‘Yellowstone’ Official Trailer Starring Kevin Costner | Paramount Network
Academy Award Winner Kevin Costner stars in ‘Yellowstone,’ an original television series following the violent world of the Dutton family, owners of the largest ranch in the United States. ‘Yellowstone,’ from Taylor Sheridan, the writer of ‘Hell or High Water’ and ‘Sicario,’ also features Wes Bentley, Kelly Reilly, Luke Grimes, Gil Birmingham, and Cole Hauser. Premieres June 20th 9/8c on Paramount Network.
Yellowstone is a drama series that follows the Dutton family, led by patriarch John Dutton. The Duttons control the largest contiguous ranch in the U.S. and must contend with constant attacks by land developers, clashes with an Indian reservation and conflict with America’s first national park.
True Detective 2, recensione
Ebbene, procediamo la nostra tappa di avvicinamento alla terza stagione attesissima di True Detective, parlandovi stavolta proprio della seconda.
Trasmessa da noi con una settimana di ritardo rispetto alla messa in onda degli Stati Uniti, almeno nella versione doppiata e non sottotitolata in originale, debutta sul canale statunitense della HBO esattamente il 21 Giugno 2015, consta come quella capostipite di otto episodi e si protrae sino al 9 Agosto. L’ultimo episodio però di questa seconda stagione dura invece un’ora e mezza.
Stavolta i personaggi principali non sono due ma il numero raddoppia. Nell’immaginaria metropoli di Vinci, il detective Ray Velcoro (Colin Farrell) è un padre affettuoso forse di un figlio non suo che cerca come meglio può, anche maldestramente, di educare nel tempo libero in cui può averlo in affidamento, un figlio “adottivo” che divide con l’ex moglie, donna che ha avuto il bambino non desiderato dopo che rimase incinta perché stuprata da un uomo che fuggì impunito nel nulla e su cui Velcoro disperatamente è sulle sue tracce. Per acciuffarlo, si serve del suo “amico” Frank Semyon (un cupo Vince Vaughn), un potente uomo d’affari che sta cadendo in disgrazia dopo il che capo-socio dei suoi affari, il city manager Ben Caspere è stato trovato morto sul ciglio della superstrada. Con Caspere, Semyon stava progettando una linea ferroviaria ad altissima velocità che gli avrebbe dato ancor più fama e gloria e gli avrebbe permesso così di aumentare esponenzialmente le sue ricchezze. Adesso, morto Caspere, Semyon è costretto a tornare ai suoi vecchi, loschi e sporchi giri. Semyon è un uomo che vive con una bellissima, avvenentissima giovane moglie (la sexy Kelly Reilly), si era illuso di poter diventare finalmente qualcuno e di ripulirsi dal torbido passato, invece adesso è costretto nuovamente a corrompersi e a vivere di truffe. Il suo passato da criminale pare non volerlo abbandonare e torna prepotente ad avvelenargli la vita.
Ecco che poi abbiamo altri due personaggi centrali, una donna, Antigone “Ani” Bezzerides (Rachel McAdams), al servizio dell’FBI, e un agente della Highway Patrol (Taylor Kitsch), che per fortuite coincidenze si occuperanno, in concomitanza con Velcoro, dell’indagine riguardante proprio la morte di Caspere.
Una trama con forse troppa carne al fuoco, fra notti a luci rosse e lerce macchinazioni complottistiche, tradimenti banali, doppie piste insulse, orge che vorrebbero strizzare l’occhio a Eyes Wide Shut, e una tristissima vicenda di un fratello e di una sorella figli di nessuno, su cui incombette una scandalosa tragedia. Ed è forse questo spiacevole evento il fulcro dell’intera trama e la chiave per risoluzione del mistero della morte di Caspere. Ma è un “pretesto” narrativo debolissimo per renderci partecipi emozionalmente come spettatori che lecitamente pretendevamo di più.
