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Flight, recensione

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Parto col dire che Robert Zemeckis è un regista davvero anomalo, non ascrivibile a nessuna categoria, non identificabile, un oggetto strano fra gli autori, perché comunque lo è, del panorama cinematografico hollywoodiano. Salito alla ribalta degli anni ottanta, con Ritorno al futuro in primis, con l’avventuroso e da tanti emulato, gagliardo All’inseguimento della pietra verde, e soprattutto con quella perla inimitabile ancor oggi che è stato … Roger Rabbit, vince l’Oscar nel 1994 col celebratissimo e però già “datato” Forrest Gump, scegliendo poi, all’improvviso, una strada che, ripeto, faccio fatica a inquadrare in una poetica precisa. Ottiene ottimo successo con Cast Away e l’interessante Le verità nascoste, quindi nuovamente cambia genere e prospettive, optando per film che sfruttano la cosiddetta performance capture, infilando una tripletta abbastanza controversa, dagli esiti non del tutto riusciti, Polar ExpressBeowulf e A Christmas Carol, sostanzialmente il più compiuto e coraggioso del terzetto “animato”.

Quindi, tradendo ancora una volta le aspettative, “piomba” nei Cinema con questo Flight, tornando a un film “normale” e iscritto alle coordinate abbastanza mainstream. Anche se va detto, tutti i suoi film sono comunque opere decisamente commerciali, che non rinunciano alla qualità e all’elegante stile, ma pienamente strizzano l’occhio al grande pubblico.

Ecco che, attraverso la sceneggiatura di John Gatins, “classica” e lineare, “pesca” questa storia straordinaria eppur al contempo così agganciata a una vita “ordinaria”, il racconto di un pilota che, durante un volo ad Atlanta, compie una manovra impossibile e riesce miracolosamente a far atterrare il suo aereo, salvando tutti i passeggeri. O, meglio, quasi tutti.

Inizialmente, com’è giusto che sia, viene eletto eroe nazionale, ma dopo cominciano i problemi. Sì, perché appunto non tutti si sono salvati e la commissione d’inchiesta vuole vederci chiaro, avendo trovato tracce di alcol nel suo sangue. Quindi, dopo il magnifico prologo, girato con spericolatezza e inventiva da Zemeckis, il film s’incanala in binari narrativi piuttosto convenzionali e, onestamente, prolissi, fatti di altre sbronze, di una “decorativa” storia d’amore con una nuova fidanzata, anch’ella afflitta da problemi di dipendenze, lei però dalla droga, scenate con l’ex moglie, rimpianti e preoccupazioni per il processo a cui verrà sottoposto. Ma, in questo ripetitivo percorso verso la salvezza, manca pathos e il tutto viene descritto senza particolari guizzi o slanci. Annoiandoci un po’.

Insomma, il film, a mio avviso perde quota e abbassa anche le sue ambizioni, perdendosi in un finale moralista a cui comunque va riconosciuto il merito, “paradossale”, di aver proceduto all’inverso rispetto ai canoni di Hollywood. Quasi sempre, infatti, abbiamo assistito a storie in cui prima c’è la tragedia e poi la redenzione, qui avviene il contrario, e in questo forse consiste, tutto sommato, il valore del film, in questa peculiare originalità. Il miracolo avviene all’inizio, alla fine il personaggio interpretato da Washington fa mea culpa sulla sua condizione di alcolista e si auto-condanna alla prigione. Insomma, non è la tipica storia a lieto fine, è piuttosto, per meglio dire, una storia dal finale ambiguamente buonista in cui il nostro eroe “sciagurato” trova il coraggio di vivere, potrei dire, permettetemi d’ironizzare, con “sobrietà”, accettando la punizione che si “merita”.

Un film per il quale Washington è stato candidato all’Oscar. Lui è molto bravo e carismatico, e si trascina il peso del film per le oltre due ore di durata, anche se è stato più incisivo in altre pellicole, ma stupisce che all’Oscar sia stato candidato anche lo sceneggiatore, perché si limita a un compitino, ribadisco, bolso e fastidiosamente moralista.

Un film, dunque, molto amato in patria, che ha ricevuto più plausi di quelli che invece merita e, nuovamente, ci pone in una condizione di assoluta perplessità dinanzi a Zemeckis.

