L’uomo di neve, recensione
Ebbene, è uscito in Blu–ray quello che doveva essere uno dei titoli di punta dello scorso autunno e invece si è rivelato un disastro, ovvero L’uomo di neve.
Il film è diretto da Tomas Alfredson e attenzione: non è da confondere col suo svedese conterraneo Daniel Alfredson, regista della trilogia Millennium con Noomi Rapace. Anche se molti, per sbadataggine, sono cascati in questo tranello.
Tomas Alfredson è invece il regista dei bellissimi Lasciami entrare e de La Talpa. E, a maggior ragione, dopo questi illustri e sofisticati film suoi precedenti, ci siam stupiti davvero oltremodo che abbia potuto dirigere tale The Snowman in maniera così sciatta, senza conferire pathos e mordente alla storia, e filmandolo come fosse un giallino tedesco da tardo pomeriggio. Delusione ancor maggiore se si tiene conto dell’apparato tecnico per cui questa pellicola si è avvalsa. Vale a dire le montatrici Thelma Schoonmaker e Claire Simpson, la fotografia di Dion Beebe e le scenografie di Maria Djurkovic. Nomi prestigiosi, di alto profilo, il cui lavoro qui appare invisibile, a partire proprio dalle luci slavate e per nulla efficaci di Beebe, che ammanta l’intero film di una patina pallidamente sbiadita, e le cui luci sfumate soltanto nei primi minuti pare s’intonino elegantemente alle atmosfere innevate delle location. Poi, s’impigrisce e i colori appaiono solo nitidamente piatti e schiacciati, insipidi e assolutamente non in grado d’illuminare con grazia la storia raccontata, storia girata in modo superficiale, approssimativo e spesso pedestre.
E che dire di Martin Scorsese in veste di produttore? Inizialmente, come molti sapranno, il progetto gli era tanto interessato che voleva dirigerlo lui stesso, affidando al solito Leonardo DiCaprio il ruolo del protagonista ma, considerando i risultati di quest’insulso pasticcio, ha giustamente fatto bene a lasciar stare.
Tratto dal libro per antonomasia dello scrittore Jo Nesbø, doveva essere una trasposizione vincente, tanto da poter perfino poter semmai ispirare dei probabili seguiti (e il finale, infatti, lascia supporre che quelle erano le intenzioni di partenza). Ma, ripetiamo, l’operazione si è sorprendentemente, inaspettatamente rivelata fallimentare.
Harry Hole è un investigatore oramai tanto leggendario da essere studiato in Accademia e per il nuovo, macabro caso di serial killer da incastrare, gli viene affiancata una giovane collega molto avvenente.
I due indagheranno su un maniaco omicida che commette assassini di rara efferatezza e, per firmare i suoi brutali delitti, lascia vicino alle vittime un pupazzo di neve.
Nel film non succede granché, anzi nulla a dire il vero, Fassbender, nonostante l’innato carisma e il fisico possente, si trascina però qui per tutto il film con aria annoiata, indossando permanentemente un impresentabile giubbotto verdognolo orrendo. E il suo personaggio è tanto poco interessante quanto decisamente inconsistente. Chi mai entrerebbe in empatia con un uomo così insignificante, distaccato e perennemente assorto nei suoi silenzi poco emozionanti?
I personaggi di contorno, allo stesso modo, sono mal scritti e accessori, funzionali soltanto a puntellare la pellicola con le loro inutili apparizioni. Sprecati la Gainsbourg, Chloë Sevigny e Toby Jones, ma assolutamente incomprensibile il ruolo nella vicenda di J. K. Simmons, per non parlare della comparsata di un Val Kilmer irriconoscibile, già devastato dal cancro che, ahinoi, inesorabilmente lo sta divorando. E il cui quasi cameo è qui futile e irrilevante.
E il colpo di scena del sottofinale è quanto mai telefonato e prevedibile. Quanto bruttamente orchestrato.
Insomma, un film fallito su tutti i fronti.
