Ebbene, oggi voglio parlarvi di uno dei film dell’anno, un film che ha fatto sfracelli quando è stato presentato in Concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia e i cui apprezzamenti sono ascesi così tanto da fargli guadagnare numerose nomination all’Oscar. Il pubblico n’è andato matto, la Critica, come detto, l’ha incensato di lodi, anche se a ben vedere, personalmente, sarei più moderato nel darne un giudizio troppo entusiastico.
Ennesimo spaccato della provincia americana, brutta, sporca, cattiva, omertosa, ipocrita e razzista, ove le verità vengono seppellite dai silenzi, dalla gente che sa, o forse vorrebbe sapere, ma sta zitta, mormora, e alla fine preferisce non pensarci.
Una ragazzina è stata stuprata nella zona ma il colpevole non è mai stato acciuffato, e la madre (una spigolosa, volitiva, “pazza” Frances McDormand) non si rassegna. Al che, per scuotere l’opinione pubblica, per far sì che la polizia locale, addormentata dalla routine monotona del suo bighellonare irresponsabile, la donna affitta tre cartelloni pubblicitari a un centinaio di metri da casa sua, affibbiandoci scritte forti, persino offensive nei confronti dello sceriffo, affinché appunto il caso della figlia scomparsa, violentata e barbaramente uccisa, venga da qualcuno ripreso in mano e si proceda seriamente alla caccia dell’assassino maniaco. Insomma, compie questo pittoresco gesto per sbloccare soprattutto l’inerzia allucinante di una polizia sonnolenta e pigra che, a quanto pare, invece che fare il suo dovere se n’è lavata esecrabilmente le mani, lasciano l’impunito a piede libero.
Ma Ebbing, questa cittadina rurale immaginaria, cullata nella sua noia e nelle sue banali ritualità quotidiane, forse non è il posto giusto per una come Mildred. Lei è una matta idealista mossa oramai soltanto da un desiderio profondissimo di giustizia. Ed è una donna che ha perso tutto. È divorziata, si arrangia come può a vendere oggettini preziosi in una piccola bottega di souvenir, ha un figlio adolescente che deve crescere da sola, perché il marito l’ha abbandonata per mettersi con una diciannovenne ignorantissima che pulisce lo sterco nello zoo. E agli occhi della comunità, per la sua rabbia irruenta e la sua personalità difficile, appare come una mezza invasata e una poveretta.
Lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) è un tipo tosto, dai modi bruschi, caratterialmente irascibile, ma sta morendo di Cancro e sostiene testardamente che non ci siano elementi necessari per continuare le indagini e non si può incriminare nessuno. Il suo vice (Sam Rockwell) è un redneck, o se preferite un white trash, un coglioncello che usa il manganello contro i deboli e i neri per sfogare le sue ire represse, castrato e succube di una madre oppressiva da cui non riesce a sganciarsi per il suo atavico complesso di Edipo.
Il film diventa quindi la storia di un’ossessione, di rabbia che genera rabbia, in un’escalation macabra e spietata, nera ma anche buffa, ironica e assurda sul colorito, raccapricciante microcosmo di una città solo all’apparenza tranquilla.
McDonagh, che ha scritto al contagocce anche la sceneggiatura, fra trovate burrascosamente ilari e qualche caduta di tono nei dialoghi, non sempre ficcanti e del tutto calibrati, dirige con piglio, mantiene alto il coinvolgimento e il grottesco divertimento per le due ore di durata, senz’annoiare mai e trovando sempre snodi spassosi ma anche commoventi a una narrazione tanto bislacca quanto goduriosa, da leccarsi i baffi.
Il male aleggia indisturbato, la gente è falsa, incaponirsi alla ricerca di una catartica illusione di giustizia probabilmente servirà solo per disperarsi ancora di più, per tormentarsi nel dolore, nell’irreversibile tragedia disumana e terrificante. E, in cuor suo, forse Mildred sa che illudersi è forse l’unico modo per trovare un senso a una vita devastata.
