Stranger Things 2, cosa ha funzionato e cosa no
Questa riflessione è piena di super-spoiler, quindi, non denunciatemi, eh eh, se vorrete leggerla sino in fondo, tutta d’un fiato.
Chiariamoci, avercene di “sequel” così…
Ma la prima stagione, come sempre accade, è imbattibile. Nemmeno i fratelli Duffer, pur confidando nell’enorme potenziale del loro gioiellino, avrebbero mai profetizzato un successo simile. Ma è presto detto: al di là delle critiche pretestuose e inutili, la prima stagione è qualcosa di rarissimo e prezioso. Sì, certo, come no, si rifarà a tutto un immaginario che già conoscevamo, ne attinge a piene mani, peraltro dichiaratamente, e scopiazza, come dicono i detrattori, “impunemente”. Ma il grande spettacolo è la sua originalità nel non esserlo, l’aver mescolato temi e stilemi apparentemente triti e ritriti per triturarli secondo un’ottica incantevole che, inevitabilmente, checché se ne dica, è riuscita nell’arduissimo compito di farci affezionare in maniera indelebile, davvero empatica a qualcosa d’inaspettato che, appunto, ha superato anche le migliori e più ottimistiche aspettative, imponendosi come un sacrosanto fenomeno di costume. A voglia a criticarla… ne uscireste pateticamente sconfitti. Perché in essa v’è un fascino grandioso che echeggia nei nostri ricordi dell’infanzia ed è assurta a imporsi magneticamente come una “thing” stessa specialissima. Potremmo dire, le “strane cose” del nostro inconscio, fatto risorgere di emozioni e reminiscenze che credevamo sepolte, scomparse per sempre. Nella sua apparente ovvietà, ha sovvertito il suo stesso ovvio, è insomma bellissima, aggettiviamola senza troppi giri di parole, senza panegirici da esteti snob.
Ribadito questo, necessario, screditando dunque quegli spettatori miopi che ostinatamente perseverano nel “ripudiarla”, cosa dire di Stranger Things 2? È stata all’altezza della prima? E, soprattutto, è innanzitutto un seguito? Sì, lo è, tornano praticamente tutti i personaggi, con l’eccezione del morto ammazzato Matthew Modine, che però ricompare con un cameo da brividi e con la sua folta capigliatura canuta che invecchia ancor più la sua orripilante deformità da uomo cattivissimo, rendendolo davvero un’insistente presenza sinistra e odiosa, con l’aggiunta di new entries. Ed è forse questo davvero l’elemento che non era affatto indispensabile. La “signorina” Mad Max ha di forte solo il nome, la sua presenza è decisamente accessoria e superflua, perfino inopportuna, così come quella di suo fratello, un “guercio” che ascolta i Metallica e rock pesante per dimenticare le sue frustrazioni e si diverte a fare l’insopportabile duro quando poi scopriremo essere soltanto un mollaccione bullizzato dal padre padrone. E poi che dire di Sean Astin? I fratelli Duffer ci tengono a sostenere che il suo doveva inizialmente essere un ruolo piccolissimo ridotto soltanto a un paio di episodi ma poi, vedendolo in azione, con la sua faccia buffa e simpatica, col suo tenero aspetto panciuto, hanno deciso di regalargli più spazio. Sì, rovinando tutto, a mio avviso, con una morte evitabilissima e mostruosa, straziante, che faremo fatica a digerire. Così come è “entrato”, esce di scena in modo inglorioso. Se proprio lo si voleva far fuori, che ne so, si poteva girare la stessa scena differentemente. Farlo semmai morderlo dal “democane” (sì, i demogorgoni si son evoluti a quadrupedi come “nemici”-nostri animali-“fidati”) e concedergli l’onore di crepare dissanguato, evitando il raccapriccio del pasto “orgiastico” delle bestie feroci e repellenti, viscide e schifose. Che brutta morte per un personaggio così spassoso e innocuamente farsesco, puro e innocente. Ma soprassediamo su questa discutibile, sgraziata, oserei dire, e disturbante scelta estetica. Forse volevano solo spiazzare gli spettatori, uccidendo un buono-buonissimo… uno che, appunto, non ci aspetteremmo mai morisse efferatamente, in modo brutale e angoscioso. Mah…
Undici torna, com’era lecito, ma condividerà coi suoi amici storici soltanto l’episodio finale. Troppo poco. Il suo essere diversa fra amici normali era uno dei punti di forza della stagione 1. E l’episodio 7, quello della sorella paranormale con la gang ribelle e punk, è forse la cosa più negativa dell’intera serie. Sì, episodio simpatico, tutto sommato, per dare originalità a un ritmo che si stava forse un po’ ammosciando, ma assolutamente gratuito e anche fuori tema dalle atmosfere e dai mood dell’operazione Stranger Things… un blocco narrativo gustoso quanto presto dimenticabile.
Poi, e qui non dico niente di nuovo, per quanto si potrà andare avanti col povero Will sempre vittima del Sottosopra? Insomma, eh eh, questo ragazzo si sveglierà a una certa età con un trauma devastante e una psiche irreversibilmente rovinata, se continuiamo con quest’andazzo. Così come forse siamo un po’ stanchi che Winona Ryder “addobbi” la sua casa di mappe “geografiche” (a proposito, quanti fogli di carta bianca, matite e pastelli avevano in casa? Era una copisteria?, ah ah), nella prima stagione con le lucine “intermittenti”, qui appunto coi disegni dell’invasato, contagiato Will. Insomma, tormentoni che non andranno più utilizzati nelle serie a venire, se non si vuole davvero annoiare con le ripetitività più abusate lo spettatore.
Detto ciò, Stranger Things 2 supera comunque alla grande la prova del 9, inevitabile che non fosse fresca come la prima, ma rimane sempre splendidamente uno spettacolo magico da applausi.
di Stefano Falotico
La mia preghiera del clown, Totò, tiè tiè
Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo. Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa’ che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa’ che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini. Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l’unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa’ che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po’ perché essi non sanno, un po’ per amor tuo, e un po’ perché hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.
A proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare?
(Il grande Totò)
Sì, mi sveglio di buona lena e la mia anima, perseverando nella malinconia, allevio e, rincuorandola di buoni propositi, alleno. Eppur fu gioviale un tempo quando, “giovine”, con incoscienza, viaggiavo sulle ali della felicità più recalcitrante alle stupide regole di un mondo ottuso. Poi, sopravvenne il disincanto eppur ancora tante cose m’incantano, e canto. È una vita da cani, ma non incatenatemi, so abbaiare quando arrabbiato, e mi arrabatto se qualcuno la mia dignità vuol battere. Tante volte il muso batto e nessuna mi sbatto, vago per la casa con far desolante, in pigiama e in ciabatte, ma il mondo, lo so, è pieno di ciarlatani e ciabattini. Meglio io che sciabatto cazzate e vivo di quegli attimi che mi spronano a non mollare, sebbene qualche volta “qualcuna” molli. Sì, le donne non sono molto attratte da me, un molliccio, e faccio il ratto, evacuando il dolore di questo mal di vivere nel poltrire con brio. Molte persone soffrono se non fanno sesso, io non le/o soffro e di pene d’amore non mi dolgo. Dammi, buon Dio, ancor la forza per godere di questa vita che, nonostante tutto, è mia, spesso dai cattivi vien minata, ma io da queste malignità non mi faccio contaminare. E passeggio, scrivendo del mio cuore, che ha in verità più puro sapore di tanti ricchi senz’anima, e mi trastullo sotto la pioggia battente dei miei strani umori.