Detto ciò, la confezione è impeccabile. Ma l’involucro perfetto non sempre fa un grande film.

FLIGHT

FLIGHT

di Stefano Falotico

 

Com’è bello esser definiti folli, cara foll(i)a

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Ora, so che come al solito questa mia invettiva potrà apparire come un j’accuse accusabile delle peggior patenti, quelle che la gente mediocre e ottusa continua imperterrita e irredenta, però di sciocchezza ridente, ad affibbiarmi, perseverando nelle loro ostinazioni “crasse” e discriminatorie.

È il mio genio che riesce sempre a svincolarsene, cercando l’essenza della nostra natura di uomini che, in quanto tali e possessori una libera coscienza, è sano e giusto che siano “matti”, in quanto appunto “proprietari” dell’arbitrarietà di sé stessi, sciolta da infingimenti e altre trappole coercitive della mente che, poiché pen(s)ante, è vivaddio frastagliata, armoniosa nelle inquietudini che non dobbiamo assolutamente celare né reprimere. Esponete con grazia, anche disordinatamente, le vostre stranezze e fatene dono a chi potrà ca(r)pirle senza che possa abbruttirvi in schemi preconfezionati della banalità più frivola, quella che ripudio, combatto, a cui punto il dito con rabbia giudicante, sì, qui il mio giudizio si pone incontrastabile e avanzante nella ricerca del Ver(b)o.

Molti credono che io debba rinsavire mentre il sottoscritto, più avanzano i giorni, e più gode della sua “screanzata pazzia”, attestando la sua indubbia superiorità nel mar di luoghi comuni in cui i fessi affogano, poi strozzandosi, sempre “codesti” assolutamente dormiglioni e non desti, di cibarie fatte di esistenze “goderecce”, canterine, sommerse dall’orpello gelido e arido dell’ordinarietà, della vita nella sua scorrevolezza identica, monotona, sempre prevedibile, borghesemente insulsa. E ballano con stoltezza, prendendo tutto con “leggerezza”, pensando di essere felici quando invero vivono d’imbrogli, di sotterfugi, di cattiverie, di etichette, di maschere lacrimanti, di pettegolezzi, di maligni e malsani sguardi, ed è orrore.

Siate poeti, discostatevi dalle certezze e non riducetevi a fare i “professorini” in cattedra. Siete solo patetici, siete la stirpe che va appunto estirpata con furore.

E leggete i miei libri, in remissione dei vostri peccati.

So che questo mio atteggiamento “altezzoso”, “borioso”, “superbo”, potrà esser tacciato addirittura di scemenza. Ma io so, io ho sempre saputo, cari “saputelli”.

di Stefano Falotico

 

Tutti i soldi del mondo, il trailer italiano del nuovo film di Ridley Scott

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Aggiornato il 14 Dicembre 2017.
Ecco, il vecchio filmato con Kevin Spacey è stato cancellato e sostituito con quello nuovo, in seguito alla piacevole vicenda Spacey, che ha indotto Scott a rigirare tutte le sue scene con Christopher Plummer.

Questo è ciò che dicemmo prima dei fatti accaduti.

Ebbene, le riprese di questa nuova, attesissima pellicola di Ridley ScottTutti i soldi del mondo, pensate, sono iniziate a metà Giugno nella nostra capitale, Roma, ove è ambientata gran parte della vicenda, e a distanza di pochissimi mesi è già disponibile il primo trailer in italiano, in contemporanea con quello originale, per un’uscita prevista negli USA addirittura già a Novembre, in modo tale che possa entrare in lista per gareggiare agli Oscar, anche se, a essere sinceri, il film di Scott sembra più orientato a un versante action da “kidnapping movie” per poter piacere ai membri dell’Academy, molto classici nelle scelte ed esigenti un Cinema forse più impegnato. Ma mai dire mai.