Tutto scorre in maniera perfetta, tanto perfetta da non emozionare e stupire sempre come pretendiamo avvenisse, fra una torreggiante McDormand e la simpatica testa di cazzo di Rockwell (entrambi premiati con l’Oscar), ma il finale, sbracato, sbrigativo, morbidamente sospeso nel non essere trasgressivo, smentendo le origini invece sovversive di tutto l’eversivo sviluppo narrativo, potrebbe però scontentare parecchi. Se fosse stato cinico come ci saremmo aspettati visto il mood del film, l’avremmo accusato di eccessivo giustizialismo, allora McDonagh, che non è uno stupido e sa cosa piace per essere definito bello, è qui furbissimo e dunque delude, lasciandoci un sapore agrodolce negli occhi e nell’anima che andava, a mio avviso, radicalmente più scorticata, turbata, e non possiamo essere soddisfatti da questa calcolata strizzatina agli Academy…
E forse Tre manifesti… rimarrà solo un bel film, ma lontano dal capolavoro che si dice e si è detto.
Starring Shailene Woodley (Fault in Our Stars, Divergent films) and Sam Claflin (Me Before You, The Hunger Games films), ADRIFT is based on the inspiring true story of two free spirits whose chance encounter leads them first to love, and then to the adventure of a lifetime. As the two avid sailors set out on a journey across the ocean, Tami Oldham (Woodley) and Richard Sharp (Claflin) couldn’t anticipate they would be sailing directly into one of the most catastrophic hurricanes in recorded history. In the aftermath of the storm, Tami awakens to find Richard badly injured and their boat in ruins. With no hope for rescue, Tami must find the strength and determination to save herself and the only man she has ever loved. ADRIFT is the unforgettable story about the resilience of the human spirit and the transcendent power of love. Coming Soon to Theaters Cast: Sam Claflin and Shailene Woodley Director: Baltasar Kormákur Writer: Aaron Kandell, Jordan Kandell and David Branson Smith Producers: Aaron Kandell, Jordan Kandell, Baltasar Kormákur, Andrea Scarso and Ralph Winter
Life Itself centers on a couple (Oscar Isaac and Olivia Wilde) that lead a multi generational love story spanning both decades and continents, from the streets of New York to the Spanish countryside, and are all connected by a single event. Starring Oscar Isaac, Olivia Wilde, Mandy Patinkin, Olivia Cooke, Laia Costa, Annette Bening and Antonio Banderas.
Ebbene, dopo un’interminabile attesa, dopo le riprese durate svariati mesi, svoltesi nella segretezza più assoluta, dopo che di questo progetto erano trapelate pochissime informazioni e soltanto un’immagine rubata dal set, ecco che la Indigo Film e la Universal Pictures International Italy, pochissime ore fa hanno diffuso il primo teaser trailer di Loro, nuovo, ambizioso film di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo nei panni di uno dei personaggi più amati e odiati della storia del nostro Paese, il controverso e vituperato Silvio Berlusconi. Sì, proprio lui, il caimano come lo definì Nanni Moretti, l’uomo che dal nulla si è creato un impero fatto di successo, politica, affari truffaldini, e sempre attorniato da bellissime donne, l’uomo bersagliato da chiunque per i suoi scandali sessuali, l’uomo che nonostante tutto ancora continua ad accentrare le attenzioni e fa parlare di sé.
Giusto un assaggio, però da leccarsi i baffi. Udiamo una voce in sottofondo che chiede a Berlusconi… mate che cosa ti aspettavi? Di poter essere l’uomo più ricco del Paese, fare il premier e che anche tutti ti amassero alla follia?
Sì, IO MI ASPETTAVO PROPRIO QUESTO…
E quindi di sfuggita scorgiamo il viso di Servillo che si specchia. È lui o non è lui? È Berlusconi? Ancora presto per poter capire se Servillo sia stato in grado d’interpretare Berlusconi in forma da Actor’s Studio, diciamo così, aderendo e immedesimandosi completamente al ruolo nel trucco, nella mimica, nelle posture, o se Sorrentino abbia invece voluto farne una caricatura.
Ma, a giudicare dal timbro vocale utilizzato da Servillo, alquanto somigliante con la voce di Berlusconi, siamo pronti a scommettere che sarà un’interpretazione davvero notevole.
