The Irishman di Scorsese, prime immagini di Al Pacino con De Niro sul set
Ebbene, come molti sapranno, lo scorso mese, dopo anni di gestazione e rimandi continui, sono finalmente iniziate le riprese dell’attesissimo The Irishman di Scorsese, in quel di New York, centro assoluto della vicenda.
Tratto dal libro di Charles Brandt, I Heard You Paint Houses, in Italia uscito col titolo L’irlandese – Ho ucciso Jimmy Hoffa, e sceneggiato da Steven Zaillian, il film verte sulla losca e oscura storia del killer Frank Sheeran, reduce della Seconda Guerra Mondiale, divenuto sicario “anonimo” per la mafia e, stando alle parole dell’autore, responsabile numero uno dell’uccisione, appunto, del sindacalista Hoffa.
Sheeran è interpretato da Robert De Niro, alla sua nona collaborazione con Scorsese, mentre Hoffa avrà il volto di Al Pacino, che invece per la prima volta nella sua carriera viene diretto dallo “zio Marty”.
Il Daily Mail, poche ore fa, ha catturato in esclusiva le primissime immagini di Al Pacino assieme a De Niro sul set.
Ricordiamo che i due divi, grandi amici nella vita privata, considerati due dei più grandi attori viventi, hanno già recitato assieme ne Il Padrino parte seconda di Coppola, anche se per motivi temporali non condividevano nessuna scena, nel magnifico capolavoro Heat di Michael Mann, e in Sfida senza regole del 2008 per la regia questa volta di Jon Avnet.
Il cast di The Irishman, necessario ribadirlo, è davvero altisonante. Oltre a De Niro e Pacino, infatti, ci sono Joe Pesci, Harvey Keitel, Bobby Cannavale e Anna Paquin.
Com’è difficile essere dei “blade runner” nella società burocratica “moderna”
E il futuro incombe incerto, annientando le individualità e trascinandole verso una piatta volgarità di massa, ove i valori primari sono scomparsi, a favore di una deleteria, e come potrebbe essere altrimenti, robotizzazione delle coscienze, sempre più improntate all’egoismo capitalistico, ansiogeno e paradossalmente controproducente, allo sfrenato consumismo arido, alla vacuità dell’effimero più insulso, ove le persone vengono spersonalizzate e giudicate utili solo se aderenti a un sistema, appunto, erroneamente produttivo. Ove produttività non si allinea più a un concetto di valorizzazione dell’individuo, nelle sue uniche e speciali forme, come raggiungimento di un benessere vero col mondo che ci circonda, come interscambio simbiotico di pace, solidarietà e reciproco rispetto, come flusso culturale in continuo, progressivo migliorarsi, come superamento dei limiti barbarici e volgari, quanto piuttosto come ricerca esasperata di posizioni sociali discutibili, un nuovo, inquietante modus vivendi, ahinoi imperante oramai negli ultimi decenni, fascista e “repressivo” i Ryan Gosling di turno (e in questo “sprazzo” lodo Villeneuve, criticandolo, come già feci, per il resto), che ha sostituito l’uomo, in quanto risultanza magnifica di storia personale, di vissuti, di emozionalità, all’androide, all’uomo invece finto, schematico, altezzoso, rispettoso di un ordine precostituito e “prebiotico” che sappia solo e soltanto sopravvivere in questa spaventosa giungla, ove le verità sono ribaltate e non profumano più di autenticità, d’incontrastabile purezza dell’io, nei suoi disincagliati slanci, nelle sue sanguigne e veritiere, ripeto, passioni, nel sogno dei suoi desideri sinceri, nella volontà di essere piuttosto che orrendamente apparire. Ma vige questo falsissimo principio a cui molti si adattano per non morire, per non estinguersi, preferendo il surrogato della “roboticità”, la meccanica ripetizione d’automi di gesti e frasi fatte, di quello che hanno imposto loro di essere in questa parvenza alienante che è la società del “futuro”, del qui presente immutabile nel suo profilarsi inquietante.
Sì, possiamo prendere questo Blade Runner di oggi come un film filosofico, taluni critici hanno avanzato e sostenuto questo punto di vista, io direi che più che domande filosofiche pone quesiti esistenziali, gli stessi accennati da Scott, anche se questi temi, nel film di Villeneuve, non vengono mai davvero approfonditi, rimangono in superficie, sepolti da un’estetica grafica che, nella sua stilizzazione un po’ appiattente, nel suo bisogno di piacere a tutti, ha perduto, ma si sa, sono un nostalgico, la poesia dell’immaginazione che faceva grande il film di Scott. L’unicorno… i ricordi, la voglia insopprimibile di libertà, la fuga dalle costrizioni aberranti, la propria stessa voce narrante che cercava disperatamente di dare ordine al caos della propria anima “replicata”. Insomma, ci siamo capiti.