(Il grande Stefano Falotico, sì, me lo dico da me perché chi fa per sé fa per tre, la Trinità, ah ah)
Stranger Things 2, la recensione
STRANGER THINGS 2
Ebbene, serie fenomeno dell’anno scorso quando, nel bel mezzo di un’Estate afosa, fece breccia negli spettatori di ogni generazione, imponendosi come “antologia” culto… è indubbiamente un capolavoro imprescindibile questo pastiche straordinariamente architettato dai lungimiranti fratelli Duffer, all’apogeo di una creatività vulcanica, che trascende il puro effetto nostalgico del sincretismo culturale che va da Stephen King a Spielberg, dal Cinema meraviglioso per ragazzi degli anni ottanta al fumetto fantastico sino all’horror più “slapstick”, funambolicamente con picchi comici, sì, nella migliore tradizione di Joe Dante e dei suoi gremlins, qui incarnati dai demogorgoni, creature del Sottosopra, della quarta dimensione mefistofelica di tutto un immaginario colorato, spaventoso, magmatico nel suo esplodere di omaggi, citazioni, sotto-testi. Una geniale commistione di generi, dalla pellicola di formazione alla Stand by Me, a Saranno famosi, sì, c’è anche questo in tal lavico furoreggiare dei due fratelli “terribili”. Cosicché quest’operazione, lodevolissima, vetta di tutto ciò che abbiamo sempre sognato, questa favola “crudele” dilatata, spaccata in tanti puzzle, “sviscerata”, diluita nella mappa di Hawkins che si fa topografia variopinta dei nostri incubi nostri ancestrali, squarcia il giudizio fra gli estimatori e i detrattori accaniti che, prevenuti, continuano orrendamente a snobbarla, definendola solo una “merda” per nerd e passatisti.
Io, si è ampiamento capito, sono fra quelli che l’appoggiano in maniera enorme, incensandone le doti mirabili, estasiandomi per il ricco cast(ing) perfetto ove ogni faccia è miracolosamente al posto, segmento, pezzo giusto, “fisiognomico” tassello del magico, poetico quadro d’insieme, così omogeneo nelle sue imperfezioni da espandersi armonicamente dopo la visione nei nostri sogni infantili, malinconici, in una trama, sì, con parecchi buchi, ove non tutti i conti tornano, ma così spericolatamente, “ingenuamente” guidata dalla mano inventiva dei fratellacci da farci gridare di entusiasmo anche quando la banalità parrebbe prendere il sopravvento.
Inutile ribadire le qualità attoriali di un parterre ove, se Winona Ryder reitera comunque con efficacia le sue smorfie e le sue urla da madre disperata, lo sceriffo tutto d’un pezzo di David Harbour mostra qui il suo lato umanissimo, commovente, “adottando” Eleven/Jane (la Bobby Brown prodige) in una casa nel bosco da fiabe di Andersen. E Sean Astin è una faccia amica dalla simpatia contagiosa.
E in questo fiabesco favoleggiare Stranger Things imprigiona ipnoticamente i nostri sguardi, emozionandoci con semplicità anche quando ricorre a trucchi speciali “animatronici”, proponendoci una galleria di personaggi indimenticabili. Se nella prima stagione emergeva il villain Matthew Modine, qui “cameizzato” come orco ancor più cattivo e Dr. Frankenstein agghiacciante, in questa seconda, prominente e chiave è il grande Paul Reiser che recita il suo ambiguo ruolo di “medico” con sopraffino carisma (da) monstre.
È anche fotoromanzo, i ragazzi s’innamorano e si lasciano, e il mitico Matarazzo (a cui andrebbe un premio speciale) s’impone come elemento buffo, tenero e pagliaccesco, mentre i fratelli Duffer portano a casa un altro gioiello dalla cornice suadentemente sontuosa. Sì, non è solo operazione furba a tavolino, c’è vero cuore, c’anima, ci son le nostre paure, c’è la poesia dei ricordi, la forza visionaria dell’incredibile. E noi amiamo emozionarci con questo, in noi stessi, in quanto uomini-bambini, creature del cielo del pindarico volare nella fantasia.
Arcobaleno…
di Stefano Falotico
Stranger Things, recensione di mck, nobile firma (s)fusa
I. The Now-Memories.
“Stranger Things – 2” gioca esplicitamente e seriamente (coming of age + adventure arcade) sulla riecheggiante ripetizione del già assimilato, sulla reiterazione della replica, sulla fotografia di una fotografia, sull’autoritratto di una copia conforme/carbone, sull’eterno ritorno del già conosciuto e… sulla variazione del canone: un dialogo multi ma soprattutto metamediale con (dis)soluzione e con consolid(ific)azione di continuità tra i ricordi del presente di Will e il presente dei ricordi della serie stessa creata dai Duffer Brothers, fratelli gemelli classe ’84, che finisce col creare la propria {dalle suggestioni (rimasticate grezze) di H.P. Lovecraft, passando per l’Amblin’ spilberghiano [l’uno-due (uno dei tanti del regista ebreo statunitense) composto da “Close Encounters” ed “E.T.”], ai rimandi diretti all’universo accanto/complementare/sovrapposto di Stephen King (“It” e “the Body”)} mitopoiesi.
– It’s crazy, but I really liked it.
– Liked it?
– Yeah. Well, I mean, I had a few issues.
– Issues?
– I felt it was a little derivative in parts.
– What are you talking about?
– I just wish it had a little more originality. That’s all.
– You don’t believe me…
Rispetto alla stagione precedente questa seconda annata è composta da un episodio in più (si passa da 8 a 9, sempre da 45-55 minuti l’uno), e quell’episodio in più ha un nome, un numero, il 7° (anzi, lo 008), e due funzioni non filler: una secondaria e derivata (trasportare la narrazione da Hawkins, Indiana a Chicago, Illinois), e l’altra primaria: la tensione, giunta a saturazione col finale del 6° capitolo, viene interrotta, sospesa, blindata, spostata, accantonata, rimandata: un bel cliffhanger, e poi…puf! Cambio. È un espediente classico, che, se ben gestito [si consideri il 3° ep. in trasferta californiana di “Fargo / 3”, che si scosta geograficamente del tutto dalla trama principale pur rimanendovi ben agganciato e contribuendo alla sua progressione, così come il 4° (la storia di Laura) e il 7° (la storia di Essie) di “American Gods / 1” e l’8° di “Twin Peaks / 3”], è un tassello che dona ed esprime solo e tutto valore aggiunto all’opera.
II. “It’s not a puzzle, it’s a map! It’s a map of Hawkins!”
Interessante riconoscere la ripartizione geometrico-industriale dei compiti [escluso dalla conta il 7° episodio, per ogni dittico (il primo splendidamente introduttivo, e poi… a crescere) si alternano un regista col proprio direttore della fotografia e due coppie di sceneggiatori e di montatori che si spartiscono il lavoro], dalla quale emerge chiara la figura del “macchinario da film”, la fearsome engine produttrice a catena di opere autorial-industriali:
Ep. 1 – “MADMAX”, scritto e diretto da the Duffer Brothers (fotografia: Tim Ives, montaggio: Kevin D. Ross).
