione virulenta, erano il basamento su cui lasciar che scoppiasse la miccia propulsiva degli eventi. Qui Tarantino non crea suspense, ci gioca intorno, e poi delude ogni nostra aspettativa. Ammorbandoci nella contemplazione fine a sé stessa. Sì, negli ultimi quaranta minuti ne accadono di code e di crude, come si suol dire, e lo splatter la fa da padrona. Ma il suo non è un bel tocco…
E di Leone neanche a parlarne. Leone amava appiccicarsi al viso degli attori, ai loro baffi, per cogliere ogni minima gradazione emotiva dei corpus attoriali incarnati in quelle straordinarie facce. Per farci sentire e respirare la paura, le titubanze, le lor anime incrinate e mordaci, agghiacciate, per farci respirare il sangue e il ribollio carnale dei suoi personaggi.
Tarantino invece si fissa sui dettagli dei suoi attori per adorarli e basta. E dirò una cosa che hanno detto in molti ma che va ancora una volta sottolineata. Il formato Panavision 70mm è magnifico nelle scene iniziali all’aperto perché, essendo Panavision, amplifica ogni singolo fotogramma per donare maggiore ampiezza possibile all’inquadratura. Ma il film si svolge pressoché unicamente in uno spazio chiuso e angusto, l’emporio, e dunque perché usare questa tecnica? L’unica ragione attendibile, oltre al fatto che volesse omaggiare i grandi classici del passato e ammantare già di aura leggendaria il suo film, potrebbe esser stata la decisione di voler inquadrare tutti i personaggi in scena anche quando sono dislocati a debita distanza l’uno dall’altro, come in un enorme teatro di posa nel quale dobbiamo stare attenti a tenere d’occhio chiunque, a ravvisarne ogni impercettibile spostamento, a mo’ pedine del gioco di scacchi fra Oswaldo e il Generale Smithers, le cui più impercettibili mosse possono rivelarsi letali e fatali. Ma, Quentin, non mi hai convinto.
E nemmeno il tuo film. Mi spiace.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – 1997: Fuga da New York, uno dei grandi capolavori di John Carpenter
Ebbene, nel 1981 usciva questo film, che non è solo un film…
Da noi sbarcava il 15 Ottobre, per la durata di 1h e 39 min. Diventando nella manciata di un paio di settimane lorde e secche un must, poi diverrà un cult.
All’epoca non potei andare a vederlo al cinema, essendo io del ’79, anche se avrei potuto sgambettare per qualche sala d’essai forse ancora col ciuccio in bocca al posto della benda di Jena, e so che già a quell’età me lo sarei goduto da Baby Herman.
Dopo circa trentacinque anni dalla sua uscita, la domanda che ogni appassionato di Cinema, vero, schietto, si pone è se John Carpenter abbia firmato davvero un caposaldo della Settima Arte o sia stato bravo, a quei tempi, a smerciarlo per tale. Insomma, molti sono tutt’ora perplessi riguardo al vecchio John, non sopportano l’appellativo di genio che i suoi adoratori gli appioppano ed essendo amanti di un Cinema artificiosamente galante, che loro definiscono elegante, quando invece scambiano le leziosità e le affettate, appunto, artefatte sofisticatezze inutili per stile raffinato, non rendendosi conto che amano tutt’al più un Cinema estetizzante e vuoto, adulterato e, questo sì, corrotto, sono dunque convinti che Fuga da New York rientri nella categoria dei sopravvalutati.
Ecco, questo mio periodo non è stato un anacoluto ma rende perfettamente la confusione di queste persone che stanno contraffacendo il Cinema, teorizzandolo oltre il dovuto, con far che mal tollero. E sono loro invece i primi, odiosi amanti boriosi delle assurde “costruzioni sintattiche” del loro ombelicale, ampolloso iper-giudicare e minimizzare qualsiasi cosa, distorcendo il Cinema in toto, elevando a geni persone fasulle e i facili imbonitori retorici e sminuendo gente come Carpenter che merita sempre un posto d’onore sul trono.
Questo per dire che coloro i quali, a distanza di quasi quattro decenni, non reputano questa pellicola un capolavoro e pensano che Carpenter, con quest’abissale colpo, abbia vissuto sugli allori, meriterebbero di far la fine di Donald Pleasence. Grottescamente impalati alla loro pochezza e alla tronfia, morale lor esiguità umana, con una canzonetta derisoria a sbeffeggiarli mentre noi sfiliamo a testa alta verso un mondo oramai distrutto da tanta saccenteria miserrima e presuntuosa, anzi, untuosa. Fieri, puri idolatri del vero.