Ecco, da questa seconda stagione ci si aspettava tantissimo dopo il successo impari e planetario della prima. E la delusione è stata evidente e marcata. Il personaggio di Farrell non affascina molto e, sebbene Farrell gl’infonda credibilità grazie al suo innato carisma e professionalmente sfoderi come sempre una lodevole bravura attoriale, il suo character non ha la stessa valenza portentosa di Rust Cohle, è un personaggio verso il quale non scatta mai davvero calorosa empatia. Per non parlare degli altri tre personaggi. Sì, Semyon rimembra spesso nel corso degli episodi il suo oscuro passato nel quale da bambino subì infinite violenze per giustificare in qualche modo la sua vita poco legalmente integerrima, ma tutto sommato è un ambiguo villain incolore e tagliato con l’accetta, mentre la McAdams, nonostante la sua bellezza, è insipida, così come scialbo è il personaggio di Kitsch.
E tutta la vicenda, siamo sinceri, si perde futilmente di qua e di là confusamente, schiacciata da un’ambientazione costellata di prevedibili riprese di dedali stradali, cemento armato a volontà e periferie suburbane che paiono una patetica imitazione di quelle di Heat. E, peraltro, il finale ammicca spudoratamente al capolavoro di Michael Mann. Senza possedere un minimo della sua sfolgorante epicità.
True Detective 2 ha anche i suoi bei, forti momenti, ciò è indubbio, ma il tutto sostanzialmente scorre piattamente senza regalarci autentici sussulti emotivi, senza stupirci mai più di tanto, anzi, quasi per nulla, e un senso opprimente di noia ci perseguita dal primo all’ultimo minuto.
Ancora una volta a scrivere tutto (fallendo) è Nic Pizzolatto, anche se per due episodi si fa “aiutare” rispettivamente da David Milch e Scott Lasser, non c’è più Fukunaga in cabina di regia, bensì ben sei registi differenti, fra cui spiccano i nomi di Justin Lin e John Crowley. E forse questa balzana scelta di affidare la regia a un’eterogeneità di registi stilisticamente troppo diversi fra loro ha davvero poco giovato alla coesione narrativa, spezzettando l’opera in tanti “embrioni” filmici dissimili e disomogenei.
No, non è andato per il verso giusto quasi niente. La prima stagione era detection purissima, limpida e secca, questa è una bislacca storia hard–boiled poco coinvolgente e farraginosa.
di Stefano Falotico
Indietro nella memoria, True Detective
Ora, come molti sapranno, sono attualmente in corso le riprese della terza stagione di True Detective, interpretata da Mahershala Ali. Nell’attesa che i ciak si concludano e aspettando la sua messa in onda, che avverrà con tutta probabilità non prima della metà del prossimo anno, e tralasciando la seconda stagione, forse un intermezzo, una parentesi dimenticabile, facciamo un promemoria recensorio della prima stagione, quella celeberrima che ha inaugurato la Rust Cohle mania, ingenerando un fenomeno di culto che non si vedeva forse dai tempi di Twin Peaks.
Ecco che, dopo una lunga gestazione, dopo una segretezza assoluta riguardo al progetto, sulla HBO il 12 Gennaio del 2014 debutta appunto la prima stagione di questa serie antologica, cioè una serie che, mantenendo intatte le coordinate narrative e rimanendo coerentemente pressoché omogenea nei canovacci stilistici, si rinnova però a ogni stagione a seguire, differenziandosi per trama, personaggi e conseguentemente per gli attori principali che la interpretano.
In questa iper-osannata, lodatissima prima stagione, in archi temporali diversi magmaticamente collegati fra loro in maniera sulfurea e immaginativa, seguiamo l’indagine di due detective, Rustin Cohle (Matthew McConaughey), detto Rust, e Martin Hart (Woody Harrelson), detto Marty, alle prese con la spasmodica caccia a un serial killer della Louisiana, fra paludi plumbee, notti allucinate, visioni mesmeriche e una impalpabile, magnetica ambientazione cupa e magicamente esoterica. Dal 1995 al 2012 i due uomini si dannano per acciuffare questo fantomatico uomo misterioso che ha ucciso giovani donne con efferatezza mostruosa. Poi, dal 2012, quando tutto pareva essere stato risolto, l’ingarbugliata storia ha nuovamente inizio perché il caso viene riaperto. Tutto parte col ritrovamento di Dora Lange, una donna rinvenuta ai piedi di un gigantesco albero con la testa fracassata e sormontata da corna di cervo, stuprata e assassinata brutalmente dopo un rito satanico.