E, in queste (dis)connessioni, nell’incognita che è il mondo avanzo, oggi smarrito, domani più lucido, più vivo nonostante il buio e la pioggia, la neve e le intemperie della mia anima cavalcante idilliaci sogni di spensierata, “ecologica” beltà come quel viaggio “shining” di Deckard e Rachael.
Blade Runner 2049, recensione
Ora, esco ancora “sbiadito” da questa visione ma non riesco, nonostante debba metabolizzarlo, a capacitarmi di come una nutritissima schiera di persone, in primis la Critica americana, che sarà ora ridimensionassimo, poiché estremamente fallace oramai sentenzia spesso per promuovere l’industria, abbia potuto definire questo “seguito” un capolavoro. Quando non ne possiede neppure un crisma, un fotogramma degno dell’originale. Paragoni non andrebbero fatti e sarebbe azzardato, da parte mia, voler sacramentare a sfavore di questo film di Villeneuve, che si conferma negativamente un regista molto di forma, abbastanza sulfurea e programmaticamente elegante nelle sue sfacciate stilizzazioni indigeste, e poco di sostanza. Ma non lo si può nemmeno liquidare, con molta superficialità, come film non riuscito, perché la sua bellezza, la sua particolarità, ce l’ha eccome. Ed è, come sottolineato da molti, lodabile il tentativo di “serializzarlo”, mantenendo una sua originalità che vorrebbe, non riuscendoci però, anzi mal emulandolo, distanziarsi dal capostipite per seguire una strada propria. Villeneuve s’impegna, gli va dato atto e il “beneplacito” di essere riuscito nell’impresa di ereditare un capodopera di cotanta, giusta fama, cercando di allontanarsene, di svilupparlo e anche farlo “progredire” in maniera autonoma, anzi “autoctona”, pur restando il naturalissimo fatto, non eludibile, di volerne conservarne intatti gli impianti scenografici, “imitandone” la fotografia lucente e nebulosa, quasi sporca, e di scegliere un percorso narrativo che, sebbene sia consuetudinario e neppure tanto brillante, basato sullo svelamento, spiegatissimo, di una trama “a dipanarsi”, di sue intuizioni (come il sesso “a tre”) se ne distacchi. Ma l’operazione è riuscita decisamente a metà, anche meno. Il film non doveva essere un’imitazione del film di Scott, non gli chiedevamo, credo, questo, ma pretendevamo che sapesse affascinarci in egual modo, che ci trascinasse in una storia e in immagini egualmente emozionanti, insomma che ricreasse magicamente il mito di Blade Runner. Che qui si limita invece a rimandi alquanto patetici, forzati, anzi eseguiti perché costretti a compierli. E allora il fantasmatico, invecchiato e appesantito Ford appare come da programma, tra i recessi della memoria e dalle nebbie di una costruzione fatiscente che serba ologrammi di Elvis Presley, di Frank Sinatra e della divina Monroe. Una scena lunghissima, che però manca di anima, dai dialoghi “balbettanti”, che non sanno sostenere le ambizioni e il peso che dovrebbero portarsi dietro. Non sanno trasmettercene la leggendarietà, l’aura quasi mistica che il film di Scott ha scatenato in noi. Ma io sono spettatore oramai attempato e vivo dell’originale, quindi sin dapprincipio m’è parso blasfemia farne qualcos’altro, che fosse un sequel o l’inizio di un possibile reboot, così come il finale ambiguo ci suggerisce.
Ma procediamo con calma. L’unica battuta memorabile rischia di diventare quella pronunciata da Dave Bautista, che non a caso, e Villeneuve lo sa, ritorna in flashback, quasi a volercela imprimere a tutti i costi nella memoria, perché probabilmente non ci aveva colpito come doveva. Come se Rutger Hauer ripetesse il suo celeberrimo monologo finale per far sì che diventasse cult. Roy Batty e la sua magnetica fotogenia non avevano bisogno di questi mezzucci e strategie “mnemoniche”. E basterebbe questo a screditare il film, la mancanza di una sceneggiatura all’altezza dell’intero progetto, una sceneggiatura che zoppica, che in verità scopiazza da altri classici della fantascienza, e annega a conti fatti nelle trite banalità che vanno a pescare anche le atmosfere “sferraglianti” di Mad Max o addirittura di un Waterworld sulla terraferma.
Insomma, le immagini sono visivamente, appunto, appaganti e splendide? Non è vero, alcuni attimi, alcune traiettorie visive, alcuni segmenti. Troppo pochi, mal coagulati nell’insieme, prolisso, che andava tagliato, una durata non necessaria, un film schematico e spesso gelidamente artefatto. Ma io sono di un’altra generazione e forse non capisco, così come mi sfugge l’inutilità del “cattivo” di Jared Leto, messo lì per i tardo teenager.