Questa la sinossi ufficiale:

Tutti i soldi del mondo è adrenalinica ricostruzione di un fatto di cronaca realmente accaduto e divenuto un caso mediatico internazionale: il rapimento di Paul Getty III. Roma, 1973. Alcuni uomini mascherati rapiscono un ragazzo adolescente di nome Paul Getty III (Charlie Plummer), nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty (Kevin Spacey), noto per essere l’uomo più ricco al mondo e al tempo stesso il più avido. Il rapimento del nipote preferito, infatti, non è per lui ragione sufficientemente valida per rinunciare a parte delle sue fortune, tanto da costringere la madre del ragazzo Gail (Michelle Williams) e l’uomo della sicurezza Fletcher Chace (Mark Wahlberg) a una sfrenata corsa contro il tempo per raccogliere i soldi, pagare il riscatto e riabbracciare finalmente il giovane Paul. Una vicenda pubblica e privata che sconvolse il mondo per aver rivelato a tutti un’incredibile verità: che si può amare di più il denaro che la propria famiglia. Una storia mai raccontata prima sul grande schermo.

Ridley Scott è un regista molto altalenante, capace di sfornare indubbi capolavori ma anche di alternarli, appunto, a film abbastanza mediocri, risaputi e troppo mainstream. Questo film però sembra affascinante. Una storia tristemente famosa, per un film ambientato nella nostra capitale, con un cast prestigioso, capitanato da un magnetico, almeno così sembra, Kevin Spacey in un ruolo ambiguo e luciferino. Vedremo come sarà. Alcuni fotogrammi sembrano comunque troppo patinati, quasi da spot pubblicitario, uno dei difetti visibili di Scott, che ricordiamolo viene dalla pubblicità e non ha mai perso il vizio, a mio avviso, dannoso e controcinematografico, di rendere troppo estetizzanti alcune sue opere. Da vedere, a prescindere.

UPDATE: adesso, la sinossi è cambiata e aggiornata alla luce degli eventi.

Dal regista di “American Gangster” e “Il Gladiatore”, Ridley Scott. Candidato a 3 Golden Globe, tra cui Miglior Regista, Miglior Attore e Miglior Attrice. Tutti i soldi del mondo è adrenalinica ricostruzione di un fatto di cronaca realmente accaduto e divenuto un caso mediatico internazionale: il rapimento di Paul Getty III. Roma, 1973. Alcuni uomini mascherati rapiscono un ragazzo adolescente di nome Paul Getty III (Charlie Plummer), nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty (Christopher Plummer), noto per essere l’uomo più ricco al mondo e al tempo stesso il più avido. Il rapimento del nipote preferito, infatti, non è per lui ragione sufficientemente valida per rinunciare a parte delle sue fortune, tanto da costringere la madre del ragazzo Gail (Michelle Williams) e l’uomo della sicurezza Fletcher Chace (Mark Wahlberg) a una sfrenata corsa contro il tempo per raccogliere i soldi, pagare il riscatto e riabbracciare finalmente il giovane Paul. Una vicenda pubblica e privata che sconvolse il mondo per aver rivelato a tutti un’incredibile verità: che si può amare di più il denaro che la propria famiglia. Una storia mai raccontata prima sul grande schermo, che arriva al cinema dal 4 gennaio con la firma del grande Ridley Scott.

 

Frank Vincent Dies: ‘Sopranos’ & ‘Goodfellas’ Actor Was 80

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From Deadline.

Frank Vincent, the instantly recognizable actor from The Sopranos, Goodfellas and Casino with a face perhaps more familiar than his name, died today. He was 80. Sources tell Deadline that he recently had suffered a heart attack, and his prognosis was dire even as he went into surgery.

Vincent died in a New Jersey hospital during open-heart surgery, according to reports. His family issued a statement via a publicist this afternoon: “Legendary Actor and accomplished Musician Frank Vincent has passed away peacefully at the age of 80 surrounded by his family on September 13, 2017. We ask that you respect our privacy during this difficult time.”

Vincent played Tony Soprano’s archenemy Phil Leotardo in The Sopranos, one of his many wiseguy roles. He was Billy Batts in Martin Scorsese’s Goodfellas — the “made man” who famously told Joe Pesci’s Tommy DeVito to “Go home and get your f*ckin’ shinebox” — and Frank Marino in the director’s Casino. His performance with Pesci in 1976’s The Death Collector caught the attention of Robert De Niro and Scorsese, and the director offered Vincent a supporting role in Raging Bull.

