GONE GIRL, recensione
Torniamo un po’ indietro con la memoria sino a qualche anno fa e andiamo a ripescare nuovamente L’amore bugiardo (Gone Girl) firmato David Fincher, uno dei nostri registi preferiti in assoluto, giustamente.
Ebbene, su Netflix sta spopolando Mank, subissato di lodi sperticate. Film che, certamente, concorrerà ai prossimi Oscar in numerose, prestigiose categorie rinomate. E che s’è già ritagliato un posto d’onore davvero importante nel Cinema odierno.
Come sappiamo ma è doveroso comunque rimarcarlo, a costo di apparire pleonastici, la regia di Mank è ovviamente del nostro beniamino, appena succitato, David Fincher. Un cineasta, a sua volta, che oramai non abbisogna di presentazioni, essendosi completamente emancipato dai suoi esordi altalenanti, essendosi crescentemente affinato, sempre più notevolmente, durante l’ultima decade soprattutto, inanellando perle filmiche di raro pregio e fattura. Film via via più sofisticati, complessi, intelaiati con accuratezza sottile attraverso la sua poetica sempre più adamantina e millimetricamente certosina, film dall’indiscutibile estetica collaudata e inebriati di feroce bellezza visiva, ammantati di suadente allure elettrizzante. Film sempre più, al contempo, indirizzati verso un’ottica cinematografica complessamente affascinante. Atta a definire lo stile di Fincher, compatto, ancora qualche volta furbo e forse leccato. Parimenti però meno artefatto e lezioso rispetto ad alcune opere sue passate.
L’amore bugiardo (2014) si colloca in quello spazio, già rimarchevole, post Zodiac e altri film molto apprezzati dalla Critica ma forse non appieno soddisfacenti, che a nostro avviso già inquadra la grandiosa cifra stilistica messa a punto da Fincher in modo nettissimo. Gone Girl è il suo penultimo lungometraggio, per l’appunto, uscito prima dello strepitoso Mank e delle regie di Fincher per alcuni episodi del magnifico Mindhunter.
Da Gone Girl a Mank, strano ma vero, sono intercorsi però ben sei, lunghi anni.
Curiosa questa notevole distanza da un film all’altro poiché Fincher è sempre stato assai prolifico e, dopo l’appena menzionato Mank, uscì sul grande schermo, in meno d’un quinquennio, con Il curioso caso di Benjamin Button, The Social Network e Millennium – Uomini che odiano le donne. Accolto favorevolmente dall’intellighenzia critica statunitense, L’amore bugiardo a molti critici nostrani invece non piacque moltissimo. Perlomeno, li lasciò perplessi e indecisi se decretarlo un’opus ragguardevole oppure una prolissa furbata dispersiva e ricolma d’ingiustificate incongruenze narrative alla pari di The Game. Noi attestiamo, convintissimi, che Gone Girl forse non sia un capolavoro ma gli vada vicino insindacabilmente. Aggiungendo inoltre che soltanto gente miope poteva già non scorgere, come dettovi, la demarcante, rimarchevole linea, qui delineatasi perfettamente, che separa il primo Fincher più “pubblicitario” ed esteticamente, scaltramente ruffiano, al Fincher contemporaneo, osiamo dire quasi sobriamente kubrickiano e, rifacendoci al Citizen Kane da lui omaggiato meravigliosamente in Mank, veramente cronometrico, qualitativamente, in ogni suo impeccabile frame distillatoci con geometrica e chirurgica aurea figurativa, con esemplare, ammaliante finitezza divina, egregiamente limata e impreziosita da vertiginosi tocchi geniali di soave diegetica sopraffina. Persistono alcune riprese di natura televisiva da spot Lancôme, sì, ma non è una fiction come Beautiful. Nonostante gli interni delle case lussuosissime che vediamo sfilare, eh già, sembra che siano arredati dallo stesso architetto di Jodie Foster in Panic Room.
È dunque lapalissiano che Fincher nutra un’attrazione morbosa ed irresistibile verso i ricchi, essendo lui ricchissimo. Forse più monetariamente abbiente di Michael Douglas di The Game. Perciò vuole esplorare probabilmente la parte oscura del suo sé da lui stesso taciuta, nell’intima coscienza, freudianamente. Mediante la Settima Arte del suo vivisezionare il fascino (in)discreto dell’alta borghesia eticamente non interamente proba.
Giochiamo di parole, quindi, cioè introiettandosi nella parte indefinita da mettere alla prova con dubbi improbabili al di là di ogni sospetto probatorio da duro auto-interrogatorio perverso filmato clinicamente in sé stesso posto dinanzi allo specchio, piangendo silente nella propria scandagliata anima intrisa d’allucinatoria suspense vividamente tagliente.
Trama che sintetizziamo all’osso semplicemente per non sciuparvene i suoi mille, intricati risvolti stupefacenti e, anticipiamo, violenti:
nel giorno del quinto anniversario di nozze fra i bei Nick Dunne (Ben Affleck) ed Amy, tornando a casa dopo aver bevuto al bar di cui è proprietario assieme alla sorella gemella barista di nome Margo (Carrie Coon), Nick non trova più sua moglie, misteriosamente scomparsa.
