The Punisher, chi è Frank Castle?
Chi è Frank Castle? È the Punisher, l’uomo traumatizzato per eccellenza che, sotto i suoi occhi, ha visto maciullare la sua famiglia e che non vede vie di redenzione se non immergere i suoi occhi enigmatici in sprazzi e “spruzzi” splatter di angoscia ancor più catarticamente violenta, “commettere”, sì, la stessa violenza che per tutta la vita l’ha perseguitato e gli dona per qualche attimo indistinto la pace mai ritrovata. Insomma, un’evoluzione automatica, da macchina di guerra, da vittima a carnefice. Ha il volto da duro puro di un ottimo Jon Bernthal, il corpus anche attoriale giusto, che fisiognomicamente ricorda i volti di pietra delle giungle metropolitane dei reduci di una guerra lercia, come tutte le guerre, in cui gli innocenti hanno versato infinito sangue e i sopravvissuti sono morti dentro, ma forse solo a metà. Con nel cervello sbriciolato ancora ricordi di passionale tenerezza, con cuori granitici come i macigni che lui distrugge nel suo lavoro “sotto copertura” da operaio, ma che respirano flebili di sentimenti umani. Sì, non è del tutto perduto Frank il punitore, le sue notti sono insonni oppure, per devastante dolore, il sonno lo travolge, lo soffoca e lo macera in una coltre nebbiosissima d’incubi allucina(n)ti. E passeggia incappucciato sotto la Luna della sua anima sfibrata, incancrenita, ruvida come una quercia secolare che vien erosa ma non è crollata. Questo è questa serie, amata ma anche criticata, apprezzata ma anche guardata con sospetto, respinta, addirittura boicottata. Brutale, fortemente “noiosa” volutamente, perché persone come Frank vivono di silenzi interminabili, i loro sguardi sono bagliori incandescenti del magma lavico di un’anima sbucciata, stuprata, che sanguina più del sangue che fa schizzare dalle teste martellate delle sue vittime. È un fantasma, laconico tiene tutto dentro, ma comunque va avanti, invisibile, lugubre ombra di una vita spezzata, riannodata in neuroni che si riaccendono di botto e poi esplodono, schizzando ancora nella folle lucidità di un martire monumentale. Da vedere, anche da non amare, non è obbligatorio che piaccia. Ma Netflix è scatenata e partorisce un altro colpo imperdibile che spiazza, che ipnotizza, che lacera e sonnolento entra sotto pelle. A ognuno poi il suo giudizio.
di Stefano Falotico
Della situazione sociale dei giovani e anche della mia condizione non più asociale
Sebbene ancor tentenni, la mia vita da meno paure è attanagliata. E le fragilità di trascorsi per me spiacevoli si stan diluendo in una rilassatezza maggiore. Ma non una rilassatezza del tutto acquietata. Un certo grado d’inquietudine, credo, mi tormenterà sempre. È la mia natura sempre curiosa e indagatrice a non farmi assestare su perfette stabilità. E forse nemmeno le vorrei, perché smarrirei l’io mio profondo, che non si attenua a cercare risposte. Ma quest’eterna, pedissequa, continua incertezza, se un tempo era cagionatrice di forti malesseri interiori, adesso si è “metabolizzata” in una maggiore consapevolezza di me stesso che, come tutti, fa parte inevitabile del mondo. Ce ne si può estraniare per un po’ o per molto, lo si può schivare, adombrarsi, per troppe rabbie adontarsi e incappare semmai negli errori inesorabili di apparire davvero mezzi matti per colpa di essere troppo di emozioni erranti. Sì, sono uno che tutt’ora tiene tutto dentro ma questi sentimenti, da me elaborati, guardati con più oculatezza, con meno timore nell’osservarli per la loro forza “spaventosa”, sì, perché le emozioni sono il concentrato spesso di troppe energie, positive e anche negative, e le energie impauriscono perfino sé stessi, ecco… questi sentimenti sono più sinergici. D’altronde, viviamo di dinamiche, di scontri col prossimo, di attriti, di resistenze in questa variegata, mutevole esistenza. E non dobbiamo dolerci a vita se, incompresi, verremo respinti. In noi sta la coscienza umana e gli uomini che non si sono arresi faticano ad accettare i compromessi. Ah ah. Sì, qui deliro, ma ci sta. Fa parte della strampalataggine del mio essere e dunque non essere. Nella vita mi tesso, alla faccia dei fessi. Oggi di organica trama, domani come in un film di Lynch, senza “storia”.