Rust Cohle è un uomo enigmatico, perennemente tormentato, afflitto forse dalla sua imperscrutabile solitudine, esperto di criminologia, che abita in un piccolo appartamento scarno e mal arredato, sovrastato da un crocefisso. Lui sostiene di considerarsi un uomo realista ma afferma che in termini filosofici è un pessimista. Magro, smunto, accigliato, nervoso, fuma imperterritamente sigarette su sigarette e par che reprimi ogni emozione briosa dietro una maschera taciturna gelidamente ascetica. Pace omeostatica del suo insanabile tormento esistenziale o elevazione zen di un’anima modellata nei muscoli tesi della sua carne sacrificata?
Marty invece pare essere felice, ha una famiglia e una bella moglie, è un uomo emotivamente stabile e all’apparenza soddisfatto, ma poi tradisce la consorte con una ragazza di facili costumi, e impariamo presto che, a differenza di quel che possa sembrare a prima vista, è un tipo sanguigno, irascibile, burrascoso, perfino irruento e istintivo.
Due personalità antitetiche ma al contempo speculari che si ritrovano, diventano coppia fissa e si fanno compagnia, fra litigi e scazzottate, in questo lungo, interminabile viaggio ai confini della follia dell’animale uomo, un’immersione dolorosissima prima della catarsi cristologica, dopo l’annientamento la rinascita, il tetrissimo buio dell’oscurità e poi forse la speranza che qualche bagliore cristallino soavemente illumini di bellezza questo mondo maledetto da Dio.
Scrive il prodigioso Nic Pizzolatto, che incede in meticolose riflessioni metafisiche, ammanta di ancestrale fascino, oserei dire, spiritico questa storia appassionante di demoni e uomini solitari, ricreando a nuova vita il mito di Carcosa, attingendo fantasiosamente dall’omonima, immaginaria, sotterranea, celtica e misterica città sepolta raccontata in The King in Yellow and other stories di Ambrose Bierce, Robert W. Chambers e del leggendario H.P. Lovecraft. Attinge dalle suggestioni di questo libro per reinventare temi e situazioni, lo plagia con scrupolosità filologica, lo purifica persino e quindi allestisce un’opera seriale di pregiata sciccheria, un raffinato pot–pourri sapientemente coagulato di aromatiche atmosfere boschive, umide, spettrali, giocate tutte sul lividoso colore opaco e traslucido post-uragano Katrina.
Allorché True Detective non riesci a dimenticarlo, ogni puntata t’incolla ipnoticamente alla sua visione.
Il merito è di Pizzolatto o della messa in scena disadorna, non effettistica ma efficacissima di Cary Fukunaga? Oppure gran parte del successo si deve alla prova carismatica di un possente, “mistico” Matthew McConaughey?
Ma, soprattutto, True Detective 1 è quella grande serie che ha meritato il plauso che continua ad avere?
Quentin Tarantino, intervistato da Vulture, ha detto… Ho provato a vedere la prima puntata di True Detective, prima stagione, e non l’ho capita.
Ma con tutta la grande stima che nutriamo per il mitico Quentin, sulle cui lecite provocazioni ci sarebbe da discutere e aprire dibattiti come iene che discettano di Like a Virgin, lui pare essere davvero l’unico a non averla capita e amata.
Ora, cosa voglio dire con questo? Che True Detective è davvero il gioiellino intoccabile sul quale mai ci sentiremmo di muovergli delle critiche, esente da difetti e che rimane ad anni di distanza un colpo indimenticabile?