Cioè, quello era storia, questo è un presente confuso, non brutto, per carità, ma che mi lascia perplesso, mentre “sonnambulo”, chissà, nel futuro lo rivedrò. Nonostante tutto, apprezzabile, ma niente di più. Già ho peccato di generosità.
di Stefano Falotico
Blade Runner 2049 secondo Antonella Liguori
Tripudio di gemme visive incastonate dentro un racconto intimistico rarefatto, commovente e bellissimo, che si prende il tempo necessario, rallentandolo e dilatandolo, per parlare a noi di noi, di come eravamo e di come siamo adesso, sospesi tra il passato e i suoi ricordi nebulosi che i sentimenti, alla base dell’essenza umana, della sua anima, rendono ancora vividi nel colore e nel calore, e l’indeterminatezza di un futuro che si prospetta gelido, inafferrabile e pericolosamente mutevole.
L’esistenza che fu è una sensazione che fa male come una fitta al cuore; è un ologramma per i nostri occhi addormentati e consumate tracce audio per le nostre orecchie intorpidite.
Giacciamo prigionieri nell’interregno freddo e grigio di questo inospitale presente sintetico, in balìa di cortocircuiti emozionali che ci vedono guerrieri di battaglie quotidiane tra il desiderio di vivere pienamente e la paura di farlo per davvero.
Trincerati dietro un mondo virtuale di riflesso, viviamo -come il protagonista- una vita surrogato solitaria, siamo repliche di altre repliche venute prima di noi, ingranaggi nel sistema, tasselli anonimi e incolori di un disegno che non riusciamo a intravedere, di cui non ci è dato sapere.
Andiamo avanti senza porci troppe scomode domande, senza mai guardarci dentro fino in fondo, per il timore di scoprirci incompleti e insoddisfatti o, forse, solamente umani. E perciò imperfetti, vulnerabili, sanguinanti e soprattutto provvisti di una speranza, quella che per noi “possa essere diverso” e “possa essere speciale”. Perché possa vestirsi di senso il nostro peregrinare sulla terra, sempre più arida d’amore e sempre più feconda di calcolo matematico.
Villeneuve sforna il suo capolavoro hollywoodiano, consegnando al nostro cospetto un’opera esteticamente abbacinante che rielabora con raffinatezza ed intelligenza l’immaginario sci–fi al cinema; crea indovinati trait d’union (grafici e narrativi) con la pellicola di Scott così da percepirla come la continuazione ideale ed aggiornata (all’effettistica odierna e al suo potenziale tecnologico) di quel mondo altro, eppure tutto nostro, che nel lontano 1982 ci venne spalancato innanzi agli occhi; ingloba la poetica dickiana piuttosto che ridurla a sola ispirazione o mera suggestione, e innesta elementi fondamentali di un discorso unico (e sempre in evoluzione) sulla fantascienza nella settima arte, quei temi già incontrati in Terminator e capitoli successivi, Gattaca, Minority Report e pure nel più recente Her, per citare alcune di quelle pellicole di cui sono evidenti i rimandi.
Facendo di Blade Runner 2049 il traguardo ultimo naturale (almeno per il momento) di un lungo percorso di forma e sostanza che ha accompagnato, sempre abbracciandola, la nostra contemporaneità, capace di leggerne ed interpretarne meccanismi e dinamiche per trasferirli, successivamente ‘trasfigurati’, sul grande schermo con inappuntabile puntualità e profetica visionarietà.
Racconti di Cinema, Fuori Orario
Fuori Orario: Ebbene, stavolta scendiamo sin ai voraginosi anni ottanta e poi risaliamo, vertiginosamente, alle origini, potremmo dire arcane e conoscitive, di una perla senza tempo, il magnifico After Hours (titolo originale), firmato da un Martin Scorsese in stato di grazia.
Ora, piccola parentesi personale. Ci sono film che vanno al di là del puro loro significato intrinseco e lo trascendono, sconfinando e planando in zone quasi mesmeriche e ignote che risvegliano l’anima e la cullano dallo stato sonnacchioso in cui era precipitata, per apatia o monotico cheto vivere noioso, e l’issano nel farla rifulgere di luce ritrovata. Questo Fuori Orario non assomiglia a nessun altro, è un gioiello incastonato nel mirabile anno 1985 quando vinse il premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes, passando quasi inosservato però alla Critica “seria” che perfino un po’ lo snobbò, classificandolo come divertente commediola e basta. Un film apparentemente linearissimo e dunque semplice che invece t’immerge in una zona inconscia di ludica venustà. Un tuffo emozionale ipnoticamente raro.