Ep. 2 – “Trick or Treat, Freak”, scritto e diretto da the Duffer Brothers (fotografia: Tim Ives, montaggio: Nat Fuller).
Ep. 3 – “the PollyWog”, scritto da Justin Doble e diretto da Shawn Levy (fotografia: Todd Campbell, montaggio: Kevin D. Ross).
Ep. 4 – “Will the Wise”, scritto da Paul Dichter e diretto da Shawn Levy (fotografia: Todd Campbell, montaggio: Nat Fuller).
Ep. 5 – “Dig Dug”, scritto da Jessie Nickson-Lopez e diretto da Andrew Stanton (fotografia: Tim Ives, montaggio: Kevin D. Ross).
Ep. 6 – “the Spy”, scritto da Kate Trefry e diretto da Andrew Stanton (fotografia: Tim Ives, montaggio: Nat Fuller).
Ep. 7 – “the Lost Sister”, scritto da Justin Doble e diretto da Rebecca Thomas (fotografia: David Franco, montaggio: Katheryn Naranjo).
Ep. 8 – “the Mind Flyer”, scritto e diretto da the Duffer Brothers (fotografia: Tim Ives, montaggio: Nat Fuller).
Ep. 9 – “the Gate”, scritto e diretto da the Duffer Brothers (fotografia: Tim Ives, montaggio: Kevin D. Ross).
Paradigmatici di questa (consapevole, voluta, ricercata) riproposizione della “non” originalità sono i titoli di testa, che Imaginary Forces ha giusto ritoccato con un bel “2” e qualche pixel bianco glitchante. Ma basterebbero i nomi di Sean Astin e Paul Reiser…! Enjoy.
Le interpretazioni di David Harbour (lo sceriffo Hopper) e Millie Bobby Brown (il portale, il gate, la firestarter, la new mutant versione adulta: 011, che un tempo, per un breve lasso di tempo, si chiamava Jane, e che ora torna a possedere e pronunciare il proprio nome, senza eccessivamente mollyringwaldizzarsi troppo) sono entrambe, pur con tutte le dovute e (in)significanti differenze del caso, molto classiche e pulite.
A fare la differenza sono Winona Rider (Joyce, la madre di Will e Jonathan), che rispetto alla stagione passata, propone una recitazione più controllata, ma con picchi – anche in sottrazione – altissimi, Noah Schnapp (Will, il bambino scomparso, morto, funeralizzato e resosi redivivo, lo zombie-boy, e l’infiltrato, la spia, il doppiogiochista, l’infetto), il quale, forse, tra i componenti del sestetto di Perdenti, oltre alla protagonista, è la giovane promessa da tenere più d’occhio: cresciuto moltissimo rispetto all’annata scorsa, in cui era relegato in un ruolo un po’ monotono seppur movimentato, è bravissimo, e Gaten Matarazzo (Dustin): suo è il difficile ruolo della parte “grezzamente” umoristica: ma lo porta a casa alla grande: non un’esagerazione o un’espressione fuori posto, e tempi comici invidiabili e promettenti.
A ruota, due new entry delle 5 maggiori: Sean Astin (Bob Newby: SuperHero), direttamente da “the Goonies” – l’apoteosi del cinema per ragazzi anni ’80: Steven Spielberg, Chris Columbus, Richard Donner: punto – (Mike) e da “the Lord of the Rings” (Sam), riesce, in uno dei ruoli forse più stereotipati (giudizio tecnico e qualità di per sé né negativa né positiva che, se applicata ad una scrittura valida, olia alla perfezione il meccanismo generale) dell’opera (non indossa la giacca rossa di Star Trek e non ha un bersaglio stampato in fronte, sul petto e sulla schiena, ma quasi), costruire – in medias res – un percorso credibile, e Paul Reiser (il Dottor Owens), direttamente da “Aliens” (l’ho sempre visto/vissuto come la versione malvagia e malefica del Rob Morrow di “Northern Exposure”), prima conferma, poi ribalta e riscatta quel ruolo.
Il resto del cast, vecchio -[Finn Wolfhard – Mike (il Richie nell’It di Muschietti), Caleb McLaughlin – Lucas, Natalia Dyer – Nancy, la sorella maggiore di Mike, Charlie Heaton – Jonathan, il fratello maggiore di Will, Joe Keery – Steve, il (ex?) ragazzo di Nancy, il (ex) ragazzo-più-fico-della-scuola (il suo segreto? Lacca Farrah Fawcett), ma California batte Indiana 3 a 0, sorry: dall’attacco passa alla difesa, poi alla panchina, poi all’infortunio, poi al babysitteraggio precettante…]- e nuovo -[Sadie Sink – (Mad)Max: Dustin e Lucas non producono poesie (ancora e sempre, “It”: “Brace d’Inverno / i Capelli Tuoi / Dove il Mio Cuore Brucia”) ma regalano lucertole anfibie demogorgoniche (e, davvero, siamo tutti con Dustin: perché mai un simile mostriciattolo schifoso – il girino demo-dog – non dovrebbe piacere ad una ragazzina?) e… storie, segreti, avventure, iniziazioni (“I felt it was a little derivative in parts”: ?!), Dacre Montgomery – Billy, il fratellastro di Max: la versione molliccia e stranosessuale di John Nada (bella la scena “ri/dis-velatrice” – seppur troppo retoricamente e facilmente evidenziatrice, sottolineatrice, rapporto-di-causa-effettatrice – dello scontro col padre, Neil (Will Chase), in zona Chris Cooper by “American Beauty”), Linnea Berthelsen – Kali/008, Brett Gelman (il cospirazionista-realista), fresco fresco da “Twin Peaks – 3” (Burns, il supervisore che non supervisiona), Prutt Taylor Vince, in un ruolo secondario, al solito incisivo]-, completa un ensemble affiatato e rodato.
Cameo espanso per Matthew Modine, “Papà”, il Dottor Brenner, presenza (a)morale e schrödingheriana.
Colonna Sonora: musiche originali (potentissime) di Kyle Dixon & Michael Stein (due tracce tra le 34, per un totale di 72′: “Presumptuosus” e “the Return”), musiche non originali di (per ogni nome citato ce ne sono altri tre…) Devo (“Whip It”), Ted Nugent (“Wango Tango”), the Mercy Brothers (“Whistle on the River”), Queen (“Hammer to Fall”), Metallica (“the Four Horsemen”), Tangerine Dream (“Rare Bird”), Cindy Lauper (“Time After Time”), Roy Orbison (“Blue Bayou”), the Clash (“This is Radio Clash” e “Should I Stay or Should I Go”), Billie Holiday (“No More” e “You Better Go Now”), etc…
Menzioni speciali per la “GhostBusters” di Ray Parker, Jr., per “the Bank Robbery” di John Carpenter (da “Escape from New York”) e per “You Don’t Mess Around with Jim” (1971) di Jim Croce (Studio e Live).