Ma, orbene, guardiamoci in faccia. I giovani, checché se ne dica, molto bene non stan messi. Stamane, dalla radio di un bar, sintonizzata sul solito programma di beceri luoghi comuni, “udii” delle pettegole donnette parlare dei giovani. Accusandoli (ah, ci risiamo con le facilonerie) di essere dei bamboccioni che, per “comodità”, anche a sopravvenuta maggiore età, vivono coi genitori, facendoli penare. Ma il problema non sono i maggiorenni con mamma e papà, sono quelli che di età ne hanno il doppio e ancor non si “sganciano?”. Io invece credo che il problema non siano i giovani, ma la società. Abbiamo creato una società sempre più assurda, che tanto getta fumo negli occhi quanto poi, alla verità dei fatti, è ripiegata nelle solite, vetuste schematicità che tanto poco si allineano al cosiddetto progresso gridato e sbandierato, illusorio. In Italia il sapere falsamente s’istituisce e si creano sin dalle elementari delle gabbie mentali a base di “pappardelle a memoria” e van(es)i pezzi di carta che, in fin dei conti, sono soltanto credenziali facete e ipocrite. Ma ha sempre funzionato così, e quindi forse sarebbe giusto attenersi a quest’andazzo istitutore, appunto, di una società retta, ah, i rettori e le vi(t)e rette, da regole fallaci, da pedagogie e da tutor delle anime?
Insomma, il mondo si divide fra chi ha i tutori e chi ha un tumore. Ah ah. Ed è la società stessa tumorale, escrescenza malata di propaggini virali che inquinano la purezza sognatrice dei giovani battenti bandiera forte e coraggiosa. I loro sogni spegne e li annichilisce in quell’oscena catena di montaggio da cui, fortunatamente, le menti più vive e anche più complicate scappano, sulla base di un’integrità morale e psico-fisica che non intendono corrompere. Tanti specchi per le allodole, tante finte promesse, ma qui manca il pane quotidiano e di “pene” inneggiano tutti e tutte. In una società ove primeggia nei discorsi banalotti il solito sesso e in cui, se non fai lo stronzo come tutti, ti tirano pesanti sassi.
Io non sono un idealista, ma un sofferente realista. E in questo realismo trovo la poesia del vivere sapendo cos’è la vita. Oggi sbaglierò ancora, domani no(i), ieri tante cazzate commisi. Ma, in fondo, siamo umani e siamo, nonostante tutto, giovani. Che poi… ci sono i giovani vecchi, quelli che a trent’anni ragionano come ne avessero sessanta, sono maligni verso il prossimo e moralisticamente sono più tromboni degli zoccoli duri di mentalità vecchie come il cucco di ottuagenari rincoglioniti.
Con questo, che voglio dire? Voglio dire che ai vostri sogni dovete ardire e non dalle superficiali etichette farvi ardere. Brucerà a chi vi vuole male ma, si sa, niente dà più fastidio ai cattivi che vedervi serenamente viv(ent)i. Eh sì, siate di Ratso RIZZO. Ah ah!
di Stefano Falotico
Più che voglia di ricominciare, temo abbia voglia di radicarmi di me stesso pomiciare
Sono un uomo onesto… e anche lesto?! E il mio genio nessun arresta.