Un film che ti rinnova, sì, ci sono film, ripeto, che dilatano le tue esperienze percettive, che si sprigionano in squarci lirici, in tal caso inquietantemente ironici, che s’aprono a prospettive inusuali, offrono allo sguardo e alla sua accorata anima una visione unica di ribaldo splendore.
Un’avventura tutta in una notte, immensamente godibile, trascinante, dal ritmo travolgente.
Paul Hackett (un misurato e perfettamente in parte Griffin Dunne) è un anonimo programmatore di computer a New York. Dopo il lavoro (da qui anche il titolo originale della pellicola), si reca al solito bar ove, in pausa caffè, legge Tropico del Cancro di Henry Miller. Qui, dopo una simpatica chiacchierata, conosce una ragazza che gli lascia il suo numero di telefono. Hackett, appena rincasa, la chiama.
Deciderà allora di attraversare tutta la città e di andare a trovarla nel suo artistico e lussuoso mega-appartamento di Soho. Ove incrocerà la sua amica, una bizzarra scultrice… la ragazza dell’appuntamento non è puntuale, ma alla fine s’incontrano. Da allora in poi, incomincia una sarabanda di equivoci e contrattempi, potremmo dire, che fan catapultare il timido, incerto e introverso Paul in una spirale kafkiana di magistrali colpi di scena, in una vera e propria discesa agli inferi che è speculare e allo stesso tempo diametralmente opposta eppur comparabile a quella di uno dei massimi capolavori di Scorsese, l’immortale Taxi Driver. Quella che doveva essere una bella e serena serata si trasforma improvvisamente, in maniera incalzante e spaventosamente surreale, in un incubo a occhi aperti mentre la notte cala, anzi cola, sempre più buia, fosca, piovigginosa, nello spettro di un’umanità eccentrica, balzana, fuori dall’ordinario. E succede l’incredibile, l’imponderato.
Un’ora e mezza che scorre velocissima, mossa dalla mano elegante di uno Scorsese allo zenit del suo funambolismo creativo. Fra lampi onirici, movimenti di macchina roteanti, sghembi, spezzati nelle profondità di un quartiere ostile, quasi torvo, “lunatico” come l’angoscia buffa del protagonista che vive un’esperienza angustiante e angosciosa, assillante, senza vie d’uscita, il tutto filtrato appunto dall’occhio di uno Scorsese attentissimo ai dettagli, sostenuto dalla sceneggiatura a orologeria dello sceneggiatore Joseph Minion, un film che si avvale della luminescente e al contempo cupissima fotografia del grande Michael Ballhaus, intelaiato secondo il montaggio, al solito chirurgico e precisissimo, di Thelma Schoonmaker, intervallato dalla puntellante colonna sonora di Howard Shore che ammanta di ventricolare e cardiaca suspense lo scandire inesorabile dei minuti.
Fuori Orario è un film che non ti stanchi mai di vedere, assolutamente imperdibile per chi ha commesso il reato di non averlo ancora visto.
di Stefano Falotico
Diario di bordo di Rick Deckard, Blade Runner 2017, quasi 2018
Sto qui, a bere sakè caldo che si scioglie nelle mie meningi quasi assopitesi, logorate così come la fatiscenza di questa città decadente che oggi, 4 Ottobre, festeggia il suo santo Patrono, San Petronio. Bologna, come Los Angeles, come una metropoli angusta e nerissima dello splendido noir chandleriano che è la mia vita, che di malinconie incipienti soffia nelle mie tempie stanche di troppa deficienza, di questa mortifera allegria da cui, in cappotto scuro, cerco di estraniarmi, distinguendomi forse per la mia atipicità “nottambula” o soltanto apparendo uno stolto saltimbanco, uno fra i tanti della storia, a rimediare magre, “stolide” figure per via di quell’ancora incurabile ingenuità “stracca” che, seppur m’aiuti negli slanci più sinceri, è fonte di equivoci e perenni fraintendimenti. Fradicio, bagnato, non ancora spento, emozionalmente vivissimo, recettivo a ogni frastagliato cambio di temperatura dell’anima.