Oggi voglio parlarvi de Gli invisibili, un film passato quasi sotto silenzio quando uscì in Italia, arrivato con due anni di ritardo. Sì, negli Stati Uniti fece il suo debutto nelle sale nel 2014, mentre da noi, distribuito da Lucky Red, è stato presentato al pubblico, con scarso successo, ripeto, solo il 16 Giugno del 2016, in un periodo pressoché tardo-primaverile in cui quasi nessuno va al cinema.
Sto parlando de Gli invisibili, anche se sarebbe più doveroso e propriamente più pertinente, come spesso capita, chiamarlo per il suo vero titolo, molto più azzeccato, quello originale, Time Out of Mind, cioè il tempo fuori dalla mente, o meglio anche nella mente, negli spazi temporali del proprio vissuto, nella prigionia imbattibile delle proprie precarietà esistenziali, delle dolenze emozionali, dell’esperirsi e inasprirsi nell’anima consunta e lacerata giorno dopo giorno, in giorni che come una processione ininterrotta proseguono melanconicamente, senz’apparenti vie d’uscita. E ci si trascina stanchi, abbattuti, nel gelo scorticante d’un grande freddo emotivo.
Il film segna la prima collaborazione, la prima combo, come si dice oggi, fra il regista Oren Moverman (Oltre le regole – The Messenger, Rampart) e Richard Gere, due che immediatamente si sono trovati in perfetta sintonia, collaborazione fruttuosa e stimolante che continuerà poi nel discutibile The Dinner e per L’incredibile vita di Norman, del quale Moverman è stato però “solo” produttore.
Ora, prima di parlarvi del film più dettagliatamente, credo sia necessario soffermarci nel fare una considerazione sulla carriera di Richard Gere, soprattutto per la piega che sta prendendo inaspettatamente negli ultimi tempi. Come da lui stesso dichiarato in recenti interviste, questo divo che ha incantato e fatto innamorare migliaia di donne di tutto il mondo per la sua elegante allure, per la sua bellezza da gentleman incontrastato, per il suo fascino indubbio e per sempiterno sex appeal, è stato escluso pian piano dallo star system e oggi sta cercando, lodabilmente, un percorso attoriale più in linea con la qualità, abbandonando i blockbuster che l’hanno reso celebre e imposto come una stella dallo charme imbattibile, per darsi con grande coraggio e vogliosa intraprendenza a personaggi più marginali in pellicole più di nicchia, insomma, sta rinunciando alla sua immagine di bello impossibile perfino per imbruttirsi e ha abbandonato lo stereotipo del bamboccio irresistibile. Una scelta che pian piano si sta rivelando vincente. Da anni, infatti, Gere si prodiga per i diritti umanitari ed è attivamente coinvolto in imprese benefiche. A questo si aggiungano appunto le sue apparizioni sul grande schermo sempre più centellinate ma distillate con oculatezza e maggiore volontà artistica.
Ecco dunque che in questo film, pacato, silenzioso, dall’andamento quasi soporifero, meticolosamente di una lentezza esasperante, morigerato e plumbeo, Gere interpreta George, un sessantenne alcolizzato e disoccupato, in poche parole un homeless, un barbone.
S’inizia con la comparsata di Steve Buscemi, che volutamente viene inquadrato in volto solo di sfuggita, che fa irruzione in un’abitazione disadorna e fatiscente, e trova il nostro George accasciato in una vasca da bagno. Lo sveglia e lo obbliga presto ad alzarsi, a recuperare i suoi oggetti personali e a sloggiare. Cioè lo sfratta e lo butta in mezzo alla strada. Da qui, il nostro George passerà tutto il film a girovagare senza meta, a peregrinare con lo sguardo perso e addormentato, tra chiese, panchine, dormitori e rifugi. Ed entrerà in contatto con un’umanità invisibile, quella degli oppressi, dei senzatetto, degli emarginati, di coloro che hanno perso tutto e fanno l’elemosina agli angoli di periferia, instaurando una balzana amicizia con un negro mitomane che non smette mai di parlare, in preda ai suoi deliri patetici al contempo autoassolutori e massimalisti. George/Gere è immerso nella scanzonata ipocondria della sua mente collassata, abbarbicato all’unica, flebile speranza di poter riavvicinarsi alla figlia, una barista che da quando aveva dodici anni l’ha ripudiato, dandogli la colpa di non essere stato un buon padre e di essersi disinteressata di lei proprio nel momento più importante e formativo della sua esistenza.
