Twin Peaks il Ritorno, recensione episodi 3 e 4
Ebbene, innanzitutto lungo preambolo personale “a ragion veduta” del mio cerv(ell)o lynchiano, “onomatopeico” in congestione, confusione, unione carnale, dunque metafisica col mio David più vero. Infatti mia nonna di cognome faceva David anche se lei pensava fosse discendente di quello contro Golia. Un gigante David, non un nano, sebbene la Loggia Nera ne ospiti parecchi. Ecco, io bandirei il lavoro dalla società, che obbliga i nostri figli più puri alla schiavitù e al mercimonio delle anime, pun(g)endole in alienazioni figlie del “reddito pro capite” più triste. E decapiterei tutti quei nazisti-fascioni che non comprendono, anzi comprimono, gente come il Michael Cera/Wally Brando. Evviva lo “sgommettare” della sua on the road, affiliata al selvaggio primigenio del suo cor(po) impuro, sguaiato, sguinzagliato come musica rock tra fosche “nebbie” di una vegetazione malinconica al suo dolore, odore esistenziale.
Questo lavoro che avvelena le persone e le rende “timbratrici” di cartellini impiegatizi, ove l’anima viene misurata in base a una fasulla “produttività” capitalistica che annienta le individualità. Burocrazia, io ti maledico. Molti credono che gente come Lynch, “deviata”, andrebbe curata dagli psichiatri. Lynch e la psichiatra sono lontani anni luce, David, come me, vive di una branca tutta sua e io disdegno, come Lynch, il branco, in mio (di)segno divino e autoriale del vederla come cazzo mi pare. Fra squarci lirici e forse due lire, con un Euro in tasca ma molta fantasia, non arrancando appunto in lavoretti che reprimerebbero il mio (D)io più sincero, più sincretico al piacer anche cutaneo di passeggiarla con meditabonda allegria, allergico/a alle regolucce e agli schemi preconfezionati della cultura di massa, ammazzante la voluttà. Io non ho volontà, ma volteggio di mio scibile sibilante negl’interstizi di uno “stronzo” saggio, sanamente agganciato al delirio, a questo De Niro che sa molto di Badalamenti. Meditate, dementi, non imprigionatevi nell’idiozia. Aprite la mente.
Questa non è una recensione, è molto di più.
di Stefano Falotico
Twin Peaks, recensione del secondo episodio
E qui mi fermerò per non annoiare nessuno con le mie “faloticate”. Ma me la gusterò, sparandomi, sì me le sparerò, tutte le altre puntate
L’agente Cooper, da non confondere con McConaughey di Interstellar, eh eh, si trova imbrigliato ancora nella Loggia Nera, fantasmaticamente posseduto dal suo doppio, il fantasma di Bob, che riappare “oscuro” in analessi di suggestione lynchiana, a ricordarci che la storia continua e forse, temporalmente, senza spazio preciso, è infinita. Passeggia nervoso e un “albero della vita” gli fa rimembrar il chi era, il chi fu, il chi è, il chi (giammai) sarà, intrecciando la sua lost highway nel marasma di una confusione lisergica ove la trama nonsense acquisisce raffinatezza a ogni fotogramma asciutto. Ecco che spunta Laura Palmer, con la voce spezzata dalla morte di un al di là che ha la stessa valenza “vampirizzante” della già cult “Shadow”.
E poi mi sorge il dubbio permanente. Lynch non si discute ma la main theme di Badalamenti regalerebbe capolavori a chiunque. Una musica che, “affiliata” alle cascate, sa di immenso.