Among his many credits, Vincent appeared in Spike Lee’s Do the Right Thing and Jungle Fever and played a detective in the 2008 indie The Tested. He had a cameo role in 2009’s Stargate Atlantis.

Born in Massachusetts but raised in Jersey City, NJ, Vincent was the author of the 2006 book A Guy’s Guide to Being a Man’s Man.

According to his official website, Vincent spent his adolescence playing and traveling with various national championship drum and bugle corps, then began playing nightclubs in a small combo. He became a successful recording drummer for Don Costa, Paul Anka, Del Shannon, Trini Lopez and the Belmonts, and made his feature film acting debut in Ralph DeVito’s 1975 Death Collector.

Scorsese later cast him in 1980’s Raging Bull, with Do The Right Thing, Jungle Feverand Casino following. As Billy Batts in Goodfellas, Vincent delivered the “shine box” line that would become one of the film’s most memorable moments.

Vincent also did voice work: He was Don Salvatore Leone in the video game franchise Grand Theft Auto, and was a great white shark in DreamWorks’ Shark Tale.

Just a small sampling of his other film and TV credits include Copland, NYPD Blue, Law & Order, This Thing of Ours and Spy. His IMDb page lists an upcoming 2018 film, Asbury Park, which also includes his old pal and costar Pesci.

Vincent was among The Sopranos cast in 2008 when the show received the SAG Award for Outstanding Performance by an Ensemble in a Drama Series.

Vincent had homes in New Jersey and Florida. Information on survivors and funeral plans was not immediately available.

News of Vincent’s death was first reported by the website The Blast.

 

Oggi è il mio compleanno, quindi mi “diletto” a celebrarmi, con buona pace di chi mi odia

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Sono un essere anomalo, questo si “evince” dal profilo affilato del mio volto “aguzzo” come una mente perspicace solo dove vuole lei. La mia mente vive di emozioni altalenanti, allineate a un cuore che vive conflittualmente i rapporti interpersonali, spesso così portatori di ansie, di frustrazioni, d’inevitabili invidie. La socialità non è il mio forte, ma mi “rincuoro” nella virtuale, aleatoria considerazione che siamo tutti figli di questa terra, a sua volta figlia di puttana. Da piccolo credetti in un Dio barbaro, adesso agnostico non mi taglio molto la barba, sebbene abbia smesso di essere barboso. Sì, sono famoso per la mia insopportabilità. Le mie idee libertarie di solidale convivenza vengon sempre (sm)unte dagli odi di chi fa di tutto per “incriminarmi”, al fine di poter attestare la sua mediocrità a discapito delle mie euforiche baldanze, delle mie malinconie resistenti all’urto delle banalità e dei luoghi comuni, di questo mondo che pare oramai faccia di tutto per amarsi in buonismi, questi sì, repellenti. Rifuggiteli e ruggite di rabbie sane o malate che siano, coltivate lo spirito dissacrante alla John Belushi e ricordatevi che non siamo stati messi al mondo per essere necessariamente felici. Woody Allen sostiene che la vita sia perlopiù un’esperienza angosciante e che, per sopperire ai vuoti esistenziali, alle nostre inesorabili, spingenti depressioni, dobbiamo farci forza con qualche illusione. E in questo anche lui, maestro dei malesseri, è falso e melenso. Invero, credo, lo dico in tutta onestà e anche in tuta, che indosso spesso, che la vita odierna non sia “commestibile”. Preferirò sempre alimentare la mia solitudine “cerbiatta” piuttosto che sorbirmi le cazzate quotidiane di una massa che si accontenta delle superficialità, dei giudizi facili, delle frasi “buone” solo a tirare a campare, cibandosi di mentecatte ipocrisie. Per questo vivo “alien(at)o”, un marziano di soffice (as)petto che trangugia film per darsi lo slancio, e sogna un mare abitato anche da creature marine più cupe di noi. Sì, il mondo è pieno di squali, anche di squallidi, e io sono il Giulio Verne della fantasia, in cui m’inabisso da ventimila “seghe” sotto… La masturbazione, non solo mentale, è un buon allenamento per essere sempre pimpanti, lasciate stare le ambizioni “pompanti”. Vi condurranno al matrimonio e poi, oltre alla gatta da pelare, farete i cagnolini comprando un orsacchiotto a un bambino che, crescendo, vi chiederà perché con lui vi siete sempre comportati da orso. Orsù! Issatevi nell’adorazione di voi stessi e, come diceva Carmelo Bene, fate di voi dei capolavori. I soldi non sono tutto ma se ci sono potete comprarvi una villa con piscina. Almeno, in quell’acqua, avrete un posto in più per nascondere gli scheletri nell’armadio. Ah ah. Ridiamo, beviamo, facciamoci un drink e mangiamoci la torta, preferibilmente al mascarpone con “spicchi” di cioccolato per insaporire i nostri fe(ga)tini martorizzati come un antipasto toscanaccio. Sì, amatemi per quel che sono e non pretendete che cambi. Non fate i preti, io non sono uno strozzaprete buono solo quando la vostra panza chiede da me un sugo appetitoso. Sono un polpettone quando, come Titanic, sono troppo romantico e m’illudo di esser il re del Mondo. Ma so essere Harvey Keitel de L’ultima tentazione di Cristo se vorrete elevarvi a Gesù Cristo e giudicarmi. In buona sostanza, credo nella vita extraterrestre, e sono contento che, ieri, la Juventus sia stata messa sotto da Messi, uno di un altro pianeta. In giro, lo sapete meglio di me, ché non ci vado, è pieno di messaline. Finitela con l’andar a messa se poi siete/state domenica in chiesa e lunedì all’inferno. Vi conosco, sapete? Amate spacciarvi per gente buona quando invero sognate una pornoattrice che alletti il vostro letto. In verità, vi dico, che è bona. E dovete gustarla in modo “liquido”, anche se dovrete sborsare dei liquidi. Personalmente, non me la faccio… sotto, ma sopra potrei. Ah ah.