Film sul sogno americano disgregato, sulle dissezioni sociali che la nuova economia capitalista ha mostruosamente creato, sul pullulare di vite inascoltate senza più legami affettivi, e infatti Moverman non poche volte inquadra il nostro tragico “eroe” da lontano, da prospettive sghembe, filtrate dalle vetrine, distaccate, quasi a rispettarne il dolore con delicato pudore e allo stesso tempo compiendo la scelta estetica, e anche “etica”, di “visualizzare” l’indifferenza con cui gente come George viene vista dai “normali”.
Gere s’impegna in sottrazione, con misura stimabile, e si compenetra appassionatamente in George, uomo che sino alla fine non capiamo se è matto, sano o soltanto uno sfortunato, e se il film in qualche modo funziona lo si deve alla sua onestà interpretativa, alla sua irreprensibile immersione appunto nel personaggio. Anche se, ammettiamolo, raramente abbiamo visto un barbone che, nonostante la povertà e il fatto che si lavi poco, rimane così piacente e attraente. Ed è inevitabile che, essendo Gere a interpretarlo, qualche stonatura emerga inevitabilmente e la simbiosi non sempre appaia credibile.
Ma il film probabilmente sbaglia i toni e risulta comunque abbastanza insincero. Perché ci risiamo… Moverman proviene dall’alta borghesia, gli è venuta l’idea di scrivere, oltre che naturalmente dirigere, una storia (assieme a Jeffrey Caine) che potesse emozionare e sensibilizzare le coscienze, ma la sua resta l’ottica di un ricco che quell’esperienze non le ha davvero vissute sulla propria pelle, e il suo sguardo in più punti appare programmaticamente studiato, calcolato, gelidamente anonimo e non veramente sentito. Almeno questa è stata la mia impressione per tutta la lunga visione (il film dura due ore che, data la lentezza, sembrano molte di più). Come ha scritto Goffredo Fofi, Moverman non è Jack London, è un regista che sa navigare nel mondo dei ricchi, come tanti suoi colleghi, parlando dei poveri. Anche nel cinema, oggi più che mai, ci sono ibridazioni necessarie e ce ne sono di fasulle, di modaiole. L’oscillazione di Moverman è di quelle meno sincere, e dunque delle più opportunistiche, delle meno simpatiche. A differenza di Fofi, non sarei così radicale e bisogna ammettere che comunque, nonostante l’operazione sia spesso forzata, alcuni momenti sono toccanti e alcune atmosfere sono congenialmente suggestive e forti.
Ma il film, in buona sostanza, nonostante Gere che non fa Gere, non sortisce l’effetto sperato e anche il tema del difficile rapporto padre-figlia, alla fin fine, rientra tutto sommato nei canoni della tradizione hollywoodiana melodrammatica, artificiosamente sentimentalistica e prevedibile, quasi a confermare ancora una volta che Hollywood proprio non ce la fa a schivare appieno la retorica e casca nei soliti tranelli moralistici anche quando vorrebbe far Cinema riflessivo e impegnato fuori dagli standard.
Va anche detto che però l’argomento homeless è stato sfiorato poche volte dal Cinema a stelle e strisce della grande Mecca. Sono pochi inoltre gli esempi di questo tipo di Cinema “a parte”, o meglio dalla parte degli “scomparsi”, da citare. Penso a Fort Washington – Vita da cani di Tim Hunter con Danny Glover e Matt Dillon o, recentemente, al sottovalutato Being Flynn di Paul Weitz con Robert De Niro e Paul Dano. Ma, certamente, il film migliore sul tema, anche se va detto che non è solo un film sui barboni ma anche sulla pazzia e molto di più, rimane l’indiscusso e stupendo La leggenda del re pescatore.
Nota finale: come molti hanno notato, Gere, a un certo punto del film, dice che, prima di diventare barbone, aveva campato per un po’ facendo l’“ospite gentile” di alcune signore che lo “ospitavano” a casa loro. Che abbia voluto strizzare l’occhio, per curioso parallelismo metacinematografico, al suo indimenticabile Julian Kay di American Gigolò?