di Stefano Falotico
Twin Peaks, recensione del primo episodio
Ebbene, siamo tornati tonitruanti a Twin Peaks e Dio benedica David. David chi? Lynch, naturalmente, colui che sinuosamente, muovendosi fra i “serpenti” della sua rete percettiva “malata”, crea opere per le nostre sinapsi addormentate da troppo mal di stomaco e “gusto” di massa. Egli elabora storie senza storia, provenendo da un universo senza tempo, in cui forse è l’incarnazione della scatola di vetro che un ragazzo ingenuo osserva fra i fantasmi del suo riapparire allucinante e allucinogeno. Scorre poesia dell’incanto in quest’ora frastornante, slabbrata, piena di primissimi piani esasperanti ove il weirdo la fa da padrone e, come il fantasma di Bob, vampirizza carismaticamente il flusso liquido di questa spettrale meraviglia. Siamo dalle parti di Eraserhead, anche nelle sue “pareti”, nelle particelle dell’Inland Empire di Lynch. Una trama senza trama, senza direzione, slanci onirici e la Loggia Nera con un “maggiordomo” da Famiglia Addams in un bianco e nero magnetico di potenza arcana come un fire walks with me di anni novanta arroventati nella nostalgia. E Badalamenti fruscia tra rumori metallici e il nostro “imbarazzo” di fronte a tale “lentezza”, a tale abbagliante bellezza.
TWIN PEAKS – Terza Stagione, la recensione del primi episodi da Sentieri Selvaggi
Qui.
La serialità televisiva, lo diciamo e ce lo dicono continuamente, sta vivendo la sua età dell’oro. Ogni anno, in un’alienante catena di montaggio narrativa, sono scritti, prodotti e cancellati centinaia di show e serial, con un’impazienza di successo e una fame d’intrattenimento che sta degenerando in una inflazione creativa. La ricerca ossessiva verso il Sacro Graal del nuovo prodotto “iconico” non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione di resuscitare lo show da cui tutto ebbe inizio, quel Twin Peaks massacrato dall’ABC e cancellato improvvisamente venticinque anni fa, diventato l’emblema di un nuovo modo di concepire la televisione. Il gusto nostalgico verso il revival (con questa snervante serie di sequel, prequel e reboot che non ha risparmiato nessuno, da Alien a Blade Runner, passando per il prossimo inevitabile Indiana Jones) e il terrore dell’inedito che tormenta i sogni commerciali di molte case di produzione sono stati solo due altri buoni motivi per considerare l’idea di una terza stagione di Twin Peaks.
Showtime ha avuto così il merito di esaudire il sogno di milioni di cinefili e appassionati, garantendo a David Lynch e Mark Frost la possibilità di tornare alle soglie della Loggia nera per riprendere il racconto e chiudere il cerchio. La scelta produttiva del network non è stata certo spassionata e mossa dal desiderio di nobilitare l’arte di uno dei registi più importanti degli ultimi decenni. Il battage pubblicitario, il furbo riserbo sui dettagli della trama o il casting mastodontico con i vecchi protagonisti e nuove star pronte al cammeo, sono trovate che testimoniano il desiderio di Showtime di cavalcare il fenomeno fino in fondo, pronti a giocarsi l’arma finale con cui vincere la battaglia annuale della serialità. Purtroppo per loro, le ambizioni di Lynch sono diametralmente diverse e hanno generato un (im)prevedibile e spassosamente delirante salto nel vuoto. Il regista, oltre le motivazioni economiche, rivendicate con candore infantile, non è interessato ad accarezzare il pubblico (né dei fan, né dei nuovi potenziali spettatori) con trovate accomodanti. Il risultato sono questi due episodi iniziali, oggetti difficilmente classificabili nei canoni televisivi attuali.
Lo spettatore abituato a un intrattenimento muscolare con ritmi frenetici, amante trame dalle migliaia di domande corredate dalle inevitabili risposte e appassionato di prodotti perfetti, dalla recitazione al comparto tecnico, cosa potrà dire di fronte a un non-show genuinamente sgraziato, così disinteressato al suo giudizio, al suo apprezzamento? Il nuovo Twin Peaks, in un immaginario comune che considera iconici Breaking Bad, Il trono di spade e True Detective, si pone davvero in un altro luogo, in un’altra competizione. Lynch sa che non può certo competere con narrazioni costruite scientificamente sui metri di giudizio e sulle esigenze veloci di un pubblico superstimolato. Ecco, dunque, spiegato il suo desiderio di ostentare il kitsch, le atmosfere stonate, gli attori invecchiati, gli effetti speciali pacchiani. Anche lo sberleffo della nuova quest “gialla”, di un delitto talmente orribile da parodiare le trovate di chi, inseguendo l’esagerazione più cruenta, sfocia nell’auto-referenziale, è l’ennesima mossa di un autore che prende drasticamente le distanze.