La storia la conoscete tutti. New York, o meglio l’isola di Manhattan, è stata trasformata in un enorme penitenziario ove, a mo’ di ghetto degradato e pericolante, sono confinati i peggiori criminali d’America, e dal quale è impossibile fuggire.
L’aereo del Presidente degli Stati Uniti, l’Air Force One, viene dirottato da un manipolo di terroristi esaltati. E il Presidente è eiettato in mezzo alle rovine della gloriosa città che fu attraverso una capsula, grazie alla quale riesce miracolosamente a sopravvivere. Però, viene catturato dal fecciume più lercio di una banda senza scrupoli che lo tiene in ostaggio, chiedendo come riscatto alle forze speciali la liberazione di tutti i detenuti in cambio della sua vita.
Solo un uomo può penetrare in questa diroccata fortezza che è la Grande Mela, dominata dal crimine più sovrano, acciuffare il Presidente e riconsegnarlo alla libertà. Un uomo di nome Jena Plissken, un valoroso reduce di guerra però macchiatosi di tantissime colpe e reati. A lui verrà concessa la grazia se riuscirà a portare a termine tale missione impossibile. E, per far sì che non possa scappare e darsi alla macchia, le forze speciali si cautelano, impiantandogli delle micro-cariche in corpo che, allo scadere di ventiquattr’ore, lo ridurranno a brandelli, putrefacendolo in un nanosecondo.
Jena non ha alternative. Ce la deve fare, altrimenti creperà terribilmente. In caso di fallimento, inoltre, non gli verrà elargito nessuno sconto di pena.
Escape from New York è fantascienza fumettistica applicata al western metropolitano (da qui la presenza di Lee Van Cleef ed Ernest Borgnine), è Cinema del futuro eterno che usa modellini per ricreare lo skyline notturno, liquido e fascinoso di una città spettrale e senza luci, per immergerci in una dimensione spazio-tempo sospesa tra la suggestione ruvidamente romantica e la nitidezza magnifica della poesia d’immagini limpide nell’asciuttezza di una nottata che a sua volta precipita nell’alba opaca, nel tramonto di ogni illusione, nella rinascenza nichilista dopo tanto rovinoso oblio.
di Stefano Falotico
Gli anni passano, ma i miei 10 film preferiti in assoluto non cambiano mai, anzi…
Eh sì, fratelli, amici cari e anche nemici, come dico io, anemici, perché se aveste avuto cuore non mi avreste dissanguato. Ma comunque. Questa vita oggi è leggiadria, domani ipocondria, ieri fu apatia, invece tu, donna, soffri di bulimia.
Mentre Mereghetti stronca von Trier, ma comunque è l’unico critico nel mondo che usa giustamente la v minuscola di von, come quel pezzo di figa che scioglie ogni tua neve, la burrosa sciatrice Lindsey Vonn, una che quando ha fatto la parodia della scosciata di Sharon Stone in Basic Instinct ho dovuto prendere il ghiaccio dal freezer, e salvarmi il video della ESPN che ora è stato cancellato e trovate solo a pezzi sul Tubo, mettendolo nel “congelatore” dei video personali in caso di miei ormoni troppo sedati da far ribollire, ecco, mentre a Cannes voi sfilate sulla Croisette, io voglio rammemorar a me stesso i dieci film per cui ogni uomo dovrebbe vivere, dopo essersi scopato la Vonn. Sì, queste sono le ragioni vitali del nostro stare al mondo. Non date retta agli psicopatici che voglion fare la rivoluzione, finiranno come Jeremy Irons del terzo Die Hard.
Ecco la lista, dal primo all’ultimo, che sei sempre tu. Ah ah.
- Taxi Driver
Lo vidi che ero un puberale-semi adolescente tutto solo e “ignudo” nel frastuono del mondo. E da allora non mi sono più ripreso. Come Travis, ancora tutt’oggi vago per le strade notturne con la mia anima da straniero, lontano dal chiasso carnascialesco e ciarliero. Come Travis mi “orgasmizzo” e sogno di liberare qualcheduna dalla feccia. Ma io non sono il salvatore neanche di me stesso, e Harvey Keitel mi getta la sigaretta addosso, dicendomi di tornare alla mia tribù. Perdo la testa e gliele suono. Si sfiora la tragedia ma giustizia è fatta, anche se la mia vita non è mai equa soprattutto col lunatico che sono.
- Mulholland Drive
Questo film meriterebbe il secondo posto solo per Laura Harring, ma gli ultimi venti minuti di questa pellicola, senza contare quelli prima, sono tutto ciò che neanche le sue tette potranno mai darvi.