Piccola curiosità infine: il direttore della fotografia è Bobby Bukowski, e in effetti questa storia ha molti echi bukowskiani… eh eh. Sia sempre lodato Charles…
E permettetemi anche una nota tragicomica nella sua ironia dissacrante: è un film sul pauperismo, sulla gente i cui equilibri psico-emozionali depauperano…
Ebbene, l’infinita telenovela Weinstein continua secondo un copione che ha oramai dell’incredibile. Soltanto pochi giorni fa, pareva tutto risolto e l’investitrice Maria Contreras-Sweet, in un comunicato ufficiale, aveva comunicato l’acquisizione della compagnia da parte della sua cordata d’investitori. Nelle scorse ore, invece, come riportato in esclusiva da Deadline, quello che sembrava un accordo già formalizzato, a cui mancavano solo le firme, è ancora una volta saltato. E ora, alla luce dei recentissimi fatti, appare davvero improbabile che la Weinstein Company possa salvarsi dall’imminente fallimento.
Ma cos’è successo? Dopo molte traversie, la signora Contreras-Sweet, miliardaria investitrice che fu una delle responsabili numero uno delle piccole imprese durante l’amministrazione Obama, pareva essere a un passo dall’acquisizione di tutti gli assets della Weinstein Company. Impegnandosi seriamente a salvare ben centocinquanta posti di lavoro, a redigere un nuovo consiglio di amministrazione a maggioranza femminile e a istituire un fondo di risarcimento per le donne vittime degli abusi, che ammontava fra gli 80 e 90 milioni di dollari.
Ma qualcosa, all’ultimo momento, non è andato per il verso giusto…
Dopo aver firmato e iniziato la fase di verifica della conferma, abbiamo ricevuto informazioni deludenti sulla fattibilità del completamento di questa transazione…
Queste le parole di una delusa e sconcertata Contreras e fonti anonime vicino alla trattativa avrebbero riferito che gli acquirenti, con loro sommo stupore e sbigottimento, avrebbero scoperto un debito di circa 64 milioni di dollari di passività occultate.
Brutta faccenda…
Insomma, prima la Weinstein aveva detto che era a un passo dal fallimento, poi il salvataggio in extremis della Contreras, quindi un ultimo, definitivo colpo di scena.
La vendita è sfumata, ma vi terremo aggiornati. Non ci stupiremmo infatti che per l’ennesima volta possano arrivare nuove, grottesche smentite.
Mandatory Credit: Photo by Rob Latour/REX/Shutterstock (9446184kh) Guillermo del Toro – Best Picture – ‘The Shape Of Water’ 90th Annual Academy Awards, Show, Los Angeles, USA – 04 Mar 2018
BEST PICTURE THE SHAPE OF WATER
Guillermo del Toro and J. Miles Dale, Producers
ACTRESS IN A LEADING ROLE FRANCES MCDORMAND
Three Billboards outside Ebbing, Missouri
ACTOR IN A LEADING ROLE GARY OLDMAN
Darkest Hour
DIRECTING THE SHAPE OF WATER
Guillermo del Toro
MUSIC (ORIGINAL SONG) REMEMBER ME
from Coco; Music and Lyric by Kristen Anderson-Lopez and Robert Lopez
MUSIC (ORIGINAL SCORE) THE SHAPE OF WATER
Alexandre Desplat
CINEMATOGRAPHY BLADE RUNNER 2049
Roger A. Deakins
WRITING (ORIGINAL SCREENPLAY) GET OUT
Written by Jordan Peele
WRITING (ADAPTED SCREENPLAY) CALL ME BY YOUR NAME
Screenplay by James Ivory
SHORT FILM (LIVE ACTION) THE SILENT CHILD
Chris Overton and Rachel Shenton
DOCUMENTARY (SHORT SUBJECT) HEAVEN IS A TRAFFIC JAM ON THE 405
Frank Stiefel
FILM EDITING DUNKIRK
Lee Smith
VISUAL EFFECTS BLADE RUNNER 2049
John Nelson, Gerd Nefzer, Paul Lambert and Richard R. Hoover
ANIMATED FEATURE FILM COCO
Lee Unkrich and Darla K. Anderson
SHORT FILM (ANIMATED) DEAR BASKETBALL
Glen Keane and Kobe Bryant
ACTRESS IN A SUPPORTING ROLE ALLISON JANNEY
I, Tonya
FOREIGN LANGUAGE FILM A FANTASTIC WOMAN
Chile
PRODUCTION DESIGN THE SHAPE OF WATER
Production Design: Paul Denham Austerberry; Set Decoration: Shane Vieau and Jeff Melvin