La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo…
Bruciarsi o solo riaccendersi, riappropriarsi della visceralità del proprio cuore che, fra mille sbagli e sbadigli, striscia enunciandosi aperto a ogni altro tipo di errore, me, errante cavaliere che sa sprigionar calore quando vuole e di patetiche inezie non si duole, freddo e compassato, elusivo quando troppa vita mi è richiesta e la mia mente non riesce a sostenere l’assurdo, frenetico peso di quest’agitata ansietà. Cadendo traumatizzata dai colpi della superficialità… ah, tipo facile non sono, le mie arabesche e anche “caracollanti”, briccone e da baraccone complicatezze, a uno sguardo limitato che bada solo all’apparenza più evidente del volermi rivestire di un sembiante patetico, ritrarmi secondo quel che gli pare di primo acchito, potrebbero appunto apparire come eterne, sceme vigliaccherie, frutto della negligenza più imperterrita nella sua insistenza alla ricerca di una vita che mai davvero, concreta-mente, si pone. Ma, ripeto, questo è un punto di vista che, sì, mi “aliena”, ma non mi renderà un androide, un concentrato insulso di carne e ossa, non sono un prodotto dell’ingegneria genetica, buono solo, come invece per tanti, i più forse, a ripetere in modo meccanico la reiterazione del proprio vivere, respirare e morire. Inalo vita nella sua complessità e nascono scontri, psicologici conflitti derivanti dall’intelaiatura di tali “difficoltà”, la meravigliosa debolezza dell’essere umano e di quel mio sguardo senziente che va incontro a perentori giudizi facili del manicheismo che tutto vorrebbe etichettare, inglobare in qualche diagnosi da laboratorio aff(l)iggere. Depositare a qualche dipartimento burocratico, a qualche tutore dell’ordine.
Io continuo nell’indagine della mia anima… qualche tempo fa, non molto tempo addietro, da uno psichiatra mi fu posta un’interessante quanto imbarazzante domanda. Cosa, davvero, desidererei dalla vita? Non so, e in questo non sapere, in questo navigar d’inconscio però al contempo così aderente alla vita stessa nel suo coscienzioso lasciar che si modelli di viaggio esistenziale, con molte incognite e poche certe risposte, fluttuo cangiante come il baluginare di raggi b “spettrali” in tal massa oscenamente (ri)spettabile. Siamo fatti di vita pura, di ricordi, di romanticismi perfino stupidi e nostalgici, ardiamo nell’opalescenza delle nostre insonni notti, aspettando l’estemporanea rifulgenza di luminose intensità. Tutto qui, questa è la vita, un perpetuo abisso fatto d’incontri, di dinamiche fra cor(p)i, fra speculari empatie, fra sogni astratti e altri che possano illuderci, nell’avanzamento inesorabile, gracchiante dei giorni e delle lune tristi, in questo incantarci che non smette di stupirci. Finché viviamo…
Quanti amici. Alcuni ti abbandonano, pensando di aver capito tutto di te, di averti inquadrato e quindi, non rispecchiando, tu, secondo loro qualcosa che possa più attrarli, anche affettivamente, ti abbandonano. Altri che ipocritamente ti considerano una persona speciale, danneggiandoti. Perché secondo questi qua essere speciali combacia spesso con essere diversi, ove diversi assume una connotazione quasi spregiativa, limitante e annichilente, soffocante, ribadisco, le straordinarie traiettorie che la (tua) vita in grembo fa (ri)nascere in mille direzioni sorprendenti. Ma rimango qui, a bere, in questa riflessione forse logorroica e pedante, pensando al futuro e rimestando nel passato. E tutti questi momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia.
di Stefano Falotico
Creed, recensione
Ebbene, innanzitutto facciamo chiarezza su cos’è uno spin–off. Molti di voi già lo sapranno e quindi riterranno superflue le mie parole spiegative, altri sanno a grandi linee di cosa si tratta ma probabilmente non hanno chiaro il concetto. Genericamente, uno spin-off è un’opera derivata da quella principale, che spesso si articola a modo proprio, personale, affiliata a quella originaria, o presentando una storia parallela, che fa riferimento all’opera portante di origine per svilupparsi poi in maniera autonoma, conservando molte volte lo stile e i canovacci, le linee narrative dell’opera da cui deriva, quella di partenza che, talvolta involontariamente, dato il suo successo e la sua immediata riconoscibilità, ha indotto a creare appunto delle sorte di suoi figli, in questo caso cinematografici, tramandandone il “seme”, l’asse diciamo genetico.
Dunque, quale migliore esempio di Creed? Che deve la sua “nascita” alla saga (sì, qui si estende il discorso a tutta la filmografia “balboiana”) di Rocky, e ne mantiene per tutta la sua lunga durata quasi identicamente gli stilemi, i tratti distintivi, soprattutto del capostipite, il film che fece balzare agli onori della cronaca il suo assoluto protagonista, Sylvester Stallone, che oltre a interpretare la pellicola, oscarizzata e divenuta immediatamente un cult per intere generazioni, l’aveva anche prodotta e sceneggiata con un acume quasi prodigioso per come indovinò la formula vincente, quella che, nonostante le sue ingenuità e lo spirito naïf perfino quasi imbarazzante per la sua semplicità di “poetica da strada”, commosse e appassionò appunto spettatori di ogni età, e che a distanza di quarant’anni da quando uscì, come vedremo, continua a mantenere il suo fascino, senza stancare mai, pur ripetendone, in maniera mutuata, la trama e le ambientazioni.