Sono un uomo vero, tant’è vero iddio, che non esiste. Ah ah. Ne so una più del Diavolo anche se credo che padre Amorth sia stato un ciarlatano. Molti mi mandano spesso a cagare. Un Pursennid che non devo acquistare in farmacia. Vi ringrazio perché combattete la mia stitichezza “occasionale”. Siete un incentivo per le mie stronzate.

Non sono uno stronzo, anche se a esserlo vivrei di più merde “vicine” e “affini” a me. Sarà per questo che sono il solo e unico, inimitabile, di razza pregiata. Anche di rozzo talvolta sofisticato. Ah ah.

Se su Facebook non posso rispondere a tutti i messaggi di auguri, non ve la prendete. Sebbene faccia piacere un grazie, a me oggi fanno più piacere le lasagne.

Siate una besciamella e ficcate, ah ah, le “patate” in for(n)o.

di Stefano Falotico03024119

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I miei primi trentott’anni, storia di un Big Fish, ah ah

Falotico Stefano

Ebbene, il 13 Settembre compirò tali anni. E, nell’evenienza che possa succedermi qualcosa tra il fatidico giorno e domani, festeggio oggi assieme a mio padre, che li compie appunto l’undici. Data in cui, come rammemorerete, furono colpite le Torri Gemelle e si “inabissarono” nel cemento armato della desolazione, per una tragedia di portata cosmica, avendo anche, essa, rovinato le topografie del mappamondo, che da più di un decennio si trovano senza le loro “guglie”, vanto di New York e fiore all’occhiello del quartiere affaristico della Big Apple. Così, per la cronaca… nera.

Mio padre è sempre stato un tipo strano, poco loquace eppur capace… di mille follie. Da giovane era sufficientemente scapestrato per capire che avrebbe dovuto infurbirsi se voleva sopravvivere in questa giungla metropolitana. E, dal paese natio, si trasferì nell’avara, avida, gra(da)ssa Bologna, ove “sperimentò” sino alla pensione un lavoro che poteva soddisfare la fame di suo figlio, cioè me, qui “incarnato” in tal scritto nostalgico eppur aperto a lampi di euforia che spero non vi contagi. Dovete rimanere ancorati a una visione tetra e angosciante della vita, mentre le mie fantasie, spesso proibite, ostracizzate, potrebbero farvi vedere l’esistenza sotto un’ottica meno tristemente (r)esistente, e ciò potrebbe non indurirvi ma indurvi a prender in mano le re(di)ni dei vostri schienati (di)lemmi e comprendere che, al di là delle religioni, non avrete altra vi(t)a oltre a questa. Per cui sfruttatela, incanalatela nelle vostre passioni e, se una donna vi prende per il culo, fate altrettanto. Non nascerà un figlio ma sarà una sodomizzazione bella tosta com’è appunto la vita te(r)sa nello scioglimento di pene…