Ma, comunque, se siete amanti dei gialli nordici e delle rigide atmosfere invernali della Scandinavia, potrete anche, in qualche suggestivo scorcio paesaggistico, trovare delle ragioni minimamente valide per non stroncarlo del tutto.
di Stefano Falotico
La marginalità e la misantropia, due “pregi” che hanno sempre caratterizzato il mio (non) modus vivendi
Da molti anni a questa parte, sono amante della solitudine. Ogni qualvolta mi approccio al prossimo per cercare d’instaurare un contatto vengo travolto da sentimenti di sfiducia nei confronti dell’umanità, e giustamente mi accascio, perché non val la pena investire su chi tradirà le tue emozioni, le rosicchierà e, rubandoti l’anima, deluderà soltanto la tua visione pacifica della realtà. Sì, la gente comune è sempre presa dalle proprie stronze ambizioni e s’illude in chimere, invero vi dico, assai facete. Eppure avanzano, zombi, insozzando i cuori altrui e il mio altrove. Sì, non rimpiango le mie scelte, sebbene tutti abbiano tentato, nei più svariati modi, violenti perfino, ricattatori, “abusivi”, arbitrari e cinici, di depistarmi dal mio innato intendimento: cioè allontanarmi dal mondo e isolarmi. Molti dicono che non siamo nati per essere isole felici, appagati di noi stessi. Infatti, sbagliano. Io sostengo che bisogna crearsi la propria isola e se è invece infelice tanto meglio. Sprona alla creatività. E alla folle lucidità! Basti pensare a Philip K. Dick o a Edgar Allan Poe, non avevano amici, se ne stavano per fatti loro ed erano anche abbastanza suscettibili se si parlava loro di sesso e feste. Sì, oggi sono tutti ossessionati dalla socialità e, anche se non hanno nessun talento, si sbracciano e azzuffano pur di ottenere i loro 15 minuti di celebrità. Ma sono “minuti” nell’anima e c’insudiciano soltanto con le loro velleitarie azioni, tese solo al soddisfacimento effimero, estremamente passeggero e vacuo, della loro frivolezza bellamente, dunque bruttamente, esposta. Per questa fiera delle vanità. E caduchi stan già imputridendo nel corrompersi e svendersi, offrendo immagini di sé alquanto abiette, moralmente discutibili, oscenamente appunto impresentabili.
Allora, tanto vale mandare a fanculo il mondo, riguardare I guerrieri della notte e ascoltare Spare Parts di Springsteen.
Sì, con buona pace di chi ha tentato orrendamente di cambiarmi, posso “rassicurarli”. Sono ancora, grazie alle loro patetiche insistenze e pressioni, più “depresso” e distante di prima, freddo e romanticamente amante della mia mente. Nelle notti contro la futilità e le altrui opprimenti nebbie.
E ne son contento, alla faccia di chi mi dice che gli arreco “tristezza”.
Racconti di Cinema: L’incredibile vita di Norman con uno strabiliante Richard Gere
A fine dello scorso anno, a passo felpato, potremmo dire, dopo gli apprezzamenti entusiasti della Critica americana, è uscito da noi questo film, L’incredibile vita di Norman, anche se il titolo originale, Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, sintetizza decisamente meglio la parabola balzana dell’imprevista ascensione ambiziosa del piccolo, insignificante uomo qualunque della vicenda, i cui sogni vanno in frantumi in una progressiva discesa all’inferno.
Questo film è bellissimo, e ancora una volta la lungimirante Sony Pictures Classics si rivela prodigiosa nel saper scegliere magnificamente le sue pellicole. Una perla demodé rispetto al Cinema convulso, oggi imperante, dalle atmosfere rarefatte, buie, claustrofobiche, illuminato da invenzioni registiche graziose, con squarci di delicata poesia quotidiana, sorretto da un Richard Gere splendido, trafelato, imbruttito, con una coppola impresentabile a incorniciargli i capelli bianchissimi e dal brutto taglio, un personaggio che potrebbe ricordare tante “macchiette” di Alberto Sordi, un uomo che gironzola per una fredda New York invernale, e tra goffaggini, gaffe e indisponente smania di volersi ritagliare un ruolo importante nella società, dopo tanti tentativi falliti di una vita anonima, riuscirà ad avvicinare un politico israeliano e ne diverrà il consulente speciale, il consigliere di fiducia, il suo prezioso confidente. Sì, lo pedina dopo una conferenza, lo guarda entrare in un negozio di dolci e in modo sgradevolmente ruffiano, come il cioccolato più appiccicaticcio, ne diventa amico. Quel politico farà strada, molto, arriverà a occupare il vertice più alto della scala gerarchica, come dice lui, il posto migliore della ruota panoramica della vita, di questa nostra giostra altalenante.