- Rusty il selvaggio
Se volete sapere “robe da Matt”… Dillon, se volete sapere lo scugnizzo che era, il rebel coppoliano storico, questo è il film in bianco e nero (a metà anni ottanta!) che fa per voi. Lasciate stare Genovese e Muccino e le loro tribolazioni pseudo-esistenziali patetiche per borghesi fritti in padella. Qui si respira la giovinezza avuta e mai avuta, sognata e trasognata, la vita voluta, involuta e desiderata, la voglia di amore e l’innocenza svanita per sempre, un Dennis Hopper da Oscar e un Mickey Rourke che non fa rimpiangere Marlon Brando.
- La morte corre sul fiume
Per girare un capolavoro assoluto bisogna scrivere dei dialoghi verbosissimi come Tarantino? E chi l’ha detto. Quest’opera di Laughton, con un Mitchum antologico, si basa tutta sulle immagini. Pensate di capire l’inconscio del vostro prossimo studiando Freud e Jung? Questo film è la dimostrazione che la psicanalisi è una stronzata immane.
- 1997: Fuga da New York
Carpenter è uno che non si fumavano a Hollywood e non aveva molti soldi a disposizione. A parte qualche effetto grafico computeristico per un’epoca in cui nessuno aveva il PC, Carpenter gira un film immenso. Tutto in una notte, in cui non succede niente. Succedono e si avvicendano atmosfere da brivido, Kurt Russell sarà per sempre Jena Plissken, questo è il suo ruolo della vita quando aveva solo trent’anni. Mi ricordo che quando ero piccolo e andavo nel paese natio dei miei genitori, al bar Dimotta, che era posizionato davanti alla casa di mia nonna, si stagliava prominente un flipper col faccione di Kurt.
Ecco, ne rimasi incantato e cominciai a giocarci ininterrottamente, fra un panzerotto e l’altro, i vecchi che facevan casino nella sala biliardo e qualche gonzo che sbirciava le donne che gironzolavano di cosce morbide “su e giù” nel corso…
- Per qualche dollaro in più
Se consultate un Dizionario di Cinema, soprattutto il Mereghetti, tornando al suo snobismo, nessuno vi dirà che è un capolavoro.
Basterebbe questo: quando la musica finisce, raccogli la pistola e cerca di sparare. Cerca…
Sei stato poco attento, vecchio… Colonnello, prova con questa? Indio, tu il gioco lo conosci…
E si alza Morricone.
- C’era una volta in America
Io mi son creato questa fantasia, sì, credo di sapere perché a Mereghetti questo film non sia mai andato giù.
Sì, si trovava quella sera con Piera Detassis a cenare amabilmente a lume di candela. Ostriche e caviale, in una tiepida serata estiva. In villa. Una villa che affacciava sul mare, con la finestra aperta e la brezza che spirava da maestrale, coi gabbiani in cielo e in sottofondo i Roxette di Pretty Woman. Al che, Piera, dopo aver lautamente mangiato, ammiccandogli per tutto il tempo, quando lui le ha offerto un gelato alla fragola, è rimasta turbata, perché si aspettava uno “yogurt” allo zabaione, ed è uscita dalla villa, ingiuriando Paolo. Che, trovatosi solo, ha acceso la tv su Rai 3, ove davano il film di Leone. Ma, scombussolato nell’umore, non ha capito un cazzo di quello che vedeva e l’ha cagata malissimo…
Cosa hai fatto per tutto questo tempo? Sono andato a letto presto.
Nessuno t’amerà mai come ti ho amato io. C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: Deborah esiste, è la fuori, esiste! E con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me?
Da vedere con la voce di Amendola e non quella ridoppiata di De Sando.
- Fuori orario
Quando nel mio cuore scende e si raggruma una malinconia atroce, quando il domani mi sembra assurdo, quando il Sole mi dà fastidio, spero davvero mi capiti un’avventura così. E devo rivedere questo film per sentirmi giustamente strano e kafkiano in un mondo stupido e illogico.
- Carlito’s Way
Un film che quando è uscito nel 1993 solo io ho considerato un capolavoro istantaneamente. Oggi, credo nessuno abbia più dei dubbi in merito.
- The Irishman…
Dopo averlo visto, posso anche morire.
Ma Lindsey Vonn, fra un anno, sarà ancora più bona e ho già perso troppo tempo…
di Stefano Falotico
Ma quali cinecomic di oggi, il più grande cinefumetto della Storia è Escape from New York
Rimango basito, perfino depauperato, sì, il mio cervello dinanzi a tanta idiozia moderna rimane menomato e vago perplesso in questa periferia desolata, credendo che da un momento all’altro nel mio cervello rovinato da tante scempiaggini possa esplodermi una micro-carica.