SOUND MIXING DUNKIRK
Mark Weingarten, Gregg Landaker and Gary A. Rizzo
SOUND EDITING DUNKIRK
Richard King and Alex Gibson
DOCUMENTARY (FEATURE) ICARUS
Bryan Fogel and Dan Cogan
COSTUME DESIGN PHANTOM THREAD
Mark Bridges
MAKEUP AND HAIRSTYLING DARKEST HOUR
Kazuhiro Tsuji, David Malinowski and Lucy Sibbick
ACTOR IN A SUPPORTING ROLE SAM ROCKWELL
Three Billboards outside Ebbing, Missouri
Cos’altro è, l’amore di Alma e Reynolds, se non un’ode funerea alla venerazione dell’Altro come suprema fonte di innalzamento e allo stesso tempo di abiura di se stessi? Estasi e paralisi, fremito di eccitazione e gelo immobilizzante, un andirivieni di impulsi e rimpianti rappresentato sullo schermo con una tattilità accecante, che va persino oltre il gioco dell’accudimento e della seduzione. “Il filo nascosto” chiede, semplicemente, occhi nuovi per essere guardato, una più radicale forma di innamoramento che ci costringa alla stessa nudità spettrale e infantile cui sono inchiodati il pigmalionico stilista londinese Reynolds Woodcock di Daniel Day-Lewis e la sua Alma: manichino devoto eppure resiliente, di rozza e struggente purezza, sotterrata sotto i magnifici e terribili ricami delle sue creazioni.
Abiti materni, di siderale lucentezza, sepolti sotto il peso di incubi lontani ed eterni. Perfino troppo perfetti per essere calzati, proprio come l’ardore che cresce in petto all’uno e all’altro, inattuabile tanto nel languore purissimo di lei quanto nella sacrale distanza di lui, condannato alla tentazione sussurrata dell’avvelenamento e dello scontro campale, all’occultamento tra le maglie di un intarsio senza nome che esploda come nevrosi, desiderio, sogno, sintomo. Come istanza di morte e di rinascita, in cui, nel rapporto di coppia, ognuno è contemporaneamente servo e padrone dell’altro secondo prospettive che continuamente si riformulano, resistono, con violenza e docilità, alla dittatura dei corpi da abitare, dei sentimenti disarmati e incustoditi da dischiudere.
“Ti voglio indifeso, e poi di nuovo aperto”.
“Il filo nascosto” reclama un’adesione oltre l’adorazione e al di là della genuflessione, che pure è obbligata, dinanzi a un tempio cinematografico come quella messo in piedi da Paul Thomas Anderson, dove ogni cosa risplende della luce dell’ossessione (il grande crinale della seconda, impressionante metà della sua carriera), di una magniloquenza pulsante e scombussolante. Di una cura per il dettaglio come costruzione continua del senso e del vero, attraverso immagini e suoni che tremano e sussultano di angoscia e di passione, di madri e di sorelle, di volti bergmaniani taglienti come lame e infrangibili come gigantografie tragiche, di Rebecche e di Mrs. Danvers, di possessioni e di vestizioni.
Ciò che rende “Il filo nascosto” un capolavoro, nel senso più pieno e più alto del termine, a una seconda (terza, quarta, forse infinita visione) è il mistero insondabile e viscerale che giace e tracima al suo interno: quello di un’affezione che è al contempo volontà di potenza titanica e abbandono febbrile e disarticolato all’Altro, senza fili e senza ormeggi, stremati ma affamati. La massima esaltazione di sé possibile, nella negazione. Aspettando che un nuovo anno e una nuova vita sopraggiungano, asserragliati alla consueta lotta per proteggersi dai fantasmi e dal tempo, alla fiamma crepitante di quei demoni troppo familiari per essere scacciati: never cursed, “mai maledetti”, dolorosamente accucciati di fianco alla parte segreta di noi che cuciamo tra le pieghe delle nostre vesti più recondite e che, a prescindere da ogni strazio o strappo, non possiamo che intrecciare dentro al petto, a due dita dal cuore.