Lynch, infatti, sin dalle prime scene, liquida i punti in sospeso con il passato e lascia libero la propria potenza creativa, una capacità immaginifica che, forse, non trova nella tv il suo medium ma rimane ad ogni istante di una forza abbacinante. David Lynch rispetto alla nostra tv, alla nostra serialità, non solo è altro ma è L’Altro. Lui è un’entità senza tempo e senza spazio, uscita da qualche Loggia e arrivata sul palcoscenico più mainstream per mortificare le nostre aspettative bulimiche, il nostro bisogno tossicodipendente del nuovo evento da condividere, del nuovo personaggio “cool” da idolatrare, della battuta sagace da ripetere tra gli amici. La nuova stagione di Twin Peaks, di fronte, al Giudizio della Gente, uscirà probabilmente massacrata. Siamo sicuri che questo sia un problema per Lynch? Non è difficile immaginarcelo ridere di gusto di fronte ai tweet e ai post saccenti di chi si aspettava altro, forse True Detective 3, e si ritrova di fronte tutto questo! Con una sola semplice mossa iniziale Lynch sembra non solo rinnegare lo stato cult delle prime stagioni e quel retaggio che ha attraversato la televisione degli ultimi due decenni ma sabota dall’interno tutti i meccanismi di un’industria narrativa che, mai come oggi, sta mostrando tutti i suoi limiti, in opulenza decadente più da fine impero che da eterna età dell’oro.
I nuovi episodi di Twin Peaks diventano così il modo perfetto per guardare in faccia le nostre esigenze superficialità da pubblico cannibale. Una lezione che, qualsiasi sia il suo esito commerciale e critico alla fine del viaggio, segnerà un punto di non ritorno sui destini dell’industria televisiva e nella narrazione seriale.
Twin Peaks – Deadline Review
After all the hype, anticipation and secrecy, Twin Peaks is finally back. But WTF was that premiere that just aired on Showtime all about? With Kyle MacLachlan back as FBI Agent Dale Cooper and more, the first two parts of David Lynch and Mark Frost’s new 18-part installment was weird, sometimes intentionally tedious, and amazing at the same time – and something you have to watch.
As I say in my video review above, there are a lot of perfumed tea leaves and dank soil to rummage through as you absorb the visceral onslaught of the two-hour, two-episode debut of the new Twin Peaks, but WTF has to be the question. Look, along with the more than 30 million viewers who tuned in and more than a few producers over the years, I was a huge fan of the original medium-shattering Twins Peaks when it debuted on Sunday night, April 8, 1990. Though the second and final season started to quickly wane once Laura Palmer’s killer was revealed, this return truly intrigued me – unlike so many cash-grabbing reboots and revivals that populate the small screen in this era of Peak TV.
So, like I also say in my review above, well played sirs and welcome back; you were missed. Also, watch your self-appointed heirs reel and scurry into their own creative woods for a while because, from what I’ve seen so far going almost full Eraserhead, Lynch has embraced the vistas and madness that define his best work. Despite not having made a feature since 2006’s Inland Empire, the Blue Velvet director (who helms the entire new series) has shown he still can conjure dread and darkness. While it may give new fans and old fans narrative vertigo, this Twin Peaks stands in proud succession to its original and solidly on its own.
You can see more of my take on the new Twin Peaks by clicking on the video above, but here’s a recap of tonight’s two-episode debut. Almost always one to keep things close to his chest, the often-cryptic Lynch has told Deadline and others that the fundamental reason he resurrected Twin Peaks after more than two decades is that “the story was not over.” Word is that almost no one besides the Palme d’Or winner, Frost, MacLachlan and some Showtime execs know where this is all going and what happens in this latest installment.
Here’s what we know from the opening two episodes. Starting with footage from the original series, the whole thing is seemingly launched by that lingering “I’ll see you in 25 years” line from Laura to MacLachlan’s Agent Cooper in the evil den of the Black Lodge back in the once assumed final episode of the second and final season in 1991.
