Heat – La sfida, recensione
Ecco, oggi vi parlo di un film che oramai conoscete tutti e che adesso è unanimemente considerato un capolavoro, il mirabile, sommo, insuperabile e magnifico Heat – La sfida del grande Michael Mann, con uno dei duo attoriali più eclatanti della storia del Cinema, ovvero Al Pacino e Robert De Niro. E quale occasione migliore, in attesa di The Irishman di Scorsese, oramai alle porte, pellicola che li vedrà nuovamente rivaleggiare in dualistica attorialità eternamente complice, amicale e al contempo competitiva, come sempre è accaduto sin da quando dagli anni settanta in poi son stati decretati immediatamente the greatest, per parlare ancora una volta di Heat, appunto, film sul quale nelle ultime due decadi si son versati litri d’inchiostro e per cui chiunque si è sbizzarrito in molteplici, furibonde esegesi. Arrivando soprattutto a non capire come sia stato possibile che un film di questa portata universale, ai tempi della sua uscita, fu certamente molto apprezzato dalla Critica e ottimamente accolto dal pubblico ma fu anche inspiegabilmente parecchio snobbato, tanto da venir completamente dimenticato, ad esempio, dagli Oscar.
Un film epocale invece che, a distanza di ventitré anni dalla sua uscita, non solo non ha perso nemmeno un briciolo della sua illuminante potenza ma il cui valore si è sempre più accresciuto spasmodicamente nel cuore dei cinefili puri. E davanti al quale la Critica più dura a morire, troppo civettuola e vetustamente legata a estetiche cinematografiche superate e accademicamente supponenti, oramai ha sventolato bandiera bianca, auto-smentita nelle sue indifendibili pretestuosità sin ad abbandonare ogni cavillosa scusante e prostrandosi dirimpetto a tale masterpiece indiscutibile. Ed è oramai altresì chiarissimo e inequivocabile che Heat sia inamovibilmente assurto a capodopera imprescindibile della filmografia di Mann, una colonna basale e portante inderogabilmente imperitura, inscalfibile, una pietra miliare dal gigantesco, adamantino splendore.
Una vetta apoteotica, un colpo di genio sensazionale, un’elettrica pellicola della durata di due ore e cinquanta minuti ipnotici. Mastodontica venustà visivo-emozionale che profuma di adrenalina cristallina e sulfurea come il significato stesso della parola heat, calore, ch’emana afflato epico, impregnata di un romanticismo commovente, da stordirci tutt’ora dopo nostre innumerevoli re-visioni. Immergendoci nella sua magica grandezza. Incantandoci nel fuoco magmatico dei suoi abissali brividi roventi e maliardi.
Heat è uscito sugli schermi italiani il 9 Febbraio del 1996, e la nostra locandina recitava… quando il cinema diventa leggenda. Perché, per la prima volta in assoluto, le due leggende viventi Al Pacino e Robert De Niro s’incontravano faccia a faccia in un film. Avevano recitato assieme nel titanico Il padrino – Parte II di Coppola ma in questo caso, per ovvie ragioni cronologiche, non condividevano nessuna inquadratura.
Heat è stato il primo film, appunto, in cui si sono sfiorati, compenetrati, antiteticamente riflessi l’uno nell’altro, in un confronto-scontro dicotomico e antologicamente speculare. Poi ci sarebbe stato il bistrattato Sfida senza regole e, come detto, siamo in febbricitante attesa al cardiopalma, da hype pazzesco, di The Irishman.
La trama la sapete meglio di me e, se volete ripassarla nei dettagli, c’è il lunghissimo papiro di Wikipedia che vi sarà d’aiuto a rammemorare ogni singola scena. Per sollecitarvi altre nostalgiche elucubrazioni interminabili.
È la storia di una banda di attrezzati ed espertissimi rapinatori, capeggiata dal solitario, scaltro, freddissimo Neil McCauley (De Niro), che viene ricercata dall’instancabile Tenente Vincent Hanna (Pacino) e dalla sua inflessibile, inarrendevole squadra addestrata di poliziotti di Los Angeles. Neil e la sua gang, nella quale svetta il suo amico biondo Chris Shiherlis (Val Kilmer), hanno tentato un ultimo, enorme colpo ma molte cose sono andate storte…
Tutto qua? Macché. Un semplice nor-poliziesco, dilatazione dello stesso tv movie di Mann, Sei solo, agente Vincent!, un normalissimo e all’apparenza convenzionale caper movie che, grazie alla vertiginosa e strepitosa poetica di Mann e alla sua entusiasmante messa in scena, diviene di tutto e di più. Un liturgico, citazionistico elogio de Il mucchio selvaggio di Peckinpah che strizza l’occhio perfino ai polar di Jean-Pierre Melville con le sue calde solitudini malavitose e, affrescato dalle turbinanti tinte fotografiche di Dante Spinotti, si trasforma quindi addirittura in una panoramica, approfondita riflessione dantesca sul Bene e Male, un intelaiato, dedalico, topografico ritratto psicologico di uomini e donne che combattono su fronti opposti, un acquoso e malinconico, sbalorditivo, descrittivo e minuzioso quadro di soavi e complicate storie d’amore intrecciate, un intersecato viaggio luminescente nei bagliori e nelle penombre dell’animo umano tanto maledettamente complicato.
Le scene cult si sprecano, da quella oramai celeberrima del diner con Pacino e De Niro all’impressionante sparatoria dopo la rapina andata male.
E il finale è poesia inarrivabile.
Un film che vanta nel cast, oltre naturalmente a Pacino, De Niro e Val Kilmer, il volto roccioso di Jon Voight, Natalie Portman, Diane Venora, Ashley Judd, Tom Sizemore, Wes Studi, Danny Trejo, Amy Brenneman, William Fichtner, Hank Azaria e Tom Noonan.
Direi che possiamo fermarci qui…
di Stefano Falotico