Ora, so che siete fautori del postmodernismo e quindi adorate roba come gli Avengers e adesso state deflagrando di gioia per Deadpool 2.
Siete dei cinquantenni pasciuti che, non avendo più molto da chiedere alla vita, dunque anche (d)al Cinema, che ne è spesso la sua trasfigurazione persino fantastica, grottesca e surreale, vi accontentate di bellissime immagini in CGI con tanti effetti speciali, come dico io tonitruanti, a rintronarvi e frastornarvi più dei tonti che siete diventati. Oppure dei giovani senza memoria. Rincoglioniti e stolti.
Al che, faccio un giro su Instagram, dopo aver postato un’immagine di me col sorriso da Joker, tanto per dare uno schiaffo all’imbecillità di massa, e io che pensavo di aver superato ogni fase depressiva e cupa, di averla imprigionata nella meditazione trascendentale, resto scioccato e alquanto disgustato da ciò a cui puntualmente assisto. Ah, avete bisogno di assistenza, figli miei…
Davvero vi piace questa società dove ragazzine “favolose” inseriscono foto, con le scritte buongiorno e sogni d’oro, su primi piani della schiuma dolcemente noiosa di un cappuccino allineato a croissant lievi e dorati, croccanti e ammantati di quella leggerezza fatua e falsa che tanto avete elevato a valor di vita?
Poi, una pornostar, seguita da milioni di guardoni frustrati, inserisce il video in diretta di lei che fa flessioni “ginniche” per irrobustire il suo culetto, con un personal trainer al suo fianco che la incita a darci dentro e tanti bavosi che vanno in brodo di giuggiole dirimpetto ai suoi sudati, goduti, faticati piegamenti che inducono a pensieri proibiti di “durezza” elastica e catarticamente liberatoria dopo una vita di stress e proibizioni morali. Sì, in questa “poetessa” del sesso trasfondono, ma non la sfondano, ogni lor desiderio rinnegato, concedendosi tre minuti, non di più perché non vanno oltre, di mano “smanettata”, martellandosi strazianti in adorazioni “piccanti”.
Al che un’altra in slip, appena sveglia, in verità addormentata da sempre, mette le foto di lei che bacia il cane, e il “sottotitolo”: Ti amo, tesoro mio, sei riccioluto e “coccoloso”. Coccoloso. Avete capito?
Ora, Escape from New York è già geniale dalla locandina originale perché, se uno la vede, pensa di assistere nel film a una scena catastrofica con la testa della Statua della Libertà disintegrata sulla strada, invece nel film non c’è una scena così. Carpenter aveva “perculato” tutti, sì, perché lui budget da cinecomic odierni non se li è mai potuti permettere. E doveva lavorare di fantasia.
Lui gira il primo “fumetto” della Storia, anticipando perfino Blade Runner.
Creando il Cinema “distopico” di tante produzioni di oggi, perché Fuga da New York è così inimitabile che l’hanno imitato, anche quando l’hanno mutuato di “variazioni sul tema”, tutti. Compreso me col mio libro Il cavaliere di Parigi.
Ecco come si può girare un capolavoro assoluto grazie quasi solo alle atmosfere. Carpenter scende tra le periferie degradate, nelle fatiscenze edilizie, fra murales e una notte interminabile. E non è che poi accada molto, sinceramente, ma il film è tutto giocato sulle inquadrature, sui silenzi, sulla faccia da sberla di Russell e sul suo carisma, sul suo look, sulla sua barbetta, perfino su Adrienne Barbeau.
E allora spunta Ernest Borgnine, la cui entrata in scena già meriterebbe uno dei primi posti in classifica del Cinema di tutti i tempi. Lui che sta seduto, inebetito e con un sorriso terribilmente simpatico, in poltroncina a gustarsi le ballerine in un teatro dell’assurdo, mentre fuori impera il caos.
Ecco, quando cala la notte, sparatevelo. Pensavate di essere persone sbagliate e che la vostra vita fosse un disastro?
Sì, lo è, infatti. Capirete che i cinefumetti di oggi sono il peggior deragliamento della vostra mancanza di gusto, di vita, di emozioni.
Questo è Cinema puro, questa è Arte, questa è poesia, questa è la fottuta night di John.
John è come me. Quando si entra in contatto con lui, entri in contatto con un mondo che ti era ignoto, perché eri preso dalla tua quotidianità stronza. E capisci che c’è un altro modo di vedere la realtà.
Molto più bello. Molto più figo. Molto più Plissken.
di Stefano Falotico