E, per finire, la quintessenza dello Spirito del Tempo: the Police (“Every Breath You Take”).
III. Le regole del Gioco.
“Stranger Things”, con le sue citazioni, i suoi ricalchi, le sue ruberie, i suoi omaggi, è, parafrasando la risultanza di un battibecco tra Dustin e Caleb, una metafora e un’analogia: le ninfe d’essere umano, le imago dell’Homo s. sapiens, i ragazzini, nel loro coming of age, mutano pelle tante volte quanto una larva-girino-lucertola di Demogorgone.
Più o meno in qualsiasi epoca e più o meno in qualunque parte del mondo, quotando ancora il Re: “Non ho mai più avuto amici, in seguito, come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, e voi?” +, tag-line del brand ST by Duffer Brothers, “Friends Don’t Lie”: semplici, basilari regole epigenetiche specie-specifiche della società/civiltà/razza umana.
Le regole prima si imparano, poi si rispettano, poi si mettono in discussione, poi si trasgrediscono, e poi si scrivono.
Con le relative e dovute eccezioni del caso di volt’in volta.
“Che avevamo detto? Prima la cena, poi il dolce. È la regola.”
ST2 è una conferma, senza una eccessiva reinvenzione [lo spettro “antologico” – non ontologico – viene scacciato: spingersi troppo in là con un recasting (lo splendido lavoro di “Fargo” sarebbe stato un suicidio], e con un immenso background extradiegetico (“Stranger Things” è uno pseudopodo, uno spin off degli anni ’80) da introiettare e restituire da cui attingere (diegetico per “Better Call Saul”, lo spin off di “Breaking Bad”).
Jane, in the World.
Eleven re-impara qual è il suo nome (e noi – così come accade in “the HandMaid’s Tale” però per bocca della voce narrante della protagonista, June – con lei), e i suoi piedi la portano a ripercorrere il cammino percorso dalle proprie radici (mentre quelle della godzillesca ombra nel cielo a forma di ragno-mantide gigeresc’aliena si espandono prima sotto i pumpkin e poi sopra i clover fields del cortile della scuola media dove la brigata allargata dei Perdenti sta danzando al ballo d’Inverno 1984-’85, ché l’anno prossimo “Stranger Things – 3” reinizierà col primo giorno di scuola di Eleven/Jane…?…).
ST2 è come un cruciverba facilitato (“Easy Peasy!”), ma il risultato è una (im)pura poesia.
* * * ¾ (****)
Le ardite circostanze della vita nei bagliori cinematografici
Vita, amata e odiata, respinta e vituperata, strozzata o vissuta, laconica o eloquente, dimmi di me, cangevole, qual è oggi il respiro che devo darle e darti? Ancor sarò avaro o mi aprirò alle sue infinite traiettorie? Anche alle trattorie, ah ah, ove si mangia lautamente e la panza cresce, vero miei magna-magna? Semmai o se mai, questione di umana semantica, abbia ancor voglia di respirare, non più espiare e meno farmi spiare? Eh sì, personaggi come me si distinguono dalla massa e, inevitabilmente, tanto attraggono la curiosità altrui quanto fan sì che su di loro, in tal caso me, spesso le invidie e le malignità le colpiscano. Al che vieni osservato come alieno mentre la frenesia della gente si fa quotidiano consumare le mediocrità e, altezzosamente, si vien giudicati ancor prima che si possa evolvere. Io sono sempre suscettibile di cambiamento, un continuo, perenne andirivieni di umori. Quindi, la mia peculiarità non è solo il balzano, “sbalzato” esser umorale, ma anche divenir spesso amorale, per come le logiche comportamentali della massa io tenda (eh sì, le tendine, i nervosi tendini…) ad allontanare. Disprezzo i sentimentali delle sciocchezze, gli amori gridati e questi buffi, patetici travestimenti da Halloween. E in questa distanza che cresce vistosamente… per i cattivi io divento sempre più piccolo, per chi mi ama e apprezza io assurgo a essere sempre più gigante, laddove stagna l’orrenda banalità dei soliti sorrisi frivoli e ove impera il costume scostumato e volgare, così preso, anzi rappreso, dal culto dell’apparenza, del viver a culo, dello spasimare per beceri attimi di celebrità a me indigesta. Io, che prediligo una vita riservata, son dunque, per questo stile introverso, tacciabile delle peggiori patenti. Mi dicono che sono troppo ripiegato su me stesso, ma son loro gli impiegati! Piegatissimi. Ma se prima mi dolevo se qualcuno attentava alla mia dignità, adesso me ne compiaccio, sapendo che la sua bocca è vittima della facile ignoranza e del luogo comune più osceno. E simpaticamente gli “scoreggio” la mia aristocratica bellezza cosicché il suo malincuore e il suo astio crescono e sorprendentemente lo turbano. Se si parla di sesso con troppo fervore, oggi c’è anche chi ti considera uno con gusti perversi. Che ribaltamento del cuore verace, passionale e degli splendenti, piccanti-peccanti sapori, che distorta visione edulcorata e contenuta di quello che è un istinto da far crescere… Caccia alle streghe, chiunque accusa il prossimo di qualcosa, in questo giro vomitevole e ripugnante del benessere di facciata, della finta bontà, invero vi dico della più mendace ipocrisia piccolo-borghese. Processione di stoltezze, allineate con “decoro”, e tu ti cavi fuori dal coro per non star ad ascoltare altri pettegolezzi, ti danno del “corto”, altre cazzate, e scegli la via “fuorviante” per non confonderti e sviarti a questi doppi giochi di mascherate ridicole. C’è chi mette su un teatrino e recita la bassezza di tutta la sua vita spesa nel credersi chissà chi, scoprendosi povero d’animo e vecchio all’anagrafe. Un’ode miserabile alla sua piattezza esistenziale che, per troppi pudori, ignobili timori, si chiuse nell’egoismo più menefreghista, nella prudenziale equidistanza da ogni contenzioso, da ogni invero puro slancio vitale. Sempre quella paura del pensare cosa avrebbero pensato gli altri di lui, o di lei. E quindi una recita eternamente senile durata non solo testé nel palcoscenico, ma reiterata di senescenza, anche scemenza, a iosa, in tutta una vita posata quanto dalla troppa noia spossata. Mor(t)almente… vi(s)te inguardabili.
Genuflesso a tanto lerciume umano, rifletto e vago nel mondo stando sul vago, anche fumando una sigaretta sul divano, in quanto uomo sano oggi e domani non savio, con non tanto “ano”, e nessun soldo nel salvadanaio. Eppur amante quando amo e stronzo quando non mi amano.
Praticamente e teoricamente un bel niente, un uomo valoroso, un uomo ardimentoso e triste, malinconico e gioioso, probabilmente anomalo.
