MANK, speciale David Fincher

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Mank

Ebbene, oggi recensiamo lo stupendo Mank di David Fincher.

Regista già estremamente affermato che, ovviamente, non necessita di presentazioni. Autore, comunque ribadiamolo, di opere che, nel bene o nel male, a prescindere che possiate apprezzarle o no, hanno quasi sempre segnato e contraddistinto rimarchevolmente un’epoca, rimodellando o perlomeno circoscrivendo eventi o fenomenologie socio-culturali, istanze e/o mode appartenenti al momento in cui impazzarono. Pensiamo per esempio a Fight Club. Film forse sopravvalutato ma che, per l’appunto, nell’anno in cui uscì, assurse a totemico modello peranco esistenziale e paradigmatico di uno stile di vita avvertito necessario da una generazione dei nineties che, alla pari di quella odierna, dopo anni di asservimento a valori probabilmente erronei e distorsivi, fintamente formativi, e a demagogiche direttive ipocrite redatte dai loro padri fake, si riconobbe nelle rabbie enunciate, espresse, esternate con furore, più o meno efficace o velleitariamente chimerico, da Tuler Durden/Brad Pitt & company.

Oppure, torniamo indietro nella memoria e riflettiamo sull’importanza dell’imprescindibile, per l’appunto epocale, anche questo generazionale, The Social Network.

Instant movie” già classic, prendendo in prestito espressioni americane assolutamente calzanti. Ora, Fincher è approdato su Netflix con questo strepitoso Mank. Scritto da suo padre defunto, inerente le vicissitudini, vere o presunte oppure grottescamente romanzate, fantasiosamente e forse allegoricamente filtrate dal clinico occhio del regista di Gone Girl e Seven.

Che, per l’occasione, adatta per l’appunto a suo modo la “visione” e la versione scritta da suo padre concernente la lavorazione, per meglio dire l’allestimento della sceneggiatura di Quarto potere di Orson Welles, (re)inventandosi la storia secondo cui il vero creatore, anzi, l’unico padre indivisibile dello script di Citizen Kane sia e fosse stato solamente Herman J. Mankiewicz (un Gary Oldman in profumo, giustamente, di Oscar).

Mankiewicz, detto Mank. Ubriaco a letto, ingessato a una gamba, inflaccidito da troppe delusioni patite su cui, sorseggiandole metaforicamente con levità effervescente e satirica, deglutendone ogni conseguente ed assorbita amarezza inestinguibile, sdrammatizza con ironia, burlandosi sapidamente della triste, inevitabile condizione umana tragica e al contempo comica. Anzi, cosmica…

Mank viene incaricato da Orson Welles in persona (Tom Burke) di scrivere, in sessanta giorni, la sceneggiatura di quello che è stato più e più volte ribattezzato il più bel film del mondo.

Scalzato ultimamente, nelle classifiche sui best movies di tutti i tempi, soltanto da La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock.

Dunque Mank, pensereste voi, è una sorta di behind the scenes personalissimo di un capolavoro intoccabile della storia del Cinema?

No, quasi niente di tutto questo. È il ritratto di un uomo auto-esiliatosi da Hollywood malgrado continuasse assiduamente a bazzicarla, è il character study di un perdente che non scese mai a compromessi con nessuno e alla fine, a causa della sua integrità morale, per via del suo carattere ostico e quasi masochisticamente persuasosi di voler rimanere un uomo normale, vinse paradossalmente l’Oscar in modo inaspettato e stupefacente.

Entrando nel mito involontariamente e prendendosi gioco del falso mondo dorato della grande Mecca e di sé stesso, “giullare di corte” in una società di pagliacci, di donne romantiche come Marion Davies (Amanda Seyfried), incapaci però di non sposarsi a un uomo sbagliato, stupido ma ricco e potente come William Randolph Hearst (Charles Dance), una società di manichini nella cui dolce vita felliniana pare sacrosanto viaggiare melanconicamente come in un film di Woody Allen.

Musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, fotografia meravigliosa in bianco e nero suadente di Erik Messerschmidt.

 

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