Al che, com’è ovvio che sia, essendo passate molte ore dalla sua irrisolta sparizione, Nick chiama la polizia. Iniziano dunque le indagini di tale missing e, attraverso tutta una serie di numerosi, incalzanti, appassionanti e allo stesso tempo inquietanti flashback “a matriosca”, veniamo a conoscenza dei molti scheletri nell’armadio, dapprima mai svelati, della nostra coppia all’apparenza invidiata da chiunque e, a prima vista, intoccabile…
Dopo un soporifero incipit in palpabile, liquido salendo di tensione, dopo la prima ora un po’ farraginosa ma intrigante, il film vira totalmente dai propri toni, confondendo le carte con ripetuti, martellanti colpi di scena infilati a ripetizione.
Anzi, infilzanti… ogni soluzione banale o prevista dallo spettatore cinematografico, anche il più intelligente, dotato di sottile, sorprendente acume.
Ed è forse qui, paradossalmente, che il film non più sorprende. Perlomeno meno. Prendendo lentamente ma angosciosamente la strada del thriller da giornalismo investigativo e da rotocalco della NBC. Spettrale l’apparizione di Sela Ward nei panni sexy ma antipatici della divoratrice di casi umani, la severa intervistatrice Sharon Scheiber.
O forse è proprio questo che voleva, sin dapprincipio, Fincher. Trasformare il romanzo best seller a macabre tinte non troppo rosse, bensì ambiguamente rosa, di Gillian Flynn, da quest’ultimo sceneggiato, trasformandolo in un nero viaggio all’interno del balzano, squinternato, colorato e cupissimo rapporto di coppia insondabile e pericoloso. Ché è fatto di repentine gelosie esplosive, rabbie smodate, ripicche stupide, sceneggiate patetiche, tira e molla estenuanti e interminabili incomprensioni, di corna, di tradimenti non solo carnali, d’instancabili ego superbi in perenne lotta per il raggiungimento della supremazia da imporre, anche solo psicologicamente, all’altro. Per un carnage polanskiano devastante similmente paragonabile ad Eyes Wide Shut.
Film femminista, film iper maschilista, film intimista, Gone Girl. Questo e altro… Film stupendo, follemente nitido nella sua gratuita violenza mostrataci alla fine per puro, fincheriano diletto fine a sé stesso. Cammeo di Boyd Holbrook, per meglio dire, in un ruolo piccolissimo prima che diventasse relativamente famoso, e un bravissimo Neil Patrick Harris.
Fincher è un giocherellone che investe tutto sul twist finale in modo parossistico, un sensibile narcisista amante delle sue esagerazioni al limite della ridicolaggine più studiatamente eccitante, un fanatico dei suoi stolti, terribili protagonisti e delle sue spesso volute, involutissime, articolate, arzigogolate, inverosimili storie non immediatamente decrittabili ed astruse. L’Agatha Christie cineastico del nuovo millennio.
Dovreste averlo capito. Dovreste dunque aver finalmente compreso, a distanza di più di vent’anni, che il sopra citatovi The Game fu solo la pellicola, incompiuta, ancora non messa a punto, eppur già sfavillante che fu da apripista al suo percorso registico compiaciutamente amante non solo di questi odiosi amanti inseparabili, in tal caso, appartenenti alla famiglia Dunne, bensì anche dei pazzi fratelli Van Orton.
Allora capirete che tutto torna e che Fincher è un genio. Poiché in Gone Girl, alla fine, non torna quasi nulla. Giustissimo.
Il grande Cinema deve infatti alludere, giostrare di retroscena suggeritici e non integralmente mostratici, deve vivere di enigmi illogici, il grande Cinema è il rebus immaginifico delle nostre paure più profonde, impossibili da spiegare razionalmente e compiutamente.
Così com’è la vita, prevedibile, noiosa come un matrimonio destinato a sfaldarsi, a perdere in brillantezza, come la routine per cui si muore dentro e si scompare opacamente nel nulla. Ma poi, in un lampo, un’altra scintilla focosa, forse soltanto rabbiosa, riaccende la speranza, in un battibaleno imponderabile forse si riaprono sol altre ferite lancinanti, forse nei nostri cuori sanguiniamo e ci scarnifichiamo finché morte non ci separi, indissolubilmente.
Eternamente vivendo da ambigui complici del e nel mondo e nelle viscere nostre interiori, soffrendo e gioendo delle nostre scelte imperscrutabili e malate del nostro essere noi stessi la terrificante e bellissima incarnazione d’un neo–noir palpitante, sanguinoso ed emotivamente sussultante, noi, anime spettrali del nostro voler essere misteriosi, amorevoli e romantici, ombrosi e torbidi… mostruosi.
Amazing Amy, la mitica Amy, ammazzando Amy, Amy da sé stessa ammazzata per rinascere e per far sì che suo marito la possa ancora amare. Come la prima volta, accettando la vita, accogliendo e compenetrando il suo uomo nella sua donna, nella sua speculare ansietà, nella sua detection personale e simbiotica.
Immensamente abissale.
Ce la vogliamo dire? Togliamo il quasi… capolavoro e basta.
Unico difetto, se proprio vogliamo trovarne uno, la durata.
Ma si lascia amare… che è una bellezza.
di Stefano Falotico