Molta gente assomiglia al De Niro di Voglia di ricominciare, a dirla tutta, non un grande film, anzi, tutt’altro, e non è la sede opportuna per recensirlo, ma di cui spolverai alcune scene. Ve ne cito una avente De Niro e DiCaprio protagonisti in una delle schermaglie che assomiglia tanto alla prepotenza barbosa di chi, credendosi fatto come uomo, “impartisce”, su chi pensa che pigro il suo patetismo patisca, violenze psicologiche a base di ricattatoria retorica. Un inno patetico contro il cosiddetto piagnisteo… ben venga, invece, lamentarsi e piangere in questo mondo. Ragazzi, finché avete voglia di verità e non vi vorrete annettere all’adattamento più impiegatizio, piangete pure e starnutite con foga le vostre ire. Accondiscendete questo sentimento combattivo, che non si accontenta della vita “normale”… e stronza.
De Niro, di tutte smorfie, con la sua fronte arrabbiata e corrucciata, rimprovera il povero Leo, dandogli addosso pesantemente di provocazioni bassissime…
Pensieri su cui meditare… nessun ragazzo facile allo spreco e alla negatività saprà affrontare le avversità. Si stancherà subito e si arrenderà. È il tipo che in genere manca di coraggio nei momenti cruciali, non sa accettare una punizione con il sorriso sulle labbra… non ti ricorda nessuno, grand’uomo?
Ecco, devo dire che durante la mia adolescenza, recalcitrante giustamente ad accettare le false regole di un gioco manicheo, poco compiacente i già corrotti adulti, fui invaso da invasati coi lor “puliti”, ah ah, messaggi velati o espliciti, subliminali e non… di questo genere. Genere di rimproveri che con me poco attaccarono perché, dopo essermi con furia incredibile, emancipatomi da tale oscena fase fatta di frasi atte forse a pungolarmi per “svegliarmi”… come dire, è un ragazzo in gamba, ma deve darsi una mossa, lottare per vivere e non amareggiarsi nelle sue meste e inutili melanconie, facili a sventolare bandiera bianca, prodighe solo a godere in modo quasi “criminoso” del suo sciocco piangersi addosso, posso asserire in tutta vanità che avevo ragione io. Perché da quei miei dolorosi, mal sopportati conflitti psicologici, dalla complessità di quelle patite sofferenze, da quel mio sempre rimandare la vita scema di tutti i giorni, dal mio fuggire immensamente, oggi sono un intellettuale che può guardare con sano disprezzo chi, a quei tempi, con tanta derisione e folle presunzione, volle “inquinare” il mio animo con le più bieche cattiverie, con la retorica stolta e ottusa delle frasi fatte. Non mi faccio, ancor da solo però me le faccio…, alla vostra faccia! Credo che la mia natura sia indissolubilmente fuggitiva, sempre in cerca di equilibri e, in questo navigar di perenni incertezze, rifuggo appunto da ogni prefabbricata, invero labile, adulta certezza incarcerante la libertà. Ora, mi si dirà che ho quasi quarant’anni e che dovrei finalmente, una volta per tutte, abbandonare le mie idiosincrasie verso un mondo che m’induce ancor fortemente alle più “vigliacche” ritrosie ma, nonostante l’anagrafe “attesti” questa “matura” età, posso dichiarare di tutto gusto che mai mi “aggiusterò”. Io, che vago solitario per le vie della città, emozionandomi quando il tramonto di questi giorni invernali così tanto si screma soffice nel suo rosato ammantarmi di svenevole romanticismo. Sì, perché nonostante non lo dia a vedere, no, non lo “do”, ah ah, da me mi lodo da lord, cari lordi e orchi, e nonostante possa apparire un tipo cinico, scostante e antipatico, sono un fanatico del cuore. Non delle stupide romanticherie, invece, credetemi bene. Un romantico nella sua accezione più antica e letterale, uno che si oppone alle ridanciane baldorie e ai sorrisi fatui della gente ipocrita, e balla nel canto “integerrimo” del suo viver armonicamente inquieto. Adesso felicissimo, l’attimo dopo incupendomi in pensieri neri che danzano con Edgar Allan Poe nel pallido plenilunio come il Joker di Jack Nicholson nel vostro Bat-Man derisorio che mi blandisce perché il mio sorriso, si capisce, è strafottente e nasconde invero tristezze figlie del mio amletico, perpetuo star a disagio nella folle folla.