Ecco, dalla prime immagini, già movimentate, ci viene raccontata lapidariamente l’infanzia di Adonis, cresciuto tra riformatori, case famiglie e carcere minorile, poi preso sotto l’ala protettiva della madre, che lo ospita nella sua casa e gli dona, oltre all’affetto, i privilegi per poter emanciparsi dalla sua situazione difficile e dura, garantendogli una bella vita e soprattutto un’importante istruzione. Adonis vive ora nel lusso, in una villa gigantesca e lavora onorevolmente per una ricca società finanziaria. Ma Adonis chi è? Altri non è che il figlio “illegittimo” di Apollo Creed, avuto da una relazione extraconiugale tenuta sempre nascosta all’opinione pubblica. Ora, conoscete Apollo, no? Il grande pugile nero che diede a Rocky Balboa la grande chance di poterlo sfidare in un incontro storico, valido per il titolo dei pesi massimi. Nella prima pellicola, Apollo vinceva l’incontro, nel sequel perdeva all’ultimo secondo, nel terzo allenava Rocky affinché potesse riguadagnare il titolo e soprattutto recuperare la stima perduta, nel quarto abbandonava le scene, venendo ucciso in un match mortale contro il gigante russo Ivan Drago. Insomma, già lo sapete. D’altronde Rocky è quasi un nostro parente e “a menadito” non ci è sfuggito niente del suo percorso umano e cinematografico. Ma è necessario ribadirlo come promemoria… perché Creed, a questo punto, diventa metacinema, dilatazione nel tempo e nello spazio di quella storia, di quelle tante storie e sotto-trame, di quei luoghi, di quelle origini.
Adonis non è felice della sua vita. Ha apparentemente tutto, ma in cuor suo ha sempre vissuto nel ricordo di quel padre mitico che non hai mai conosciuto, perché è morto prima che nascesse. E nel suo sangue scorre lo stesso DNA, quello del guerriero da ring, del boxer nato per combattere…
Allorché, dopo alcuni incontri clandestini, da lui puntualmente vinti proprio in virtù della sua predisposizione “genetica” di essere destinato a divenire un pugilatore forte, irruento e “imbattibile” come il padre, decide di andare a Philadelphia, per essere allenato da Rocky Balboa in persona. Rocky lo ritroviamo laddove l’avevamo lasciato nell’ultimo film della saga, a gestire, dopo la morte del cognato e della moglie Adriana, il ristorante pittoresco intestato alla memoria della sua indimenticabile sposa defunta. I due fanno veloce conoscenza e negli occhi di Rocky, subito, scatta qualcosa, un’empatia emozionale, come se Adonis fosse uno di famiglia, d’altra parte. Ma è riluttante ad allenarlo. Solo dopo svariate circostanze, e dopo aver appurato, toccato con mano, potremmo dire, la rabbia positiva del ragazzo, decide di diventare il suo trainer.
Intanto, Adonis s’innamora di una cantante che vive nell’appartamento sotto al suo. Insomma, seppur aggiornata ai tempi nostri e inevitabilmente in alcuni punti differente, la storia è come quella del primo. La stessa Philadelphia coi suoi quartieri degradati e la povera gente, la stessa voglia di riscatto e determinazione, grinta della giovane promessa, la stessa storia d’amore, anche se narrata con toni, sì, delicati e pudici, ma meno romantici e più sbrigativi, ancora una volta un vecchio allenatore stanco e un po’ disilluso e un ragazzo in cerca della sua speranza. Lì era Mickey (il compianto Burgess Meredith), qui è Rocky stesso. E, alla fine, una grande, inaspettata opportunità di poter lottare per vincere il titolo mondiale, stavolta però dei pesi medio-massimi. Non sveleremo altro, abbiamo già rivelato e detto abbastanza.
Insomma, questo Creed diventa, a conti fatti, più una sorta di remake che uno spin-off. E Ryan Coogler, che sa che così andrà sul sicuro, senza rischiare troppo, è comunque bravo a ricreare e a trasmettere il trascinante, sempre efficace effetto nostalgia.
Insomma, un film che non è niente di trascendentale né particolarmente originale, anzi, tutt’altro, ma grazie alla mano ferma e sobria del regista, a quei tocchi inesorabili che lo riagganciano in maniera perfetta, vividamente “contagiosa” e combaciante all’originale e ai suoi seguiti, diviene un’altra storia piacevole, dall’ottimo ritmo e incalzante. Nulla di che, ripetiamo, forse esagerati i plausi della Critica americana all’epoca della sua uscita, quanto “eccessiva” la nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista a Stallone, che andò vicinissimo alla statuetta e comunque vinse a mani basse il Golden Globe, ma si sa… Rocky è sempre Rocky, anche quando non è solo Rocky, potremmo dire. E allora va bene tutto.
di Stefano Falotico
The Leisure Seeker, il trailer del primo film americano di Paolo Virzì
Ebbene, la Sony Pictures Classics, che lo distribuirà sul mercato statunitense, ha rilasciato, poche ore fa, il nuovissimo trailer del primo film “in lingua inglese” di Paolo Virzì, uno dei nostri italianissimi registi più amati, autore come sappiamo di opere di grande successo di Critica e pubblico, come Ovosodo, Il capitale umano e il recente La pazza gioia.
