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Twin Peaks Revival Episodio 14

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Stiamo giungendo al termine e la visione sta materializzano al completo il puzzle allestito scrupolosamente da Lynch, che qui sogna addirittura la Bellucci, materializzata in una maturità espressiva da zitella in vis(i)ta a Parigi, e nel digitalizzare sé stesso, Kyle e David Bowie (!) in una sequenza onirica da applauso meritato. Kyle compare solo “artificialmente” in quest’episodio al solito mesmerico, ove scopriamo l’identità del “maggiordomo” fuochista e l’intelaiatura dell’ingarbugliata vicenda assume contorni più precisi. Nel sottofinale, echi di Nightmare, col controllo dei forni (forse crematori?) e una sequenza subito horror di fotografia sporca, come se la scena fosse stata filmata da una videocamera 8 mm degli anni ottanta. Tutto bellissimo, ip(n)otizzante, lynchiano al cento per mille di altro rivederlo e, rivedendolo, far clap clap di occhi “strangolati” dallo stordimento.

di Stefano Falotico

 

The Wizard of Lies, recensione

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Parte placido, interrotto già dalla suspense repentina questo serpeggiante, nuovo TV movie di Barry Levinson, per la prestigiosa HBO. Fortemente voluto, nonostante molte difficoltà produttive, dal suo interprete De Niro e dalla sua socia in affari Jane Rosenthal, si staglia prominente nel desolante panorama moderno per la sua indubbia veridicità e la tensione che si respira in ogni fotogramma. Asciutto, levigato, qua e là bolso e soporifero come la recitazione di un De Niro talmente “assorto” nel personaggio da esserne quasi estraneo, sopraffino per la fotografia acquosa e increspata, un ottimo esempio di Cinema alla televisione, “dilatato” a due ore per esigenze capibili. La Pfeiffer è bravissima, rende al meglio il dolore della sua Ruth con passione e perfetta adesione al ruolo, divisa dall’amore incondizionato per un marito rovina-famiglia e la sua voglia di fuga da una realtà imprigionante, che la rende schiava dell’insopprimibile giudizio “superficiale” della gente pettegola e maligna. Nivola fa il suo dovere di figlio iper-sensibile, modellando un uomo oberato dalla figura “idolatrata” dell’idolo paterno, bluff colossale che lo “impicca” nella sospensione dell’incredulità. Molti dubbi rimangono dopo la visione e forse Madoff non è Ted Bundy ma egualmente un monster di proporzioni titaniche. Sofferente, lancinante nella sua apparente impassibilità introspettiva come un De Niro languido nel suo tramonto inesorabile e micidiale.

di Stefano Falotico

 

Twin Peaks Revival, episodio 12

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Lo so, l’episodio undici è uno dei migliori di questo nuovo capolavoro di Lynch, summa del suo stile inarrivabile e da molti incompreso. Mi sarei soffermato sullo strepitoso Belushi imbolsito oltremisura e sul commovente finale con Dougie Jones che dà la “salvazione” ai due disperati gestori del casinò. Ma Las Vegas non mi compete, e preferisco “glissarvi”, sorvolando sulla sua magnificenza per approdare a un episodio più pacato, in sordina, come si suol dire, ove si staglia per pochi minuti indimenticabili la figura vecchia e spaventosa di Sarah Palmer, una Grace Zabriskie quasi irriconoscibile spuntata dalle tenebre delle sue agghiaccianti espressioni facciali. Lynch, che recita “urlando”, fa le sue scene, in punta di piedi. Ma ecco lo sceriffo Hawk che s’impossessa del suo magnetismo e viaggia per le lande di Twin Peaks col suo carisma ieratico, freddo, da calcolatore che ci riserverà sorprese. Al bar Bang Bang solite storie di corna, mentre la musica, quasi come sempre, scandisce il finale di un’ora, un’altra, da incorniciare. Lynch spiazza sempre, ecco che compare anche un’abbruttita Fenn con suo marito nano, altra perla per cinefili e chi apprezza le cose buone. Il telefono “ringhia”, profuma di mistero e cala il sipario su un altro episodio, l’unico ove Kyle appare solo di sfuggita in modo esilarante, col suo memorabile Jones, svampito, rintronato. Geniale.

di Stefano Falotico

 