Cut to more than 20 years later, the soul of Dale Cooper is still trapped in the Black Lodge where we last saw him more than two decades ago as his doppelganger possessed by the demonic murderous spirit known as Bob woke up in Twin Peaks. The trapped Cooper is visited with warnings by from a disturbing flesh topped talking tree and a soon to be abducted again and aged Laura — again played by Sheryl Lee, like in the original series and the terrible 1992 Twin Peaks: Fire Walk With Me prequel movie. Picking up from the end of that last season of Twin Peaks, that Cooper doppelganger, who seems pretty clearly still possessed by Bob — and now looks a lot like the Portlandia alum dressing up as Michael Madsen in Kill Bill — is loose in the world on a killing spree and something more.
As a secondary story, though it could turn out to be the main plot knowing Lynch and Frost, there’s a well wired and well watched by cameras and a young attendant glass box that sits in what seems to be a billionaire’s care in NYC. The point of all that surveillance is to see if anything appears in the box – at one point a confused and floating Agent Cooper is in the glass box unnoticed and at another point, a blurred naked beast appears. To that, because sex often seems to kill in the lore of Twin Peaks, two new additions to the series are horrifically mauled if not killed by said beast as they are getting it on in the room. At almost the same time, local police in South Dakota discover a gruesome beheading of a women in a blood-soaked bed with a bloated body.
The subsequent arrest of a local high school principal, played by Scream alum Matthew Lillard, for murder suggests a connection – at least when Evil Cooper gets on his straight-out-of-1997 laptop for some looking around the FBI database and prison security systems. Laying off the new series slogan of “It Is Happening Again,” the portal and the case in the Dakotas seem an indication that the punishing violence that defined the original Twin Peaks is back — with the gore cranked up to and sometimes beyond cable levels.
Speaking of being back, we’ve already seen a number of the old cast and old haunts with more than just MacLachlan, Lee, plus Carel Struycken as the Giant and Al Strobel as the One Armed Man. The Great Northern lodge in rural Washington state is still standing and open, but the Horne brothers, played by Richard Beymer and David Patrick Kelly, are making a lot of their cash from the pot business nowadays. In the town of Twin Peaks itself, hooked up to an oxygen tank and with most of her hair gone, Log Lady Margaret Lanterman warns deputy Sheriff Tommy Hawk that “something is missing.” On the phone with Catherine E. Coulson’s character, the Michael Horse-portrayed Hawk goes searching in the dark forests with promises of pie later, only to discover a dank and murky pond that looks like a portal of some sort.
Meanwhile, had to say it, at the Bang Bang Bar roadhouse, James Marshall, played still by James Hurley but having had a motorcycle accident in the past, arrives with a pal for a beer and the Chromatics’ show. James sees Shelly Johnson, still played by now-Riverdale regular Mädchen Amick, having drinks with friends. The damaged and often quiet biker, who left Twin Peaks in the second season, can’t stop staring at their table, though who he is actually looking at is unclear. At the same time Shelly sees what appears to be her old lover Bobby Briggs, again played by Dana Ashbrook, at the bar making a pistol hand gesture to her. That concludes the two-hour debut as the Chromatics play out the end of the opening episodes in a way that is so very familiar to fans of the original.
We have not seen new and old castmates Laura Dern, David Duchovny, the late Miguel Ferrer, Robert Forster, Harry Dean Stanton, Naomi Watts, Jim Belushi, Pearl Jam’s Eddie Vedder or Monica Bellucci or many others, but there’s a lot of coffee and pie promised too. Of course, if you are a Showtime subscriber you can stream episodes three and four right now instead of waiting for next week and see how much further Lynch and Frost go and where the rotting breadcrumbs lead.
What does it all mean?
Well, at the L.A. premiere of Twin Peaks on May 19, Lynch told the invited crowd “I love trees, I love wood.” Hard to tell still if that is a hint or a tailless tease, but it is clear Lynch’s enthusiasm was genuine as was his love of getting his hands dirty. The result has got me hooked on the new Twin Peaks, just like I was with the original all those years ago.