Un uomo che ama De Niro ma amerebbe anche avere più danaro. Ah ah.
di Stefano Falotico
Mindhunter, recensione finale
Ebbene, dopo averla vista, nei suoi eleganti dieci episodi, possiamo concludere col dire che abbiamo assistito a un prodotto non certo esente da difetti ma Mindhunter è estremamente affascinante. Questa “polizia del pensiero”, nei lontani anni settanta, conia il termine serial killer e incomincia a catalogare gli assassini seriali o anche più semplicemente i criminali che si sono macchiati di crimini violenti. Istituendo un “reparto” di scienza comportamentale il cui compito primario è dare un ordine, una sorta di spiegazione razionale all’entropia degli efferati omicidi, stupri, atti ignominiosi. E quasi “umanizzarli” per addivenire alle contorte logiche mentali che hanno sotteso certi gesti all’apparenza inspiegabili, nati e partoriti da “agenti stressori”, da eventi devianti, da raptus di follia non dominabili ma forse effettuati per imporre la propria stessa dominanza, nel nostro losco mondo ove i mostri esistono e il confine labile fra Bene e Male è spesso il rovescio della medaglia dell’indefinitezza esistenziale, della sottile linea di demarcazione fra giusto e orrendo, fra raccapricciante e moralmente retto. David Fincher ha diretto “solo” quattro episodi di Mindhunter ma la sua mano, il suo sguardo, la sua poetica “luciferina” si sentono dappertutto nell’andamento sobrio, pervaso appunto da attimi di follia detonanti, lungo l’intero, emozionante, calibrato arco narrativo. Eccetto la primissima scena, non succede quasi nulla, si susseguono interrogatori, ci si addentra con discrezione e delicatezza nella vita privata dei nostri detective, ma non vi sono spargimenti di sangue né scene brutali, la violenza è tutta racchiusa, “soffocata” negli sguardi, nelle dinamiche di gatto col topo, nei trucchi psicologici, in un’esposizione di galleria di mostri da far rabbrividire e anche lasciar stupefatti per la loro, sì, perversa natura disturbata, eppure così straordinariamente umana, essendo fatta di arcani, viscerali sensi di colpa, soprattutto nella “tenera” figura di Kemper, titanica dicotomia fra Bene e Male, fra umanità e aberrante disumanità. Una psiche di abbacinante splendore enigmatico, l’oscurità del Male nella sua apparenza banale, compassionevole. E il lungo, perfetto incontro finale con Ford non lascia dubbi in merito. Siamo agli inizi, insomma, Fincher è già pienamente al lavoro per la seconda stagione di Mindhunter, eh già, non poteva essere altrimenti.
(Attenzione Analisi sul Finale – Possibile Spoiler se non avete visto la serie) Chi è quello strano, inquietante personaggio che compare all’inizio di ogni episodio e scandisce le sue giornate in maniacali ritualità atterrenti per la metodicità anonima con cui lascia che già scorra pazzia nel suo animo perturbato? E Ford collassa all’ospedale, ha adesso perso tutto, la fidanzata l’ha lasciato, è indagato per un triste episodio di occultamento e insabbiamento delle prove, una registrazione compromettente, cosicché i deliri paranoici dei mostri che ha interrogato si sono diffusi anche nel suo animo originariamente puro. Qualcosa in lui è cambiato. Evoluzione preoccupante o soltanto il mero raggiungimento della maturità professionale attraverso il disvelamento delle sue paure più gelidamente profonde?
di Stefano Falotico
Mindhunter, siamo a metà del viaggio, recensione dei primi cinque episodi
Ebbene la serie Mindhunter, patrocinata da Netflix, appunto ivi disponibile in streaming, si è da subito imposta, solo dopo qualche giorno di programmazione, come lo show dell’anno. Sì, uno show, va ricordato, perché altrimenti confondiamo quelli che comunque nascono e rimangono come degli intenti di mero intrattenimento per qualcosa di più “elevato”, al di là dei possibili meriti “intellettualistici” o pregi maggiormente sofisticati che esulino appunto dall’essere semplicemente un grande spettacolo.
Ora, vorrei analizzare i primi cinque episodi, e se la pazienza e il tempo vorranno poi mi soffermerò conclusivamente sulla recensione finale, a visione completamente avvenuta.
Paragoni subito son stati fatti col Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme perché Mindhunter di Fincher, come tutti i prodotti sui serial killer, oramai genere a sé, non più ascrivibile neppure sotto la facile etichettatura di thriller, pur ampiamente dilatando, essendo appunto una serie e non un film, alcuni aspetti dell’opera seminale, iniziatica di Demme, espande il cosiddetto “interrogatorio” a dieci episodi.
Un agente dell’FBI, Holden Ford (Jonathan Groff) vuole istituire un programma di scienza comportamentale per far chiarezza sugli omicidi seriali, per uno scopo prettamente educativo, nobile, idealista. E allora, assieme a un profiler, Bill Tench, impersonato da un carismatico e bravissimo Holt McCallany, interroga i criminali per studiare le origini nascoste del Male, per darne una sembianza, per razionalizzarlo, per carpire, semmai esistano, delle linee conduttrici comuni che possano dare ordine e senso all’apparentemente inspiegabile, agghiacciante natura di questi uomini. Uomini, sì, non più cavie da laboratorio, non più semplici mostri, ma persone dotate di una storia, di un vissuto, di ragioni, seppur assurde e orribili, che li hanno per come dire indotti a delinquere esecrabilmente, a macchiarsi dei più perversi reati. Come insegnava Lombroso, così come peraltro ci viene illustrato nel primo episodio, i “moventi” sono tanti e molteplici, diversificati, c’è chi nasce mostro e chi lo diventa, ma anche chi lo diventa e perpetua la sua mostruosità nella serialità.
Allora entra in scena una figura tanto straordinariamente repellente quanto, per i suoi insospettabili modi educati e gentili, affascinante e curiosa, il killer delle studentesse, ovvero il gigantesco Edmund Kemper. Quasi pare che sia un nostro amico, uno che potremmo invitare tranquillamente a cena e non certo temere per la nostra incolumità. E le sue scene sono fra le migliori, filmate con pudore e delicatezza.
Così, fra confidenze personali, dubbi e momenti angosciosi, Mindhunter scorre, mentre sfilano storie di “cannibali” e carnefici, tutti vivisezionati con discrezione, perfino sensibilità, non giudicati né freddamente analizzati ma addirittura, se possibile, compresi, a loro modo giustificati, probabilmente.
Va detto che ci troviamo di fronte a un prodotto senza dubbio intrigante, ben fatto, ma la sceneggiatura alle volte è pedissequa, traballa e non certamente brilla per assoluta originalità. Temi e argomenti già visti e trattati, qui semmai coesi in una struttura narrativa che ce li rende più compatti, unitari. E forse qui sta il suadente inganno di Fincher, non aver proposto in verità nulla di particolarmente nuovo ma averlo ricreato e filmato con un’asciuttezza e un’eleganza tali da farcelo sembrare avvincente.
Alla composta bellezza dell’insieme, almeno fino a questo punto, secondo me nuoce invece la figura di Wendy Carr, un’altezzosa, troppo sicura di sé Anna Torv, che spesso interviene con burbanza egocentrica e sentenzia in maniera massimalista, lapidariamente snob, con frasi ad effetto un po’ ridicole sul fatto, ad esempio, che due uomini di successo come Andy Warhol e Jim Morrison fossero anch’essi dei sociopatici, di come lo fu, a sua detta, il presidente Nixon e, anzi, di come essere sociopatico, asserisce con fierezza senza tentennamenti, sia stata la sua marcia vincente. Insomma, frasi messe lì per fare scalpore e non molto profonde, come quella secondo la quale chi non si adatta alla società è inevitabilmente un criminale. Mi sembrano “cose” obiettivamente molto superficiali e recitate peraltro con un’antipatica arroganza della posa, tanto per far scattare il facile applauso un po’ allocco.