Un film molto atteso che è stato in Concorso all’ultimo Festival di Venezia, ove, a dire il vero, ha spaccato la Critica in due, fra i sostenitori italiani che l’hanno evidentemente apprezzato, come ad esempio due rinomati nomi quali Paolo Mereghetti de Il Corriere della Sera e Francesco Alò di Bad Taste, e invece i moderati americani che son stati piuttosto freddi ad accoglierlo.
Comunque sia, nonostante il controverso suo passaggio in Laguna, rimane una delle pellicole italiane di maggior richiamo dei mesi a venire, anche perché si avvale, in veste di protagonisti, di due mostri sacri del Cinema mondiale come la splendida Helen Mirren e l’intramontabile Donald Sutherland, il quale, fra l’altro, proprio a breve sarà omaggiato con un meritatissimo Oscar alla Carriera.
Il film racconta il viaggio on the road di due anziani coniugi, Ella e John Spencer. Un viaggio che sarà quasi un pretesto per rivivere e fare un bilancio della loro relazione, con indubbi momenti toccanti e altri più spensierati, un viaggio insomma esistenziale alla riscoperta di sé stessi.
Nota bene: anche My name is Tanino è stato filmato in parte a Toronto e a New York, ma è stato girato in lingua italiana.
di Stefano Falotico
Aftermath – La Vendetta, recensione
E dire che qualcuno, su cui comincio adesso a nutrire seri dubbi sulla sua intelligenza cinematografica, me ne aveva parlato bene, consigliandomelo soprattutto per la prova “intensa” d’uno Schwarzenegger inedito. Robaccia davvero mal sopportabile, e questa sera, guardando tale “pellicola”, mi son ampiamento rovinato la (buona)notte.
Trama: ispirato in modo assai pretestuoso a una storia vera, è la vicenda noiosissima, senza sussulti, di due uomini accomunati, seppur in maniera diversa ma speculare dalla stessa tragedia, per cui le loro vite vengono rovinate per sempre.
Un operaio che lavora da brav’uomo in un cantiere, quando invero avrebbe già l’età pensionabile, eh eh, apprende che la moglie e la figlia sono morte in un catastrofico incidente aereo. Da allora, il dolore per la perdita irrecuperabile lo sopraffà e il trauma esploderà un anno più tardi, dopo che aveva covato un rancore insopprimibile per colui che riteneva essere stato l’artefice e il responsabile numero uno del disastro, il controllore di volo “distratto”, uomo sul quale si incentra la seconda vicenda narrata contemporaneamente o meglio in parallelo, che non ha provveduto a dovere, forse per problemi di comunicazione (e un buco narrativo devastante, con tanto di scena di tecnici capitati nella sala comandi “a caso”, mah, di cui non viene data nessuna spiegazione, nemmeno implicita…), a salvare la situazione.
Il film, con prolisse e fintamente introspettive scene “madri”, non ha una storia ed è bidimensionale, concentrandosi solo sulla sofferenza, abbastanza scontata e madornalmente mal descritta, di due uomini “sopravvissuti”. L’innocente che poi diverrà carnefice, la “vittima”, e il povero Cristo a cui è capitata una sfortuna immane.
Non vi svelo il finale e anche il sottofinale, un film che ha tutte le carte in regola per essere uno dei peggiori da me visti di recente. Una fotografia scialba e mal curata, tetra e grigia, ambientazioni volutamente vuote e squallide, due solitudini per le quali non si riesce neanche a provar empatia per come vengono riprese sciattamente, con inquadrature di primissimi piani estenuanti dalla sconcia bruttezza estetica.
Cos’è questo film? Una presa in giro, una storia che voleva darci un messaggio con artifizi invero pedissequi e paradossalmente controproducenti alle vere, viscerali emozioni, un inno a incitarci di volerci “trasportate” nel dolore con una messa in scena desolante con i più biechi topos di una trama che dovrebbe essere commovente? Non si capisce. Una spettrale, disadorna elaborazione del lutto? Come se bastasse riprendere dei volti sofferenti per fare un film di questo genere…
E Schwarzenegger, che a settant’anni prova a riciclarsi come attore “serio”, per quanto provi a impegnarsi e a infondere un minimo di profondità al personaggio, va detto con onestà che fallisce in modo alquanto evidente ed imbarazzante. Schwarzy, dacci retta, eri meglio nei blockbuster anche più “faciloni”, almeno non avevi la pretesa di fare l’attore drammatico.