Cannes 2017 – Wonderstruck, recensione di Anton Giulio Onofri
Non si sa da che parte cominciare per demolire questo inatteso passo falso di Todd Haynes, tra i registi più interessanti e produttivamente sperimentali della generazione statunitense nel pieno della maturità, considerato una firma garantita da cui attendersi una qualità mai al di sotto dei minimi standard. Purtroppo invece, con questo Wonderstruck, in corsa per la Palma d’Oro al Festival di Cannes, siamo ai livelli di una catastrofe insospettabile, che nonostante l’applauso convinto al termine della proiezione stampa peserà sulla filmografia di chi ha realizzato capolavori assoluti come Safe o I’m not there come una tappa imbarazzante, inaccettabile, indifendibile.
Alla fonte c’è un romanzo di Brian Selznick, quello dal cui Hugo Cabret Scorsese aveva tratto, a prarere di chi scrive, uno tra i film più fallimentari della sua carriera. E sarà forse il caso di partire proprio dalla fonte letteraria di questo stomachevole pastiche, considerandone esclusivamente quanto se ne apprende dalla trasposizione cinematografica (mai e poi mai potrebbe venirmi in mente di affrontarne la lettura).
Gli Stati Uniti – Dio li benedica insieme al loro cinema, alla loro letteratura, e alla loro arte moderna e contemporanea – peccano talvolta di una presunzione grave: afflitti da un complesso di superiorità che li fa sentire investiti del ruolo di leader nella gestione della cultura dell’Occidente (in Europa, del resto, poco o nulla si fa per arginare il fenomeno), invadono impunemente spazi della nostra memoria storica accumulata in secoli e secoli di mitologie antiche e fiabe francesi, nordiche o italiane, sostituendo alla saggezza popolare scaturita dalla fatica di vivere e dalle paure insondabili dei nostri nonni e trisavoli, un immaginario relativamente giovane (appena 250 anni), dunque infinitamente meno complesso, eppure spacciato come fondativo e universale. Francamente, chi come il sottoscritto è abituato alla spontanea naturalezza della rappresentazione dell’infanzia comune a tutta la letteratura al di qua dell’Oceano, stenta a ritrovarsi in questa spettrografia elementare dove gli accadimenti si verificano non secondo una fenomenologia hegeliana, ma anzi stabiliti a tavolino unicamente per dimostrare quello che si vuole dimostrare, cioè non qualcosa di innato, fatale e inevitabile, ma qualcosa che succede perché qualcuno (l’autore) ha deciso così in barba a qualsiasi probabile veridicità, al solo scopo di coinvolgere e commuovere chi è disposto ad accettare acriticamente il cliché, tragedia che è ormai linfa essenziale di tanta produzione seriale televisiva a stelle e strisce, e che dispiace vedere adottata al cinema da chi, come Todd Haynes, ha da sempre dimostrato di maneggiare ogni tipo di materiale con l’originalità e l’intelligenza di molti altri suoi colleghi (Paul Thomas Anderson, per citarne uno), ancora fortunatamente immuni da simili capitomboli.
Nel raccontare le due storie parallele (genere inventato da tale Plutarco, un greco vissuto due millenni fa) di due ragazzini vissuti in due epoche differenti ma legati dal comune handicap della sordità, Haynes ha scelto di adottare lo stile del “period piece”: ok, Wonderstruck è un film per ragazzi (così come lo era Hugo Cabret – anche se ho vividi e chiari ricordi di film per ragazzi concepiti e realizzati per restare inossidabilmente nella memoria collettiva di tante e tante generazioni, non soltanto di quella 2.0, o che comunque non prende più un libro in mano), e per farsi capire deve necessariamente semplificare: quindi, visto che siamo negli anni ’20 e negli anni ’70, nel primo caso il riferimento è al cinema muto e in bianco e nero, nel secondo alle pellicole verdine e gialline ottenute con l’effetto “Nashville” di Instagram, e con l’ampio abuso in colonna sonora di David Bowie ed Eumir Deodato. Colpisce però, senz’altro negativamente, l’eccesso di semplificazione da parte di un rivisitatore di stili e di immaginari del cinema del passato (si pensi all’eccellente ricreazione degli anni ’40 e ’50 compiuta in Lontano dal Paradiso e in Carol), qui neppure preoccupato di scegliere “come” guardare ambienti, colori e atmosfere delle due Americhe rappresentate nel film: va bene il bianco e nero per gli anni ’20, ma se l’effetto è una mera decolorazione computerizzata di normalissimi e comunissimi movimenti di macchina indistinguibili da quanto si fa ai giorni nostri, significa che qualcosa non funziona. (Appena meglio nel caso degli anni ’70, con zoom e tecniche di ripresa “free” vicine al documentario, come si usava ai tempi).