Detto questo, Mindhunter promette comunque a pieno ciò che aveva promesso e, ribadiamo, non scambiamolo per un prodotto che vuole essere chissà quanto innovativo o splendere di chissà quale spessore, appunto, psicologico.
È un veicolo d’intrattenimento, spesso molto intelligente, altre volte invece prevedibile e banale, che si lascia guardare con ammirazione senza però neanche entusiasmare chissà a quali alt(r)i livelli.
Forse eccessive, dunque, le lodi della Critica statunitense ma, in un periodo di vacuità e frivolissime sciocchezze, avercene…
di Stefano Falotico
Le incorruttibilità, la malvagità liceale fatta di facili licenze, i licenziamenti, i linciamenti, i casti e i castori
Mattina mia invasa, forse da invasato, ah ah, da avidi pensieri di verità, mentre la nebbia, non solo atmosferica, spesso offusca e ottunde molti cervelli imprigionati in schemi retorici e castigati in vite che sempre giudicano le vite altrui e hanno invece della loro (r)esistenza un comune senso del pudore negletto rispetto alle più sincere emozionalità e ostracizzanti il pensiero fluido, morbidamente libero.
Stupito da me stesso, sbadiglio in mezzo ai vostri sbagli, ben fiero di aver raggiunto la bellezza dell’incertezza, l’irrequietezza esistenziale del perenne smarrimento che, a differenza di ciò che i luoghi comuni potrebbero tacciare di “fallimento”, è la fonte salvifica, l’attracco beato di una fervida mente agganciata a un’anima in continuo evolversi, in mutamento imperterrito, perpetuo, atterrita dinanzi a tanta finta baldanza meschina e “indagatoria”.
Che c’entrano i liceali? L’altro giorno, scrissi qualcosa a riguardo del liceo classico. Puntando il dito, con estrema forza, verso quelli che ancora sono ancorati alla classista, classica appunto, e classicistica visione secondo cui è la scuola “migliore”, quella che darebbe l’impronta più preparatoria non solo alla cultura ma alla vita, insomma quella che forgerebbe la tanto ignobilmente celebrata forma mentis.
Semplicemente, un retaggio fascista figlio di una mentalità che così tanto issa in gloria la cosiddetta cultura, definizione di cui assurdamente si abusa, termine alquanto astratto col quale invece, spesso, si fa riferimento solo al nozionismo più vuotamente didattico, mnemonico e legato unicamente a un sapere ampolloso, trombonesco ed enfatico. Insomma, in una sola parola retorico.
Sono stato attaccato per queste mie affermazioni, e qualcuna ha sostenuto che, da qualsiasi prospettiva provi a guardare altri tipi d’istruzione, perlomeno quelli che garantirebbero la “cultura” nell’età appunto della formazione, non può fare a meno di credere che il classico sia la scuola senza dubbio più formativa perché, secondo il suo presuntuoso punto di vista, sarebbe l’unica scuola in grado di fornire quegli strumenti ampi, “basici” e diversificati della conoscenza. Quando le chiedo cosa intenda esattamente, con precisione, per conoscenza, rimane sul vago, “apportando” in sua difesa delle spiegazioni banali e ancor più campate per aria.
Quando si parla di certe cose, si rimane sempre fermi a concetti ancor più retorici e onestamente vecchiotti, tanto che quelle parole risultano prive di contenuti, tenute in piedi soltanto dalla cultura, questa sì, bassa e oscenamente mendace, delle frasi fatte, delle sconcertanti banalità più retrograde, superate e pur ancor vigenti e asetticamente “sussistenti” in un certo mo(n)do di pensare che va, vi dico con potenza, sorpassato.
Ciò per dire che il fascismo nasce laddove proprio ci dovrebbe essere cultura, che non è, ripeto e sottolineo con vigore e veemenza, rabbia e disinibito furore, un elenco, spesso morigeratamente vetusto e fuori dalla realtà, estraneo alle contingenze, per meglio dire, realistiche, di nozioncine, di bei discorsi validi soltanto per un orrendo, “meritocratico” sfoggio di un voto in pagella, di un’inguardabile misurazione del “valore”. Insomma, la più dannosa cultura “scolastica”. Quell’apprendimento appunto astratto tanto importante sulla carta quanto lontano dalla consapevolezza pura, che non si acquisisce su libri spesso partoriti da inutili teorie, atti a “educare” soltanto la compostezza formale, la falsa “giustezza”, proprio la presunzione più bloccante la creatività, presunzione che limita e soffoca con la coercizione del pensiero, è bigotto “insegnamento” della cultura tronfia, boriosa, castrante e appunto fascista.
Io sono certo un caso raro, e non ascrivibile a nessuna categoria. Va detto anche questo… ed è un bel quesito. Ma supponiamo che invece di possedere una grande forza interiore mi fossi lasciato imprigionare da certe mentalità, e non mi riferisco soltanto a quelle “(d)istruttive”, che non avessi dato voce e ascolto alla mia anima, cosa sarebbe successo? Mi sarei attenuto alle più rigide, bacate prescrizioni e tutto questo mio creare, liberamente pensare sarebbe stato sommerso dalle più infime regoline di chi guarda, non solo alla cultura, ma alla vita, scremando il bianco dal nero, facendo inopportuni distingui che già etichettano, si prendono licenze gratuite, in una parola giudicano e decidono al posto tuo chi tu non solo puoi essere ma potresti, potrai essere.
Con me certe persone non attaccano.
Così come non attacca la psicologia. Per quanto abbiano tentato, e ancor tentino (attentano, bisogna star attenti), di volermi catalogare in qualche diagnosi, che farebbe comodo solo ai burocrati dell’ordine, svio sempre con le mie genialità dai più generalisti, freddi, gela(n)ti reparti della mente e dell’anima.
Che poi questi psicologi, lo dico con tutta sincerità, parlano sempre di benessere, quando benessere pare equivalga a ottemperare solo al perbenismo più ipocrita, allo zittire i dubbi della coscienza, ad allinearsi a un cheto vivere “armonioso” che di bello non ha niente, anzi, ha tutto di brutto e retorico. Una vita “tranquilla”, fatta di un lavoretto e del prendere i giorni con “filosofia”. Sì, la psicologia ha fatto danni incontrovertibili, forse irreversibili alla grande bellezza del pensiero, della vita tutta, che è bello appunto sia anche inquieta, dubbiosa, fatta di carne, di conflitti, di contraddizioni, di paure, di ritrosie, di slanci coraggiosi, di lotte interiori e intestine, oggi di malinconie e domani di euforie e allegrie. Intestine, care testine… Sì, sbudellarsi d’incognite, che splendore! Amate, dubitate, titubate, interrogatevi sempre, cambiate i vostri mo(n)di. La vita non è acquiescenza, non è questo falso, immondo “benessere” di cui tutti si riempiono la bocca, questa menzogna agghiacciante, questo volgare, sì lo è, “salutismo” dell’anima, del cor(po), delle strane, lunatiche, ambigue traiettorie percettive, visive, psicofisiche. È movimento disincagliato dai (pre)concetti retorici, e il movimento, le vere dinamiche, anche relazionali, emotive, nascono dagli scontri, dalla irruenze, anche dalle nostre, vivaddio sanissime, benedette “aggressività”.