Che dire di me? Poteva andare decisamente meglio, ma poteva anche “non andare”. Sebbene sia nato a metà Settembre, quindi vergine ascendente, non sono vergine deficiente. Infatti, in una notte “losca” da lupo mannaro, una donna sbranò la mia innocenza, “ficcandoselo” di “maniere forti”. Fu una violenza sessuale che non denunciai perché comunque ne godetti, sebbene fu fatica entrar in quella fica. Ancor oggi ne patisco l’attrazione fatale…

Oggi, dopo tribolazioni, costipazioni, periodi anchilosanti e melanconici “peggiori” dei capolavori più malinconici di Takeshi Kitano, ho trovato la mia dimensione, cioè quella di un uomo spesso “uovo”, cioè strapazzato dalla massa sociale e dunque, per reazione allo schiacciamento di coglioni che siete voi, asociale tanto da essere eremitico con punte di miticità non da po(r)co. Siate parchi coi sol(d)i e fumate nei parchetti, verrete forse arrestati per uso della canna ma momenti di “gioia” tracannerete senza la rottura di palle delle donne, che poi diventano spesso e “volentieri” delle cannoni. Se proprio non volete (s)fumarvela, mangiatevi un cannolo. Che sia cremoso, gustoso, della vostra lingua “smanioso”. E siate piccanti se davvero, “trasgressivi”, vorrete “venir” peccanti.

Molte sostengono che sia misogino. Non è assolutamente vero. Amo indistintamente, senz’eccezione alcuna, tutte le donne. Infatti, affinché il nostro mondo si salvi, spero brucino tutte… all’inferno. Per questa mia affermazione mi considererete, voi del sesso “debole”, un infermo di mente. Invece lo dico per il vostro bene e per preservare la razza umana da più pesanti catastrofi. Pensate ai divorzi. Quanti figli ne hanno “giovato”…, scoprendo cosa può esserci di “straordinario” fra due genitori che non litigano ogni giorno. Litigano solo in tribunale…, e vi passano anche l’assegno di mantenimento. Cosa volete di più? Una donna, appunto? Per quella c’è sempre tempo. In giro è pieno di zoccole. Se invece siete degli idealisti e non credete nella prostituzione, datevi al porno. Un modo sanamente masturbatorio appunto per non divorziare quando “verrà”… quel che “viene” sempre, a meno che non soffriate di eiaculazione tardiva, al che dovrete far i conti con una donna anche prima che l’avrete tradita.

Da queste ciniche mie “osservazioni”, si deduce, cari duci, che sono anche misantropo? No, ma il fisico Stephen Hawking, uno a cui, a causa della distrofia, manca il fisico vero, ha stabilito che ci estingueremo entro il 2050. Lui non ha problemi in ogni caso. Pare che non gli “tiri” da molto tempo, quindi non gliene frega un cazzo…

Ah sì, dovrei vergognarmi per queste esternazioni davvero cattivelle, ma si sa, la vita è una e una SOLA. Mettete l’accento dove volete. Se vi sentite sole, care donne, sappiate che io non mi sento solo e che il “mio” per voi non sarà solido.

Fuori, dopo la tempesta, c’è il Sole. Insomma, non cambia niente eppur campo/a.

Spesso, per nascondere le mie “patetiche” depressioni, invento storie ai confini della realtà. Sono sempre meglio della Bibbia. Che vi ha raccontato un’immonda bugia da millenni a questa parte e poi, ipocriti, avete votato Berlusconi.

Ho ordinato una torta col “buco”. Poi ancora un’altra… e un’altra ancora. Quanti “buchi”.

E che leccate…

Su, non siate troppo seriosi, siate brillanti e ficcanti, cari cazzoni!