Sì, la gente cretina ubbidisce alla morigeratezza più falsa e, quando vien punta nell’orgoglio, nelle sue “stabilità”, è capace d’inveirti e sputarti le peggiori porcate. Rivelatorie della loro pochezza, della lor “porchetta” e del lor cuor marcio. E si professava appunto matura… ma, per piacere.
Al che, mi sveglio in questa mattina che mi consiglia di dormire un altro po’ e di non “rinsavire”, poiché il mio animo non si può sposare, dunque spossare, con questi uomini che mi fan richieste pressanti, asfissianti, e metton su addirittura inchieste per indagare, come nell’Inquisizione più oscurantista, nel profondo dei miei dubbi, che ci tengo stiano sempre lì, turbolenti e indigesti, a non farmi rammollire nel comune, screanzato porcile tanto maligno nei riguardi, oh, che irriguardosi, del mio libero, inviolabile pudore.
Titanicamente misantropo e poi clown, con la lacrima da corvo, erompo in un sorriso stonato, quindi mi do alla poesia più alla mia pura anima intonata, cari rintronati. E bellamente striscio serpeggiante nel vostro viscido liquame, dandomi delle arie poiché son arioso e non soffoco nessuno, a differenza di chi strozza le volontà altrui per volerle castigare nelle più “docili”, quotidiane violenze morbose.
Firmato un uomo che fa i c… suoi. Come sempre.
Ma adesso lavori? Il mio lavoro è quello del genio scrittore che ha poco da condividere le idiozie dello sporco sudore…
Il trailer di The Post di Spielberg e un suo fotogramma che fa impazzire Facebook
Ecco, è uscito questo filmato. A mio avviso, a giudicare dalle primissime immagini, non facendomi ingannare dal pregiato duo Hanks-Streep, ci troviamo di fronte all’ennesimo film inutile di Spielberg. Un film che mi pare propugnatore di un Cinema vecchio come il cucco, ampiamente superato, distonico rispetto ai film degli anni Settanta come Tutti gli uomini del presidente (il cui personaggio del “cronista”, che fu di Jason Robards, qui viene impossessato dal solito bolso Hanks) che avevano una loro importantissima valenza perché figli del tempo. Mentre questa pellicola di Spielberg, girata in fretta e furia (le riprese sono partite, pensate voi, a fine Maggio e sino a fine Agosto non furono completate) per poter in extremis gareggiare agli Oscar, mi suona al solito studiata a tavolino, calcolatissima, retorica, nazionalistica, incentrata su quegli eventi della storia americana che, sinceramente, a noi europei interessano ben poco. Credo che mi sia sempre più affinato nella visione e nel cercare dal Cinema una poetica che maggiormente si allineasse alla mia anima. Un’anima, la mia, che non abbisogna più di queste colonne sonore pompose e “gridate in faccia”, che non si accontenta più semplicemente del film lussuosamente fotografato e d’impeccabile confezione estetica, ma che cerca qualcosa di più realisticamente artistico. Sono affascinato dal Cinema delirante, dalle sue astruse e barocche intelaiature, dalle storie assurde, non dalle “storie vere” così pedantemente ben orchestrate. Quando guardo film come questo, vengo sopraffatto dalla noia, e i loro fotogrammi mi scivolano via, inevitabilmente intristendomi di superflue emozioni, se mai dinanzi a questa “roba” dovessi ancora emozionarmi. Può anche darsi che pecchi di presunzione e non posso avanzare giudici soltanto da un trailer, semmai il film non sarà leccato e giocherà molto sulle schermaglie verbali, farà della sua “dialogistica” il fulcro magnetico di una narrazione che potrebbe riservare sorprese e colpi di scena lucenti. Ma spesso mi fido dell’istinto, che non sbaglia quasi mai quando, soprattutto come oggi, sono sincronizzato alla perfezione col mio più viscerale “apparato” emotivo-emozionale.
Al che, un mio amico su Facebook, inaspettatamente dichiara che si è lasciato assolutamente coinvolgere da un fotogramma, sì, uno solo, di questo “pesantissimo” trailer.