Poi qualcuno viene licenziato ingiustamente e dà di matto. Allora viene preso per pazzo e finisce a lavorare in qualche “cura riabilitativa”, mentre gli altri lo disabilitano. Che orrore!
Ma tu che lavoro fai? Sicuramente il mio principale lavoro è non dar retta ai giudizi facili, che spesso sono maligni e pettegoli, e non certo mi “adopero” per le false compiacenze. Molti invece lavorano tutta la vita per far sì che gli altri apprezzino il loro lavoro.
Sì, poi vanno a messa con la moglie dopo che la sera prima sono andati a messaline.
Siate casti, siate poi impuri, siate come i castori, prendete la vita a morsi, non demordete però, sgranocchiatela.
di Stefano Falotico
Hai scelto l’attore sbagliato?
Forse, il tuo attore preferito ti ha deluso e non è più l’idolo dei bei tempi andati…
Innanzitutto, chi è l’attore? Colui che semplicemente interpreta un ruolo. Forse è solo questo, spogliamolo della sua aura romantica e popolare. Durante un’intervista degli anni novanta, uno degli attori più in voga di quel momento, Harvey Keitel, fu assai sincero riguardo a ciò che lui intendeva per grandezza di un attore. A dispetto di ogni facile aspettativa, definì un grande attore non colui che ha solo, come si supporrebbe, talento e bravura, ma semplicemente un uomo fortunato che ha lavorato e continua a lavorare con grandi registi ed ha acquisito la sua grandezza in virtù di questo. Alludendo a come la sua carriera fosse stata percorsa e stabilita in base a tale “circostanza”. Negli anni settanta, riconobbe che, nonostante avesse partecipato a opere importanti, fra cui Mean Streets, Taxi Driver o I duellanti, peraltro non diventando una star ma venendogli riconosciuto il suo giovane talento e fosse molto ricercato, negli anni ottanta, nonostante avesse continuato a lavorare instancabilmente, pareva che fosse stato dimenticato, salvo rarissime eccezioni, dagli autori importanti. Solo negli anni novanta, con una lista impressionante di capolavori, riemerse dall’oblio e dal parziale anonimato, imponendosi come uno degli interpreti più richiesti e maggiormente pregiati. Lui, scherzandoci sopra, disse pressappoco così… visto, oggi sono di nuovo un grande attore, non ho mai smesso di recitare, ma adesso lavoro con Jane Campion, Quentin Tarantino, Abel Ferrara, e la gente a Hollywood e gli spettatori hanno incominciato nuovamente ad accorgersi di me.
Aveva e ha ragione, secondo voi, Harvey Keitel?
Pensiamo alla carriera, che ne so, di Robert De Niro. Sino alla fine degli anni novanta, nessuno obiettava sulla sua grandezza, la sua filmografia, infatti, a parte qualche film minore comunque sempre decoroso, si può affermare con certezza assoluta che fosse immacolata. Un capolavoro dietro l’altro, una lista sterminata e “consequenziale” di opere indimenticabili, passate quasi immediatamente alla storia del Cinema. Poi, è arrivato il nuovo millennio e De Niro ha cominciato a girare un sacco di commedie di facile consumo, tanti filmetti bruttarelli e persino dei thriller di serie b. Al che, tutti quanti noi, me compreso, suo fan immarcescibile, abbiamo cominciato addirittura a dubitare delle sue doti recitative. Eh sì. Insomma, che l’avessimo sesquipedalmente sopravvalutato, com’è che oggi ci appare bolso, svogliato e ben disponibile solo a film “alimentari” che nessuno ricorderà dopo qualche giorno dall’averli visti? Non può essere solo questione di soldi, non ne ha bisogno. Che De Niro, come si dice in giro, si sia rincoglionito? E se invece fosse stato sempre questo e non ce n’eravamo accorti, accecanti soltanto dalla magnificenza dei film che girava? Forse ci viene il sospetto che sia grande solo perché ha lavorato con registi supremi in film altissimi? Vedi che succede appena non si affianca più a nomi di valore? Allora, forse, non era lui così tanto bravo, erano i registi a renderlo tale. Ecco, perfino uno come De Niro abbiamo messo in discussione.
Ciò per dire che, sì, l’attore fa la sua parte, in ogni senso del termine, ma se il film è grande lui stesso ci appare più grande, oserei dire mitologico. È la struttura del film, la carica che si dà al personaggio, l’impronta registica, l’impianto scenico della storia, la sceneggiatura, perfino la fotografia a presentarcelo sotto una luce che maggiormente lo valorizza.
Non certo scopro l’acqua calda. Daniel Day-Lewis, uno che comunque gira film col contagocce, vince gli Oscar, meritatissimi, per Il petroliere di Paul Thomas Anderson e per Lincoln di Spielberg, e invece come mai nessuno l’ha preso in considerazione per Nine e La storia di Jack e Rose?
E come mai Michael Fassbender che, sino a poco tempo fa, ci appariva come un attore interessantissimo, capace di scelte insindacabili, che aveva carisma da vendere, ci sembra così insulso e uno qualunque dopo aver visto Assassin’s Creed e L’uomo di neve?
Harvey Keitel probabilmente è stato troppo superficiale e generalista ma, appunto, in linea generale diceva delle cose forse ovvie ma indubitabilmente vere. Potremmo dire che un grande attore non si fa grande da sé. Ribadiremmo qualcosa che tutti noi sappiamo, ma è necessario ricordarlo.
In fondo, il mistero e la bellezza del Cinema consistono proprio nelle magiche dinamiche che nascono fra noi, l’attore e i nostri occhi, e il fascino di un attore è la risultanza di queste strane, insondabili alchimie.
Più potente è il film, più grande è l’attore nel nostro immaginario.
D’altronde, è un discorso che va bene per qualsiasi altro elemento della nostra confusa realtà. Più forte è la tua apparenza, più personalità e potere di fascinazione sembra che tu possegga, anche quando in verità non sei nessuno o sei sempre te stesso.
Pare che tu valga di più.
di Stefano Falotico
Mindhunter, recensione di Stefano Lo Verme
Tratta da Movieplayer.
Jonathan Groff interpreta il ruolo di Holden Ford, agente speciale dell’FBI che nel 1977 dà inizio a un rivoluzionario programma di ricerca sul comportamento criminale, in Mindhunter, l’acclamata serie di Joe Penhall: un prodotto atipico che può vantare un’eccellente scrittura e il contributo alla regia di David Fincher.
Psycho killer, qu’est-ce que c’est?
Se si considera il binomio formato da David Fincher e i serial killer, oltre al riferimento più immediato, ovvero il cult del 1995 Seven, è doveroso ricordare anche un film meno fortunato datato 2007, Zodiac. Incentrato sulla caccia al famigerato omicida seriale attivo nella San Francisco Bay Area fra gli anni Sessanta e Settanta, alla sua uscita Zodiac non è stato il grande successo che il tema e i nomi coinvolti lasciavano presagire: il pubblico, infatti, è rimasto in parte spiazzato da un thriller di oltre due ore e mezza in cui l’azione era praticamente inesistente.