Ecco allora il cambio di prospettiva nella sua vita, la vita di Norman Oppenheimer, la sua strategia untuosa si è rivelata inaspettatamente vincente, e la sua esistenza, sin ad allora passata quasi a tutti inosservata, mirabolante si riscatta in un sussulto di dignità ritrovata. Un uomo dal profilo basso, che discretamente, in maniera untuosa e sottilmente viscida, agguanta la sua celebrità da sempre vanamente inseguita.
Ma non è tutto oro quel che luccica e allora assisteremo all’inesorabile sua disfatta, perché c’è stato qualcosa di losco e corrotto nella sua ascesa. I conti non tornano e scoppia lo scandalo. È lui l’uomo di affari venuto dal nulla che ha contribuito in modo assolutamente sospetto alla realizzazione dei sogni di quel politico, ora tanto fanfarone ed esaltato, intoccabile.
Sì, film di sogni, di vite invisibili in cui si riaccende la luce, film di attori perfetti, del solito impagabile Buscemi, di una sempre più emaciata e inquietante Charlotte Gainsbourg, del serpentesco Michael Sheen, folgorato dall’apparizione ambigua di Hank Azaria, in un cameo fulminante e rivelatorio, ma soprattutto dominato, ripetiamo, da un Gere invecchiato, inedito, straordinario, a cui fa da spalla gigantesca un bravissimo Lior Ashkenazi.
E l’israeliano Joseph Cedar dirige e scrive un gioiellino da vedere e rivedere, confermandosi talento da tenere perennemente d’occhio, dopo le nomination a Miglior Film Straniero delle sue pellicole precedenti.
Che graziata, delicata concordanze di armonici volti intagliati in questa fascinosa pellicola, mistura leggiadrissima di colori, dialoghi scritti da dio, e un ritmo sapiente, orchestrato fra giuste lentezze, “riflessioni” caute della macchina da presa, furtiva e spiona delle più apparentemente ordinarie espressioni, e una New York “ebraica” raramente descritta con tale finezza ed eleganza formale.
di Stefano Falotico
Dogman, le prime foto del nuovo film di Matteo Garrone
Ebbene, direttamente dal Festival di Berlino, attualmente in corso, la rivista Variety ha rilasciato in esclusiva le primissime foto del nuovo, attesissimo film di Matteo Garrone, Dogman, incentrato sull’oscura, macabra ed efferata vicenda del Canaro della Magliana.
Per chi non conoscesse questa storia, Wikipedia ce la illustra in questo modo:
Pietro De Negri, detto il Canaro della Magliana (in romanesco: er Canaro; Calasetta, 28 settembre 1956), è un criminale italiano.
Deve il soprannome alla sua originaria attività di toelettatore di cani della zona popolare di Pian due Torri, comunemente chiamata Magliana a Roma, nel quartiere Portuense. Salì alla ribalta della cronaca nera per il brutale omicidio dell’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. Il fatto, noto alle cronache come delitto del Canaro, colpì l’opinione pubblica per la sua particolare efferatezza, poiché la vittima, stando almeno a quanto dichiarò l’assassino, sarebbe stata torturata a lungo e mutilata a più riprese prima d’essere finita.
Stando al materiale promozionale, la pellicola sarà una sorta di western urbano ambientato in un non luogo tra la metropoli e la terra selvaggia.
Un’avida, terribile, agghiacciante storia di vendetta.
Garrone ha rivelato poco della trama ma ha dichiarato quanto segue: potrebbe sembrare un film di vendetta, ma penso che Dogman sia anche un film sul disperato bisogno di dignità in un mondo dove la legge del più forte prevale e la violenza sembra essere l’unica via d’uscita.
Il film è prodotto dalla Archimede Films e finanziato da RAI Cinema e la francese Le Pacte.
E verrà distribuito dalla 01.
di Stefano Falotico