E scrive testuali parole in calce all’immagine che posta…
Poi arriva un fotogramma così, che si inghiotte in un solo boccone tutti i presunti ‘capolavori’ usciti negli ultimi mesi.
È un amico e critico che stimo molto, a cui replico con un lapidario, benevolente… a dir la verità mi sembra un fotogramma normalissimo, visto in migliaia di film ma, dato che sei tu, ti do ragione.
Lui, un po’ “risentitosi”, addirittura mi sfida a trovare almeno tre film che possano “avvalersi” di un fotogramma del genere, ove un uomo all’angolo, con in mano la cornetta in una cabina telefonica, quasi si nasconde e si fa piccolo al passaggio della volante della polizia, in una strada angusta attraversata dalla polvere, da cavalcavia e da sterminate vie asfaltate periferiche, forse di Los Angeles.
Io simpaticamente gli dico che forse sta scherzando e che basterebbe prendere la seconda stagione di True Detective per trovare fotogrammi praticamente identici. Tralasciando peraltro molte pellicole dei Seventies, fra cui in primis Il braccio violento della legge.
A queste mie frasi, mi viene detto che ho quindi perfettamente CENTRATO la suprema bellezza di questo frame.
A queste mie parole, un altro profondo conoscitore di Cinema vuol dire la sua, affermando esaltato che questo fotogramma gli ricorda le stimabilissime pellicole di Siegel e Lumet, aggiungendo poi un profluvio di parole… Però non si dovrebbe (pur “nel quadro” della rischiosa ma per me affascinantissima disciplina dei giudizi sui frame) limitarsi agli “elementi” presenti. Ma al modo in cui sono composti. Lo so, può suonare ovvio, ma secondo me la tua obiezione rende opportuno questo “richiamo”. Qui c’è la consistenza architettonica (e gioco di forme), sopra e sotto c’è direi un sentimento. Chi sta parlando alla cabina (il disegno del telefono sul metallo della cabina che concorda o comunque si integra con quei cavalcavia, per la distanza e chiarezza da cui e con cui è ripreso) è da solo, la macchina della polizia sull’altro margine dell’inquadratura, un edificio che “trapela” dall’incrocio dei cavalcavia. Insomma una relazione misteriosa, densa, nitida tra le parti. E a questo punto, sì, dipende dal proprio senso estetico, dal proprio gusto fotografico.
Realmente penso che ci sia un movimento propulsore in quelle forme (non trascuriamo sullo sfondo la “teoria” di strutture di sostegno o non so bene adesso come definirle) che crea una nicchia, che rende la sola figura umana al margine sinistro (simmetrica all’auto) acutamente “sensibile”. Poi è chiaro che non ho visto il film. Ma appunto credo nella possibilità di giudicare (o avere forti impressioni da) il singolo frame. P.s. giusto, anche Friedkin ci ha abituato assai bene, ma appunto i migliori.
Insomma, un solo fotogramma può scatenare tutto questo? Discorsi quanto mai affascinanti.