No, mi sento in parte di dissentire. Come tutte le serie, anche le più belle e riuscite, la compattezza si avverte solo a visione completata e avvenuta, in molti, troppi punti, un certo senso di tediosità, e qui do ragione a Quentin, c’è inevitabilmente, è il prezzo che paga questo “format”. Allorché alcuni siparietti, alcune scaramucce fra Rust e Marty sembrano essere lì apposta per allungare il brodo, molte digressioni sono indubbiamente prolisse e non necessarie e spesso, va detto, pare che seguiamo il flusso narrativo solo per aspettare che si spezzi per ammirare l’interrogatorio monologhista di Rust e studiare a memoria quelli che sono oramai i suoi famosi discorsi, youtubizzati e stracitati, sul senso della vita, sulla religione, la coscienza. Monologhi retti dal carisma di McConaughey, sciupato, sdrucito, emaciato, ma che non di rado, rivedendoli, appaiono insopportabilmente sentenziosi, grevemente massimalisti, vanitosamente lapidari.
di Stefano Falotico
Robert De Niro And Bradley Cooper Swap Stories, With An Unplanned Assist From David O. Russell – Tribeca
From Deadline.
Bradley Cooper and Robert De Niro shared a halting but affectionate hour onstage at the Tribeca Film Festival this evening, with director David O. Russell joining them halfway through to keep the dialogue going.
The Equalizer 2 Trailers
DA AGOSTO AL CINEMA Sequel di The Equalizer – Il Vendicatore, avvincente thriller ispirato alla serie tv degli anni 80: Un giustiziere a New York. In questa nuova pellicola, Denzel Washington interpreta Robert McCall, ex agente delle CIA ora in pensione, impegnato a riportare l’ordine e la giustizia in una decadente New York.
Racconti di Cinema – Premonitions con Anthony Hopkins e Colin Farrell
Ecco, oggi voglio parlarvi di un film di qualche anno fa, Premonitions, uscito nei nostri cinema con un po’ di ritardo, nel 2015, distribuito dalla Lucky Red, mentre per il mercato nordamericano la suddetta pellicola è stata distribuita dalla valente Lionsgate.
Il titolo originale è Solace::
noun
Consolation in a time of sorrow, distress or sadness
verb
To give alleviation, comfort, relief
Queste diciture compaiono prima dei titoli di testa, quindi solace è il conforto, la consolazione in un periodo di stress negativo, è uno stato d’animo quasi purificativo, una catarsi.
E questo termine sintetizza il “significato” del film meglio del titolo “italiano”, peraltro stupidamente inglesizzato. E non comprendiamo ancora una volta perché inspiegabilmente gli imbecilli distributori italiani continuino ad accanirsi non solo a non tradurre letteralmente i titoli appunto originali ma addirittura se n’inventino, in becera sostituzione, altri sempre “esterofili”. Distorcendo già dapprincipio il senso del film, che è molto di più che un campionario di premonizioni.
Sì, il paranormale e le facoltà precognitive c’entrano con la storia narrata, ma presto il film assume una piega, potrei dire, bioetica.
Ma andiamo con calma. Uno psychic cioè un sensitivo (John Clancy, interpretato da Anthony Hopkins), ma anche psicanalista, ritiratosi nei boschi dopo la prematura morte della figlia e la conseguente separazione dalla moglie, viene contattato da un suo amico, agente dell’FBI (un carismatico Jeffrey Dean Morgan) per indagare su una serie di omicidi apparentemente scollegati tra loro, che però paiono essere riconducibili a un ipotetico serial killer da identificare e catturare prima che commetta altre barbariche uccisioni. La sua modalità assassina è la stessa, spezza e frantuma la parte posteriore del collo delle sue vittime attraverso un letale ferro appuntito, ammazzandole all’istante.
Clancy, dapprima recalcitrante, accetterà poi di occuparsi del caso, attratto magneticamente dal suo sesto senso infallibile che gli prefigura qualcosa di estremamente fascinoso e irresistibilmente attrattivo verso il “mostro” da incastrare.
In queste indagini, nei quali userà liberamente i suoi poteri da sofisticato veggente, sarà affiancato da una giovane donna, una profiler, Katherine Cowles (incarnata dalla bellissima Abbie Cornish), e rivedrà subito in lei la stessa purezza e fragile fragranza umanissima della figlia, uccisa all’apice della sua floridezza vitale dalla leucemia.