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di Stefano Falotico

 

Big Fish, recensione

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Parto col dire, sebbene ad alcuni possa interessare e ad altri decisamente meno, che sono un narratore di storie, quello che gli americani definiscono uno storyteller. I miei romanzi, apprezzati o meno, s’impongono, oserei dire, il tentativo, chissà se riuscito o fallace, di far immergere il lettore in avventure spericolate, articolate in una prosa energica, avvolgente, poetica, neo-gotica, ai confini della realtà e poi subitaneamente “crogiolante”, anzi, “gocciolante”, in attimi sinceri di realismo poetico e magico. A metà strada fra la realtà, che può essere miseranda, abietta e cinica, troppo opprimente e castigante la coscienza, contagiosamente vitale, oppure sognante nel far sì che venga trascesa, superata dalla più ardimentosa, “intraprendente”, creativa fantasia vulcanica. Li trovate in vendita se “circumnavigherete” online il nostro web irto di pericoli e al contempo incantato, o forse solo “incatenato” al profluvio inarrestabile di articoli e immagini su cui vi lascio naufragare con dolce mestizia e irruente curiosità.

Questa parentesi personale per affermare che, a mio modo, nel mio mondo, sebbene non mi faccia impazzire, sono un estimatore di Tim Burton e a lui quasi son imparentato per affinità elettive, gemellate di DNA che preferirà sempre alla soffocante “normalità” il gusto per la ricerca di storie che travalichino la mera, anche fasulla, capziosa e ingannevole, “mentitrice” vita di tutti i giorni, per proiettarsi e piroettare laddove esistono, e spero sempre ci saranno e di lor magma vivano eternamente salvifiche e rigeneranti, catartiche e acquiescenti, storie incredibili.

Da molti, questo film è considerato il suo capolavoro, ma non so se lo sia, e allo stesso tempo, però, non riesco a smentire il fatto, per molti appunto ineludibile, che Big Fish sia la summa più sincera e forse più “realizzata” di tutte le sue precedenti opere.

C’era una volta, anzi c’è… un uomo malato che per tutta la sua vita ha raccontato “cazzate” e inventato eccentriche storie immaginifiche per celarsi, oserei dire, fuggire da una vita “normale” di banalità. Al suo capezzale giunge il figlio, preoccupato della sua salute, che almeno in punto di morte vuole finalmente scoprire quale vero uomo si nasconda sotto questa “corazza”, questo cumulo, certo affascinante ma “finto”, di bugie, chiacchiere e favole. Egli ricorda, rimembra quel che il padre gli narrava quand’era piccolo e anche dopo, quando oramai l’età della ragione, della “maturità”, della presa di coscienza della condizione umana aveva fatto “crescere” inevitabilmente il suo animo di bambino esploratore dell’inconscio, della purezza, della fascinazione allo straordinario e all’irreale fantastico.

Quante storie, bizzarre, folli, come quella della strega pazza con l’occhio di vetro che ti mostra la tua morte, quella del gigante alto cinque metri, quella dell’uomo lupo mannaro, quella delle gemelle siamesi coreane.

Il figlio, forse, alla fine, realizzerà che ha fatto bene suo padre ad aver vissuto sempre di fantasia. Perché fra la versione “normale”, anonima e insignificante della vita nel suo “insulso” scorrere, è decisamente meglio, più bella quella surreale, mitologica, al di là della vita, bigger than life.

Il film, lo scopriremo nei minuti finale, diventa così anche un vero e proprio inno alla vita e soprattutto all’amore, una dichiarazione verso questo sentimento misterioso che in noi scatena tante battaglie interiori e conflitti spesso duri.

Un’esplosione, non sempre riuscita ma fortissimamente fascinosa, di vitalità, di esuberanza, di goticismo qui addolcito da Burton in sprazzi solari di ambientazioni perfino pop, colorate, variopinte come un arcobaleno fiorito. “Ingenuo”, ipnotizzante.