Quindi, esco alle quattro e mezza di pomeriggio per andare a prendere il solito caffè al bar del mio amico cinese, che non sa chi sia Spielberg e deve pagare il mutuo del locale e l’affitto di casa, altrimenti si troverà anche senza telefono, gettato in una strada…
Ho detto tutto.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – Re per una notte
Dobbiamo ammetterlo, il percorso artistico, quindi filmografico di Scorsese, stupisce per varietà e, potremmo dire, variopinta destrezza. Nel 1982, in sordina, dopo il crudo iperrealismo di Toro scatenato, dopo il suo suadente bianco e nero ipnotizzante e tetro per cupezza cromatica, spiazzando tutti, esce con questo colorato, straordinario The King of Comedy, e va incontro a un insuccesso abissale, dal quale si riprenderà solo col successivo, scoppiettante Fuori Orario. In entrambi i casi delle acide commedie nerissime ma, a differenza di Fuori orario, che piacque subito parecchio, Re per una notte, all’epoca fu decisamente snobbato dalla Critica e passò sotto silenzio anche presso i suoi ammiratori. Invece, col senno di poi, va ammesso che, nonostante i suoi difetti, una certa “monotonia” narrativa (il cui significato spiegherò poi…) e qualche scena forse eccessiva, Re per una notte rappresenta una pellicola che era notevolmente avanti coi tempi, e per questo probabilmente alla sua uscita affatto compresa e respinta, come si dice in gergo…
È la bizzarra storia di un comico, Rupert Pupkin (un De Niro in gran forma sardonica, che veste giacche impossibili e sfodera scarpe che sono un pugno in un occhio), che si crede un genio, e forse lo è davvero. Pupkin idolatra Jerry Langford (un cupissimo e quasi inquietante Jerry Lewis, che qui abbandona le sue mimiche da “picchiatello” per offrire una prova recitativa misuratissima e spaventosamente efficace), showman di un famosissimo spettacolo televisivo americano. Dopo averlo approcciato, Pupkin s’illude che Langford possa offrirgli la grande occasione di tutta una vita per poter mostrare al mondo il suo talento. Ma aveva frainteso tutto e, in preda alla frustrazione, arriva a sequestrarlo, costringendo i produttori della trasmissione a concedergli i suoi tanto agognati minuti di gloria. Verrà arrestato, gli sarà commutata la pena da sei anni di reclusione a due anni e mezzo, ma nel frattempo, dopo quella apparizione fulminante, diverrà una star venerata, a cui dedicheranno anche una biografia per un bestseller che spopolerà nelle librerie.
Un film profetico, una satira del mondo dello spettacolo retta da due eccellenti interpretazioni, con un De Niro volutamente sopra le righe, “fastidioso” e immarcescibile nella sua lucidità folle da strampalato personaggio che vuole ottenere successo a tutti i costi, e un Lewis ottimamente calibrato che ritrae in modo perfettamente “arrogante” la figura di un uomo diviso a metà, tanto spassoso, con la battuta sempre pronta e veloce, applaudito sulla scena, quanto triste e riservatissimo nella vita privata, una vita che forse gli sta stretta e che si contenta illusoriamente della gioia effimera del suo “status” d’intoccabile, donandogli al contempo sia la gioia di una carriera invidiata quanto l’amarezza ineludibile della presa di coscienza che il suo lavoro, se da una parte gli ha regalato soldi e immensa visibilità, dall’altra parte l’ha relegato a “pupazzo” negli occhi della gente, di chi lo guarda estasiato, idealizzandolo in maniera distorta, e lo ammira oltre i suoi reali meriti. Sì, perché il film è anche una riflessione sul falso culto a stelle e strisce del successo, sul suo ambiguo rovescio della medaglia. Siamo convinti, insomma, pare dirci Scorsese, che le persone di cosiddetto successo siano felici? E questo successo, peraltro, è simbolo di un valore concreto o è soltanto la proiezione dei sogni piccolo-borghesi della gente comune che, nella sua fantasia, crea e smonta divi a piacimento, secondo i desideri volubili del momento? Il film è questo, lo specchio di una società pazza come Rupert Pupkin, uno sberleffo cinico sulla mitologia faceta, sulla passeggera, vanesia, peritura, finta cultura della televisione e dei suoi “totem”.
Dicevamo, però, il film ha anche dei difetti o, forse, in queste difettosità, consistono anche i suoi pregi. Sì, perché fu manipolato dai produttori che tagliarono molte scene. Se da un lato si nota una certa sbrigatività nei raccordi, alcuni ingiustificati, che possono indurre a una certa, iniziale perplessità, d’altro canto, involontariamente, questo suo essere “stringato” l’ha reso un film secco e dunque limpidissimo, che va dritto al punto senza girarci troppo attorno, dal ritmo brioso e angoscioso che regge benissimo le sue quasi due ore di durata senza mai annoiare nonostante sia quasi tutto parlato e girato perlopiù in interni.
Nota di merito, inoltre, per la “bruttona” Sandra Bernhard, campionessa di autoironia, che seduce e s’illude di ammaliare Langford in vesti ridicolmente “sexy” da esilarante fatalona inevitabilmente imbranata.