The board of directors at The Weinstein Company — Tarak Ben Ammar, Lance Maerov and Bob Weinstein — are now confirming the deal to sell the company’s assets to the investor group led by Maria Contreras-Sweet and Ron Burkle. So is New York Attorney General Eric T. Schneiderman.
First is the statement by the board, and then the AG.
“We are pleased to announce that we have entered into an agreement to sell the assets of The Weinstein Company to an investor group led by Maria Contreras-Sweet and Ron Burkle,” said the Board. “The deal provides a clear path for compensation for victims and protects the jobs of our employees. We greatly appreciate the efforts of Attorney General Schneiderman and his staff, Maria Contreras-Sweet, Ron Burkle and his team at Yucaipa for bringing about this agreement. We consider this to be a positive outcome under what have been incredibly difficult circumstances.”
This from Schneiderman:
“As I made clear from the start, our office will support a deal that ensures victims will be adequately compensated, employees will be protected moving forward, and those who were responsible for misconduct at TWC will not be unjustly rewarded.
As part of these negotiations, we are pleased to have received express commitments from the parties that the new company will create a real, well-funded victims compensation fund, implement HR policies that will protect all employees, and will not unjustly reward bad actors. We will work with the parties in the weeks ahead to ensure that the parties honor and memorialize these commitments prior to closing. Our lawsuit remains active and investigation remains ongoing at this time.”
PREVIOUS, 3:16 PM: In a plot twist worthy of a cinematic thriller, the investment team lead by Maria Contreras-Sweet has reached a deal to acquire The Weinstein Company’s assets just days after it appeared the embattled studio was destined for bankruptcy.
Contreras-Sweet announced that she and the Weinstein Co.’s board of directors reached an agreement today for the purchase of assets to launch a new, female-led movie studio whose board of directors will be made up by a majority of women.
The deal would save about 150 jobs, protect the small businesses owed money by TWC and create a fund to compensate victims of sexual harassment and abuse.
“This next step represents the best possible pathway to support victims and protect employees,” Contreras-Sweet said in a statement.
Contreras-Sweet acknowledged the role of New York Attorney General Eric Schneiderman, whose civil rights lawsuit, filed on February 10 threatened to derail the $500 million deal. The attorney general’s office might agree to settle the suit if the victim’s fund, proposed in a meeting last week, were created to compensate Harvey Weinstein’s alleged victims.
“We are grateful to the New York State Attorney General’s office for their efforts in helping us reach an agreement and we are grateful to our investors who have believed in this process and in the compelling value of a female-led company,” Contreras-Sweet said in a statement issued while she was still in the room.
It is unclear whether the investor group, which includes billionaire Ron Burkle, agreed to provide a $7 million bridge fund to keep The Weinstein Co. afloat through the 40-day process to close the deal. The matter was resolved “amicably,” according to one source.
Our team is pleased to announce that we have taken an important step and have reached an agreement to purchase assets from The Weinstein Company in order to launch a new company, with a new board and a new vision that embodies the principles that we have stood by since we began this process last fall. Those principles have never wavered and have always been to build a movie studio led by a board of directors made up of a majority of independent women, save about 150 jobs, protect the small businesses who are owed money and create a victims’ compensation fund that would supplement existing insurance coverage for those who have been harmed. The cornerstone of our plan has been to launch a new company that represents the best practices in corporate governance and transparency.
This next step represents the best possible pathway to support victims and protect employees.
We are grateful to the New York State Attorney General’s office for their efforts in helping us reach an agreement and we are grateful to our investors who have believed in this process and in the compelling value of a female-led company. We also want to thank all the parties who returned to the negotiating table to help us reach this development.
I have had a long-standing commitment to fostering women ownership in business. This potential deal is an important step to that end.
Questo sito è un viaggio serpentesco, inerpicato e "inalberato" melodiosamente nelle nostre tempie, Tempio di meningi oscure contro l'oscurantismo.
Guai a toccarlo, a lederlo o a demolirlo. Se sfiderete tale mon(ol)ito, sarete ar(re)si all'Inferno dell'imbecillità di massa.
Amen.
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