Le vite proprie, pie, o non vi(t)e

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Molti rimangono sconvolti dal “fallo” sesquipedale secondo cui, nonostante la mia età e una sopraggiunta iper coscienza, dovuta a molte letture “svolte” e patimenti inflittimi, dovuti, cercati, sul mio sentiero incappatimi, non abbia una cosiddetta “vita mia”. Nel senso che, come Bukowski, se non saltuariamente, non concepisco il lavoro e non mi attengo a qualsivoglia dettame sociale, vivendo di regole personali, di una disciplina ronin di adiacenza alla chete e poi alla frenetica tempesta, sebbene abbia acquietato molti di questi slanci rabbiosi, incanalandoli in una moderata compostezza che fa spavento. No, credo di essere una delle persone, poche a dire il vero e poco porche, molto di generosità parco, ove non fumo le canne, che non ha un’attività “produttiva” per la collettività. Rimango sempre stupefatto dai tanti che hanno intrapreso la “strada” di ragioneria, o peggio d’ingegneria, e mi stupisco dei tanti “costruttori” di questo mondo. Gente che vuole sempre questo maledetto “progresso” e forse non ha mai imparato la lezione zen(it) del vivere. Dunque, per molti sono morto, ma mai invece come in questi attimi faccio dell’insopportata solitudine da parte degli altri un motivo di fiera dignità. Poiché ho addomesticato quelle ire che tengono “vive” le persone che si cibano di chiacchiere, sempre sul pezzo, soprattutto di merda, e annacquano, a mio avviso, in una zona, questa sì, già giacente da tempo nelle profondità dell’idiozia. Eppur rido, facendo della poesia un vanto, anche un vaniloquio che sa di me stesso. Cari ossessionati dalla vita “propria”, rendete la vostra vi(t)a un capolavoro, invece che (in)seguire le assurdità farlocche del chiasso e del caos.

di Stefano Falotico

 

IT, considerazioni sul trailer e sul Club dei Perdenti

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Esce questo filmato e, a giudicare da queste immagini, gelidamente conservatrici di una censura e di un gusto mainstream, non credo sarà la trasposizione vibrante paura e suggestioni che ci aspettavamo. Sa di più di forte compromesso per contentare un piacere medio di facile consumo. Ma forse mi sbaglio e non mi resta che attenderlo. Vorrei inoltre arrestare le mie inquietudini, soffici alle volte come un fiore germogliante nella spensieratezza dei miei candidi ormoni, dure alle altre come un orgasmo strozzato, ma in fondo chi se ne frega. Le mie avventure letterarie continuano imperterrite in quest’estate scodinzolante le sue gioie marine laddove io non ne giovo, essendo un “infreddolito” ometto che cammina col giubbotto anche a quaranta gradi per proteggermi dalla gente sparlante e dagl’inevitabili spifferi che ne derivano. Attingo alla poesia al(a)ta nei giorni di po(r)ca chete e mi rallegro a pen(s)armi enormemente altero rispetto a una massa alterata, sempre compressa nel giudizio altrui, nell’affaccendato lavoro che (non) paga, avvolti da frenesie che a me scompensano e lasciano sbalordito, dunque sbiadisco e dinanzi a codesti anche sbadiglio, rimanendo e remando “sbagliato”. Sbavato come Tartaglia, alle origini delle mie emicranie e del godimento stranamente succoso che ne provo, allontanandomi “bambinesco” in zone del mio inconscio creatore d’incubi (mal)sani. Incompreso, intavolo conversazioni “convesse” col mio “ottuso” che (mi) pare, e così “inetto” appaio mentre ieri o oggi (de)corre a Siena il Palio. Non sono cavallo vincente, ma un “callo” per la società che non mi capisce e in faccia mi piscia. Ma così va la mia fantasia, meglio star remoti dalle zie e preferire il proprio maremoto. Valico monti e tante scuse avvallo, restando nella mia di “lacrime” valle, ammontando balle, anche di fieno. Sempre meglio che le vostre lune di fiele, care fiere così fiere di esser ferine. Voglio anch’io un felino, ma detesto Fellini, provinciale di un mondo che non credeva agli alieni. Andrò da Mikele Illagio a spos(s)ar me stesso, facendo battute, e non battone, “volgari” come De Niro di The Comedian.

Nella satira galleggio? Meglio che nella fog(n)a.

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di Stefano Falotico

 