Per quanto, a livello commerciale, non abbia ripagato gli sforzi produttivi, tuttavia Zodiac, oltre ad essere amatissimo dagli estimatori di Fincher, è anche un’opera che ha scardinato alcune convenzioni del proprio filone di appartenenza: il suo assunto, indubbiamente innovativo, è stato quello di costruire un thriller poliziesco dall’approccio rigorosissimo, del tutto incentrato sugli ‘investigatori’ e sui loro dilemmi personali. Una formula che, a dieci anni esatti di distanza, Fincher e il suo team di co-produttori hanno rielaborato e riproposto sul piccolo schermo nei dieci episodi di Mindhunter.
L’impero della mente
L’incipit del primo episodio non deve trarre in inganno lo spettatore: in una notte di fitta pioggia Holden Ford, un giovane negoziatore di ostaggi per l’FBI, è impegnato nel tentativo di placare uno squilibrato armato di pistola. È la prima sequenza di Mindhunter pervasa di una suspense tradizionale, nell’ottica del genere poliziesco, ma contrariamente alle possibili aspettative rimarrà anche l’ultima. Al creatore e showrunner Joe Penhall, drammaturgo inglese che per il cinema aveva sceneggiato due impegnative trasposizioni dalla grande narrativa contemporanea (L’amore fatale, dal romanzo di Ian McEwan, e The Road, da quello di Cormac McCarthy), basta una manciata di sequenze per mettere in chiaro la natura della serie targata Netflix: in Mindhunter la ‘caccia’ a cui allude il titolo si consumerà esclusivamente su un piano dialettico e psicologico.
Chi, ricordando Seven o Millennium – Uomini che odiano le donne, si attende brividi, adrenalina e colpi di scena, rischia di restare deluso: in Mindhunter la detection sulle orme di assassini seriali è appena una tangente in un intreccio fabbricato con tutt’altri presupposti e tutt’altri obiettivi. La serie di Penhall, semmai, può essere accostata per certi aspetti a Masters of Sex: pure in questo caso, infatti, il fulcro narrativo è costituito da un progetto scientifico potenzialmente rivoluzionario quanto, in misura esponenziale, rischioso e controverso. Assieme al più maturo collega Bill Tench, Holden riesce infatti ad avviare un programma volto allo studio e alla definizione di una normativa delle tipologie comportamentali dei serial killer: una ricerca condotta ponendosi faccia a faccia con psicopatici già assicurati alla giustizia, e provando ad esplorare gli insidiosi meandri di menti che hanno partorito le più bestiali atrocità.
Il “giovane Holden” e i suoi partner
È il bizzarro paradosso da cui scaturisce gran parte della forza drammatica di Mindhunter: da un lato l’esigenza di attenersi ad una precisione scientifica e a tutti gli scrupoli del caso; dall’altro la necessità, avvertita con particolare fervore da Holden, di abbandonare i lidi sicuri per avventurarsi nel territorio dell’ignoto. E cosa c’è di più ignoto del panorama che si cela nell’oscurità di una psiche affetta dal più tragico dei mali? Un contrasto ulteriormente accentuato dalla scelta del protagonista: Jonathan Groff, ex alunno canterino di Glee, con il suo viso e il suo portamento da perfetto bravo ragazzo, è quanto di più lontano si possa immaginare dall’archetipo noir del detective duro e tormentato. Da una puntata all’altra, però, lo vedremo addentrarsi sempre più a fondo nell’abisso di questa indagine, con una determinazione che a tratti sembra sfiorare l’ossessione, animato dalla consapevolezza del valore seminale di un progetto che mai nessuno aveva intrapreso prima di allora (la figura di Holden Ford è ispirata a quella di uno dei primissimi profiler dell’FBI, John E. Douglas).
Al fianco di Groff, in un meccanismo quasi da buddy movie, il caratterista Holt McCallany calza a meraviglia i panni del suo principale collaboratore, Bill Tench, il cui iniziale scetticismo e la solida prudenza faranno spazio ad un coinvolgimento sempre più ampio nell’impresa di Holden. A questa “strana coppia”, sulle cui interazioni gli autori basano alcuni dei dialoghi più riusciti della serie, si affiancherà poi anche una terza presenza: quella di Wendy Carr, psicologa interpretata da Anna Torv (attrice della serie Fringe), la cui professionalità fredda e impeccabile farà da contraltare all’istintività spesso avventata di Holden. In ambito privato, invece, il protagonista trova una sponda di costante confronto – e talvolta di conflitto – in un’altra figura accademica, la sua fidanzata Debbie Mitford (Hannah Gross), dottoranda presso l’Università della Virginia.
Imparare la lingua del Male
Mindhunter non manca inoltre di rievocare lo “spirito del tempo”, ovvero l’America della seconda metà degli anni Settanta: non attraverso pretestuosi rimandi alle vicende di quel periodo (anzi, la serie evita quasi del tutto riferimenti specifici alla storia o alla politica), ma restituendo alcuni elementi di un immaginario cristallizzato soprattutto mediante un certo cinema… un cinema al quale, non a caso, Fincher e Penhall rendono omaggio nell’episodio d’apertura, quando Holden illustra alcune peculiarità del rapporto fra negoziatore e criminale usando uno dei capolavori di Sidney Lumet, Quel pomeriggio di un giorno da cani. La fotografia, curata da Erik Messerschmidt, alterna l’atmosfera plumbea degli esterni alla penombra degli uffici e delle celle carcerarie, mentre la colonna sonora racchiude un autentico juke-box del pop e del rock dei Seventies: Toto, Don McLean, la Steve Miller Band, i Talking Heads (come non inserire le note della leggendaria Psycho Killer?), David Bowie, i Fleetwood Mac, Meat Loaf, The Alan Parsons Project, fino a quello struggente epilogo, l’improvvisa ‘implosione’ di Holden, sulla melodia di In the Light dei Led Zeppelin.
In fondo, Mindhunter si sofferma soprattutto su questo: l’eterna riflessione dell’essere umano sul mistero (insondabile?) del Male. Un Male che, contrariamente ai preconcetti vigenti all’epoca, non viene trattato come un corpo alieno rispetto all’uomo stesso, alla stregua di un fenomeno metafisico; al contrario, il Male è un avversario da fissare dritto negli occhi, con il quale iniziare a dialogare apprendendone innanzitutto il linguaggio. Il Male, in ultima istanza, è qualcosa da capire, riconoscendolo pertanto come una componente intrinseca alla specie umana: ed è tale assioma a rappresentare il vero ‘mostro’, l’unica, reale fonte di suspense all’interno di una serie decisamente complessa e sofisticata. E al termine del decimo episodio, quell’ultimo scambio di battute fra Holden e il gigantesco serial killer Edmund Kemper (Cameron Britton, superbo nella sua recitazione controllata e sotto le righe) annullerà ogni residuo di distanza fra i due uomini, l’agente dell’FBI e il maniaco pluriomicida. È davvero possibile guardare in faccia il Male senza restarne a nostra volta contagiati? Un interrogativo inquietante da conservare per la prossima stagione…