Da vedere.

di Stefano Falotico03024110

 

Twin Peaks, episodio 18, gran finale di stagione

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Ebbene, ardimentosi ammiratori sfegatati che avete seguito quest’opera magna sin alla fine, contrastando chi definisce Lynch un artista oramai senile e “troppo lento”. Noi ci siam incantati dinanzi a questo capolavoro “interminabile” che è finito o forse no. Una chiusura del cerchio che lascia aperte, come volevasi dimostrare, incognite abissali. Cooper diventa Richard e Diane… Linda, mentre “resuscita” Laura Palmer che vive in una “casetta in Canada” sperduta nella provincia più lercia di peccati e anonimato. Cooper la vuole riportare indietro, a Twin Peaks, ove l’incubo-sogno è iniziato, e sarà una lunga notte pervasa dal silenzio, dai tremolii di ricordi che si smarriscono nella coscienza. Giungono a casa, ma la casa non è abitata da Sarah Palmer, o forse sì. Il nome di Laura echeggia spettrale nel buio più minaccioso e Laura si “sveglia”, urlando spaventosamente. Cooper non sembra più lui, qualcosa di Dougie Jones gli è rimasto addosso e cammina, nelle scene finalissime, come uno zombi. Che siano rimasti intrappolati in una realtà parallela ove il Male esiste, esisterà sempre e non si può sconfiggere? Laura lo capisce e agghiacciata grida all’impazzata, mentre quelle paroline all’orecchio… lasciano il dubbio nei mesmerici titoli di coda. Apoteosi della bellezza, richiamo alle nostre origini umane, dunque sognanti.

di Stefano Falotico

 

Twin Peaks, episodio 17

A me la normalità non è mai piaciuta e quindi mi estasio con Lynch, che decompone la realtà per farne materia eterea di un sogno grandioso e luccicante nell’immensità dell’enigma fatto fotografi in movimento. Non c’è storia che tenga, e cercare spiegazioni possibili è un rompicapo che cozza contro i deliri lynchiani, con la sua visione sempre commovente e sp(i)azzante della vita, un gioco onirico che ci ha accompagnato fin qui, alla penultima puntata, in un continuum spettrale di specchi immaginifici che si son rincorsi nelle notti buie e misteriche, magmatiche di Twin Peaks, il lido incantato ove la spensieratezza e il “fanciullismo” si scontrano con l’opacità della crudezza, con le sue malinconie smodate, enfiate, dilatate come rose nel deserto in cerca di una sorgente salvifica. Attimi di suspense interminabile alternati a personaggi nonsense, che biascicano, vomitano cazzate, hanno comportamenti assurdi, e in quest’astrusità si fa vivo e purpureo Lynch, che ancora una volta pare che ci ammonisca dal vivere secondo ragioni logiche, secondo la “sensatezza” di una quotidianità banale da cui è sempre rifuggito, che l’angoscia, che l’atterrisce, schiena, e probabilmente attraverso cui, essendo comunque una persona umana, inesauribilmente attinge, se ne “att(r)acca” per distaccarsene, per afferrare pezzi di mattini e lune piene, fertili d’immaginazione poetica. So già, pur non avendolo ancora visto, che il finale di questa serie capolavoro non risolverà nessun mio dubbio, e tutto viaggerà nella sospensione metafisica di un giudizio certo. Sarà un altro inganno alle nostre coscienze “equilibrate”, un altro squarcio nell’oscurità della “giustezza”, se mai esiste. Lynch non discerne, non spiega, non applica demagogie della visione, non è lineare, non è mai chiaro, è chiaroscurale, lascia che la follia sprofondi in immagini liriche, e veniamo sopraffatti dal gaudio e dalle meraviglie, laddove i suoi effetti speciali sono demodé e paiono essere usciti da un videogame di prima generazione, e invece sono calcolati, immagini pittoriche che si stagliano impressionanti, quadri alla de Chirico immersi nel tourbillon magnetico di qualcosa di liquido e inafferrabile. (Non) ci svegliamo e, paralizzati dalla pazzia, sconcertati ne rimaniamo arrestati, imprigionati in questo trip allucinogeno di sconfinata bellezza.

 

di Stefano Falotico

Kyle MacLachlan, Laura Dern and David Lynch in a still from Twin Peaks. Photo: Suzanne Tenner/SHOWTIME

Kyle MacLachlan, Laura Dern and David Lynch in a still from Twin Peaks. Photo: Suzanne Tenner/SHOWTIME

 
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