Attimi di poesia inesausta, forse nefasta

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Gli eventi della vita, anche se negativi, ti fortificano. Giungono notizie che dovrebbero abbattere il tuo morale e invece, nella complessità della lor assurdità e degli strani (di)segni del Fato, alle volte paradossalmente misericordioso, t’illuminano per guidarti in spazi confinati di altera, fors’anche alterata, libertà. Una libertà maestosa che io sviscero, enucleo, enuncio ampiamente nella poesia, nella creazione di qualcosa di nuovo. Molti, che mi conoscono approfonditamente, non essendosi limitati a visioni paralizzanti e assai limitate, pregiudiziali, mi considerano un genio, e io in tutta modestia non so se appartenere a questa fascia di luminari. Mi mantengo integro, e la mia integrità morale mi serve di slancio, per non corrompermi in una società ingorda e cinica che vorrebbe, violentemente, con gli abusi e ricatti più biechi, annetterti alla comune massa, mangiatrice cazzate, puttanesca, cinica laddove non occorre, spezzante il tuo io più artistico e dunque illibato, pulito da tanto chiasso, dall’isteria che invece par muovere la gente verso la frenesia più raccapricciante. Sì, con gli anni, dopo tante sofferenze, patite, indotte o non “importanti”, mi son creato equilibri grandiosi, ariosi, fantasiosi, nella scrittura, un modo che ho per imprigionare i miei dubbi, le mie angosce esistenziali, per cementarmi in qualcosa che sia vita pura. Osservo con riluttanza e repulsione quelli che sono diventati dei burocrati delle notizie, e hanno trovato, o si sono “inventati”, lavori da “giornalisti” delle news più effimere, di quelle “cose” da leggere per distrarre soprattutto la loro noia. E rimango basito, turbato, esterrefatto da quella finta compostezza che elargiscono “educatamente” nel dispensare pillole di “verità” inesistente, vivente, dunque morente, di “dignità” vacue, maschere che indossano per farsi accettare. Com’è bello invece non farsi accettare bensì acquietar sé stessi nel “nuoto” anche delle disperazioni, frusciare nel marasma, acchiappare istanti di creatività e porgerla gentilmente a chi s’apprezzarla, libero, come me, da infingimenti, da schemi castranti, da miopie percettive, da quelle distorsioni borghesi che paiono invece contentare tanto l’uomo medio, assorbito dal traffico, dall’ilarità secondo me più mortifera, da quel vivere osannando velli d’oro, sbandierando “vessilli” figli di una cultura arrivista e, in fondo, menefreghista del prossimo. Avidi progetti del mio magma mentale mi “assistono”, preservano dal porcile, e spero presto di potervi donare altri libri, liberi, di mio scibile, che non è mai presuntuoso, che umilmente non ha nulla da insegnare, che non è retorico, che non è mai banale anche quando “parla” di banalità e di “infime” quotidianità, così detestate appunto dall’uomo conforme allo schifo “capitalistico” e da caporali in generale.

Così, in questo periodo denso d’incognite, anche di sfilacciamenti della mia coscienza, sempre cercatrice del vero, rinvengo una recensione del mio Il cavaliere di San Pietroburgo…

A tratti ricorda Il profeta di Gibran, in certe parti c’è la suspense creata da un abile scrittore di gialli. La pagina 83 (cioè l’inizio del capitolo 12) è di straordinaria poesia. Alcuni riferimenti “personali” si trovano già in altri suoi scritti ed interrompono la tensione, perciò, a mio avviso, inopportuni. I libri di Stefano Falotico poi, si possono interpretare, paragonare, confrontare, sviscerare come il dibattito di un cineforum: una qualità difficile da trovare in altri autori anche più quotati. Assolutamente da leggere.

di Stefano Falotico

 

Fuori Orario di Scorsese, che genio

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Ora, non molti lo sanno eppur qui lo asserisco e nelle mie ex follie mi “reinserisco”. Ah ah. Mi ricordo tempi lunatici, di forti turbamenti esistenziali, in cui vissi molto di notte, allunandomi, anche allucinandomi, da vampiro, e vivendo di brade euforie mischiate alla melanconia in quella “brughiera” che fu la mia (non) adolescenza. In quel periodo, esagitato, nottambulo appunto, da un certo punto di vista esecrabile perché troppo non allineato o, paradossalmente, troppo conforme a una sorta di compostezza comportamentale avvicinabile alla “scemenza”, guardavo film che allietavano il mio stato d’an(s)imo. Così, in una sera calda di tal tempeste shakespeariane del mio essere e non essere, rinvenni uno dei capolavori di zio Marty, un incubo kafkiano di genialate impagabili. Tutti noi, chi più chi meno, una volta nella vita, ci siamo sentiti sfasati e in dimensioni non nostre, precipitando fra persone che di te fraintendono tutto, dandoti una caccia spietata allo sc(i)occar della Luna. Sì, come Griffin Dunne, anonimi uomini nella giungla metropolitana di una città tentacolare, inghiottente le tue purezze e scalfente la tua “ingenuità”. Ma che bellezza straordinaria questo film, coi suoi scorci bui, al neon, i baristi stressati e schizzati, gli intellettuali rincoglioniti, le donne castratrici, gli inseguimenti a perdifiato, che atmosfera. Questa è vita, insomma, tutto in una notte. Al bando la noia.

 

di Stefano Falotico

 
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