Inguardabile. Sbaglia su ogni linea. Bocciatissimo. A mai più rivederlo…
di Stefano Falotico
Attimi di costernazione, di costellazione
Stamattina, passeggiai, sì, uso il passato remoto per dar più risonanza al tempo che, oscurandoci, spesso ci rattrista, ecco, stamane mi rannicchiai nel dolor verace e vorace dei miei pensieri fluttuanti, carezzando la mia indole lamentosa che qua e là emerge in me remissivo, sottomesso alla pesantezza nebulosa dei giorni così tediosi. Con melanconia mia congenita, “pregio” dal quale non riesco a distaccarmi nonostante le mie “involate” nel pensar che l’aldilà non esista e dunque non val la pena rammaricarsi delle nostre sfortune quotidiane, non val dolersi per il tempo che, fuggitivo e “velleitario”, fa sì che sovente ci ammorbiamo nel patir sofferenze anche psichiche, ecco, sentii rimbombar nella mia anima un’eco, un senso di meraviglia estasiante che m’indusse ancor più a introflettermi per “annusar” con bri(vid)o quelle angosce “spassionate” che il mio cor(po) a sé richiama, in quella che posso definire una costernazione illuminante, un’apertura “inusitata” della coscienza mia viaggiante in lindi lidi del fiorir gaudente in mezzo a una realtà appunto così rabbrividente.
Credo, nonostante sia “costellato” di detrattori, di essere un genio. Sì, lo posso asserire e “convalidare” con pienezza di un orgoglio rispuntato da nebbie furtive che mi portarono proprio a soffrire di bui che v’auguro possiate anche voi avere, perché solo addentrandoci nell’oscuro nostro essere possiam ambire alle nobili altezze. Nella vivida essenza di questa mia risplendenza, posso dire che debbo assolutamente vivere laddove ai geni son concessi privilegi che l’uomo normale può solo sognare, può anelare senza mai raggiungere.
Il lavoro, così come comunemente inteso, mi rende teso e il mio cuore, atrofizzato da questo lor affaccendarsi senza senso e precisa meta, se non le sfrenate ambizioni arricchenti il perpetuarsi, perdurarsi del materialismo più spicciolo, non si terge ove possa invece rifulger di vita propria. La mia vita non è minabile da cattive invidie e da chi vorrebbe costringermi a una vita “normale” di baciamani ruffiani e di grigiori che pensano di alleggerire le oscenità con l’umorismo borghese, sempre così (p)ungente, vanamente deficiente, a “valor” del lor pen(s)ar di qualcosa valere. Gente abietta, miserabile, che imposta la sua (r)esistenza sull’avido sudore di vite banali, che si “ossigenano” soltanto appunto con vanità che reputo esecrabili, figlie di quegli ammorbanti “sacrifici” che li fan credere così validi…
Ma io vaneggio e a vanvera parlo, si sa, il genio, per sua natura “indigesta” alla massa, arreca fastidio, vive di una realtà al di sopra del disumano vostro consumarsi e vuole essere lasciato in pace, poiché sa sol allietarsi di suoi voli pindarici, risplende nell’arcobaleno pulsante dello sguinzagliarsi e abba(gl)iarsi ove può godere della sua indiscussa, eppur “discutibile” immensità. Lo so, queste mie parole fanno arrabbiare la gente che vorrebbe vedermi relegato in qualche “diagnosi” alimentare, così potrebbe tranquillizzare la sua malignità dietro qualche certificato che attesti le mie da lor (pres)unte “difformità”. Ah, è un piacere che non ha pari il mai star con questi qua in pari. E sarebbe lotta impari voler pareggiare i conti, sarebbe solo straziante dar spiegazioni a chi tanto continuerà a offenderti con quell’acrimonia tipica della gente miserrima e mediocre, piccola quanto quella falsa “cultura” dietro cui si cela per non confessare la sua invero pochezza mentale, figlia del nozionismo-neonazismo più mentecatto e merceologico.
Credo che i poeti, come me, è un dovere imprescindibilmente morale che debbano vivere lontano dagli schemi e dalle frasi fatte, dalle etichette e anche dalle “porchette”. E allev(i)arsi in stati mentali che si dissocino da tutto questo, sì, patire. Devono altrove partire.
Rallegrato quindi da questi miei pensieri, quanto mai giusti, vivrò con più lietezza la giornata che già adesso si sta facendo freschezza, alta ebrezza, sofisticata, contemplativa lentezza e poi, chissà, altro dolceamaro, oltre sentire di veloce sali-scendere sul vento di maestrale della mia barca stellata e così mal sopportata.
Che bello non star tra i finti grandi e scivolare nella grandezza.
di Stefano Falotico