Ma il peggiore difetto del film, quello che ne assimila la visione alla consumazione di un mostacciolo avvolto nella carta stagnola che rimane sgradevolmente appiccicata alle dita, è l’enfasi melassosa del racconto, spinto in avanti a colpi di ulteriori palate di zucchero, secondo canoni e codici narrativi inaccettabili da chi bene o male esce da due Guerre Mondiali, dal ’68 e dal crollo delle Torri Gemelle, né giustificabili con un’esigenza di nostalgico recupero dei buoni sentimenti, che così realizzata ottiene l’effetto esattamente contrario del frettoloso ricorso al telecomando o al mouse per stopparne ogni eventuale futura visione televisiva o sullo screen del computer (visto che produce Amazon…). Molta della responsabilità di tanta preconfezionata overdose emotiva va attribuita all’invadenza delle musiche di Carter Burwell, che, ottimo finché si vuole, è un compositore per il cinema: la musica per il cinema funziona quando accompagna le immagini e i dialoghi; in assenza dei dialoghi (data la sordità dei due protagonisti), ascoltare per quasi due ore le musiche di qualcuno che non è né Bach né Brahms produce noia e assuefazione. Almeno a chi un po’ se ne intende. Coincidenze irritanti, altrettanto quanto le piagnucolose espressioni di una Julianne Moore mai così sottoutilizzata, effettistica strobizzata da televisione anni ’90, rallenti fastidiosi e stucchevoli, montaggi incrociati elementari e didascalici, TUTTO concorre al sollievo dell’arrivo dei titoli di coda, dopo uno dei finali più sorprendentemente ridicoli degli ultimi anni. Che dispiacere ritrovare Todd Haynes impantanato in un’operazione tanto infelicemente celebrativa di un’idea storica degli Stati Uniti così miseramente edulcorata per assecondare il gusto definitivamente imbastardito delle platee televisive planetarie. E che dispiacere ritrovarlo qui a Cannes, addirittura in concorso.
The Founder, recensione
Un farabutto ambiguo “sguazza” fra i panini
Michael Keaton volteggia sinuoso in questa storia “serpeggiante” d’imperi capitalistici basati sui fast food e sulla scaltrezza di una mente “artigianale” che trova l’idea geniale con la perseveranza. Ostinata, caparbia, fortunosa, fortuitamente azzeccante le mosse ingiuste, compresa quella da scacco “matto” di fregarsi la moglie di un “amico”. John Lee Hancock non brilla per le sue prese di posizione e tratteggia un personaggio bidimensionale senza troppa anima, non molto simpatico, arrivista e intestardito nel cul(t)o del successo, un inseguitore di Sogno Americano a stelle e strisce dell’arte di arrangiarsi. Arranca il “filmetto”, sopravvalutato un po’ dappertutto, e tutto alle volte pare una spudorata pubblicità del McDonald’s. Non vi è molta coerenza e anche la bella Cardellini emerge come una figurina maligna, una “dama” dalle sulfuree connotazioni mefistofeliche. Il film comunque non dispiace nella sua andatura didascalica, si lascia gustare come del ketchup fra cetrioli di sceneggiatura traballante e spesso “maestra” di troppe ovvietà facilone, frigge come patatine scotte, mentre alla fine si rimane perplessi, perfino disturbati da questo Kroc “a scrocco”, come dice lui, che (non) barando ha portato a casa, anzi in villa, soldi e “carisma” rubati sui “poveretti”. Quasi indigesto.
di Stefano Falotico