Ben presto, Clancy si accorgerà che quest’assassino seriale a cui stanno stando inesorabilmente la caccia non è un uomo comune. Anzi, scoprirà ben di più. Capirà che anche lui ha la capacità di leggere nel futuro, e che uccide secondo un meticoloso criterio. Tutte le sue vittime sono malate terminali o, perlomeno, persone che soffrono di qualche invalidante patologia. Nel suo “carnet” di morti da lui ammazzati, ci sono infatti un bambino affetto da un tumore irreversibile al cervelletto e una donna malata di gravissima depressione con tendenze suicide.
A compiere gli assassinii è Charles Ambrose, questo è il nome del killer spietato, che ha le fattezze di un fantasmatico e lugubre Colin Farrell. Un uomo che non solo ha la stessa veggenza di Clancy ma è persino più bravo di lui in “materia”.
Quindi, la sfida sarà estremamente difficile, perché Ambrose è sempre un passo avanti a Clancy, anzi, è lui a depistarlo e a prevedere ogni mossa, come in un gioco a scacchi sottilmente occulto e cupamente, ombrosamente ipnotico, giocato sulla telepatia.
Ambrose si è “divinizzato”, sì, gioca a fare Dio e la sua altri non è che una forma raffinata, gentilissima di eutanasia da salvatore…
Ecco allora che questo thriller di genere, apparentemente di serie B, seppur poco sorretto da una coerente, congruente plausibilità narrativa (ma è inutile pretenderla da un film che non ambisce a essere altro che intelligente intrattenimento di veloce consumo), in solo 1h e 41 min fa confluire nella sua trama elementi tanto eterogenei ma sapientemente amalgamati: il paranormale, appunto, una storia e atmosfere torbide alla Se7en, e molteplici, stratificati concetti filosofico-esistenziali.
Non ha né la voglia di approfondirli né di perderci troppo tempo il regista della pellicola, il brasiliano Afonso (sì, non Alfonso) Poyart, ma gli servono per imbastire una vicenda a suo modo coinvolgente, forse un po’ superficiale ma di prammatica ed efficace per un film, come si diceva un tempo, fatto di suspense e brividi in poltrona.
I conti non tornano, alle volte Poyart si fa prendere la mano ed esagera in immagini videoclippate e incedendo in pacchiane leziosità registiche assolutamente non necessarie e fastidiose, ma Hopkins è decisamente convincente e molto ispirato in questa personale ennesima variazione sul tema attoriale del suo famigerato, immortale Hannibal Lecter, la Cornish è una gioia per gli occhi, Dean Morgan fa il suo dovere con charme, e Farrell, nonostante appaia soltanto verso la fine, tratteggia una figura di psicopatico affascinante e prometeica, sovrumanamente perfida e cinica.
E il duello finale in metropolitana è ottimamente congegnato, girato con classe e ritmo, scandito da ammalianti, fosforescenti frame diluiti con stile adrenalinico ed emozionante.
Certo, molte cose non vanno in questo film, a partire dalle oramai troppo abusate panoramiche in ralenti delle pallottole alla Matrix, ma è un film comunque da rivalutare.
E la Critica americana e anche nostrana è stata troppo ingenerosa. Sono inoltre stufo e nauseato quando leggo recensioni fatte con lo stampino, in cui si abusa sbrigativamente di espressioni e modi di dire, questi sì, stereotipati come… un tempo Hopkins e Farrell erano una garanzia, invece hanno girato un filmetto alimentare, Hopkins è annoiato e distratto, oppure lasciate perdere…
I film vanno visti con più oculatezza e questo Premonitions non è certo un capolavoro, neppure un grande film, certamente, è sin troppo magniloquentemente appariscente, grossolano e tronfio, ma il colpo di scena finale vale il prezzo del biglietto e, come si suol dire, per due ore circa saprà avvincervi senza mai annoiarvi.
Per un film di genere, soprattutto di questi tempi, è già molto. Fidatevi.
di Stefano Falotico