Probabilmente, un altro lungimirante capolavoro di Scorsese.
di Stefano Falotico
Essere artisti nonostante la psichiatria e l’ottusa pusillanimità del mondo
Ora, si hanno parecchi pregiudizi verso gli apparati psichiatrici e la gente “comune”, molto disinformata, prevenuta e ignorante in materia, tende a considerarle delle strutture che curano i “matti”, appellativo quanto mai obbrobrioso e svilente le individualità di queste persone accusate di follia. Follia, poi, che termine abusato, schiacciante e orrendamente abbruttente. Matti, in questa società ingorda, famelica delle nostre anime, che non guarda in faccia nessuno e pare si compiaccia di questo menefreghismo ipocrita, lo siamo tutti. Chi più chi meno, senza eccezione alcuna. Con le dovute distinzioni.
Dicevo, si ha una visione assai generalista della psichiatria. Branca della medicina che, dagli umanisti dell’ultima ora e da quelli che si credono pensatori “democratici” e sono invece professori solo di cazzate, viene etichettata come scienza degli orrori, un abominio del falso progresso, un’evoluzione quasi del nazismo perché, a lor detta, vorrebbe curare, quindi far cambiare, le persone diverse, ribelli o non adatte alla società. Imprigionandole in diagnosi e “laboratori chimici” che sopprimono la coscienza, la irrigidiscono in parametri alquanto discutibili di presunta “normalità”. Ora, premetto che certi metodi sono, sì, arbitrari e volti sostanzialmente soltanto a voler mantenere l’ordine sociale, ma non facciamo di tutta erba un fascio.
Da che mondo e mondo, anzi, dal Novecento in poi, eh eh, fior fiore di artisti, letterati, poeti, insomma grandi menti, si sono affiancati a psicologi e psichiatri, non tanto per “curarsi”, quanto per avere chiarimenti, maggiori delucidazioni sulle loro ansie di vivere, riguardo il loro perpetuo “disagio”, affatto negativo, verso una società che non risparmiava loro colpi bassi, nonostante fossero appunto persone che, nel loro ambiente, venivano enormemente stimate o tenute in auge dagli intellettuali.
Caso eclatante di “folle” geniale, che sino a quando vivrà preferiamo tenercelo così, è Woody Allen. Senza i suoi dolori esistenziali, le sue imperterrite incognite, senza i suoi sesquipedali conflitti psicologici e le sue umanissime contraddizioni, non avremmo avuto i suoi film, le sue opere, avremmo avuto un qualsiasi uomo “normale” che ogni mattina si alza alle sette per timbrare il cartellino della mediocrità, annettendosi all’oscena baraonda frivola e mendace, superficiale e arrogante del cheto, “armonico” quieto vivere. Avremmo avuto l’apoteosi di tutto ciò che io, fin dall’età della ragione, combatto con ostinazione. L’uomo di tutti i giorni, retorico, perfetto a parole, quanto nefando, miserabile, egoista, opportunista e vigliacco nella vita pratica, che di fronte ai “problemi” scappa via impaurito, rintanandosi nelle sue fiere certezze da trombone. L’uomo che ha smesso di farsi domande, perché adattatosi all’andazzo lercio, materialista e utilitaristico della propria panza, quello che pensa solo ai ca… i suoi, che della vita degli altri se ne lava le mani, che se ne interessa solo quando può appunto ricavare dell’utile, quando l’altro diventa uno da sfruttare, da manipolare per i suoi sporchi tornaconti, quando vuol essere sempre lui a primeggiare, trascurando l’anima e le emozioni di chi non può “dargli” niente. Per lui, dare e avere corrispondono alla faccia manichea dell’appiattimento emozionale ove gli importa solo di sé stesso, dell’aggrapparsi a una metrica di valori assai faceti e impostati unicamente per e nel continuare a mantenere i suoi privilegi, per non aprirsi ai dubbi della coscienza, per tacere la voce vera del cuore, per non confrontarsi con chi la pensa diversamente, cementandosi nelle sue assurde, astruse convinzioni, nel suo fascismo ideologico, nella sua poco disponibile voglia di condividere in maniera importante, nel suo bisogno, ah ah, di apparire e non essere, rivelarsi per quello che è, altrimenti gli altri non lo “approverebbero”, nella sua scarsa, nulla capacità di provare empatia e far sì che nascano intenti di pura bellezza, di letizia, di socialità, questa sì, costruttiva e moderna.
Un esempio lapalissiano, Allen, di “matto” che matto deve continuare a esserlo. Sia mai il contrario. E che per nessuna “giusta” ragione vogliamo diversamente.
Le persone più interessanti, credo e ho maturato questo pensiero, sono quelle anche all’apparenza più “disturbanti”, perché si scontrano sempre con le facili logiche, che non si attengono alla scemenza di massa e quindi polemizzano in continuazione, non hanno mai smesso di cercare la verità al di là delle frasi fatte, delle “gonfiezze” stolte, delle ampollosità vuote. E perseverano, indagatorie, estremamente curiose, quindi combattute, nel viaggio dell’eterna scoperta, delle rinascenze e poi delle resilienze emotive.
Un tempo, anch’io come quasi tutti, pensavo che dagli psichiatri ci finissero i cosiddetti tonti. Quelle persone sempliciotte o troppo stupide che hanno bisogno di qualcuno che spieghi loro come stare al mondo, che le indirizzi verso la “correttezza”, che dia loro manforte per affrontare gli ostacoli della vita, dando loro da mangiare chiacchiere e caramelline. Sì, in quelle sale d’attesa troverete sempre “dolcetti”… E, in effetti, mi spiace dirlo, in molti casi è così. Ah ah. Perché, per certe persone, la psichiatria non diventa altro che una triste, patetica valvola di sfogo, una consolazione buonista, un concentrato di banalità come le canzonette alla radio che incitano ostinatamente alle agghiaccianti romanticherie, al “culto” del vogliamoci tutti bene, al politicamente “sano”, alla sbandierata esibizione dell’evviva la pace e la serenità, alla demagogia più spicciola e, questa sì, pericolosa perché poco realistica, molto infantilmente favoleggiante e bugiarda.
Per le persone più intelligenti, invece, fortunatamente la psichiatria diventa qualcosa che invece può essere estremamente stimolante, perché le induce a battagliare coi propri conflitti interiori, a esplorare con maggior consapevolezza le loro affascinantissime complicatezze, porta a scoprirci e, in questa denudazione sincera, far sì che ci rianimiamo e risvegliamo quelle parti del nostro io che, per conformismo mentecatto, per autoinganni e irrazionali timori, avevamo sepolto, avevamo represso, avevamo tenuto a bada appunto per non “disturbare” nessuno. Per fingerci gelidamente “normali”. Per castigarci, per mascherarci, chissà poi perché… forse per far “contenti” i cretini, quelli che vogliono essere rassicurati su chi siamo come “maschere” e a cui, appunto, invero poco importa su chi siamo davvero. Nell’anima, nel profondo…
Sì, in questi casi, vivaddio, la psichiatria fa tutt’altro, fa sì che le persone creative, geniali, sanamente “deliranti” imparino a prendere coscienza delle loro potenzialità, della bellezza, affatto paurosa o da rigettare, dei propri vulcani emotivi. E dà senso, grandiosità all’immensa, stupefacente complicazione dell’uomo in quanto essere senziente e pensante. Quindi vivo!
Allor che bello il delirio “religioso” se si diventa come Dreyer, che bello il mal di vivere se si è Dostoevskij, che belle le proprie ossessioni metafisiche e anche carnali se si è Paul Schrader. Insomma, se le cosiddette ideazioni “deliranti” vengono incanalate nell’Arte con la A maiuscola, nel superamento delle grigie ovvietà, nell’elevazione di coscienza rispetto alle insulsaggini di un mondo ove purtroppo spesso trionfano i mediocri, gli “impiegati” della “cultura”, le persone povere di spirito, quelle che sembrano in gamba e invece sono solo melensi, prevedibili stronzi.
Siate dei birdman in questo raccapricciante, sciocco e poi stupendo teatro (dis)umano.
di Stefano Falotico