THE GOOD SHEPHERD, recensione
Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato e, ahinoi, da molti sconosciuto The Good Shepherd- L’ombra del potere. Seconda, elegante opus seducente, enigmatica, complessa e ambiziosa di Robert De Niro dietro e davanti la macchina da presa dopo l’ottimo Bronx.
The Good Shepherd- L’ombra del potere dura due ore e quarantasei minuti ed è sceneggiato dal premio Oscar Eric Roth (Munich, Forrest Gump e, prossimamente, Killers of the Flower Moon).
The Good Shepherd- L’ombra del potere (distribuito in Italia nell’Aprile del 2007 ma presentato negli Stati Uniti alla fine dell’anno precedente rispetto a quello poc’anzi suddetto per poter concorrere agli Oscar) ha rappresentato, per molto tempo, il dream project di De Niro. Che lo ereditò, fra gli altri, dal compianto John Frankenheimer (conosciuto sul set di Ronin).
Cioè, The Good Shepherd- L’ombra del potere è stato un progetto registico lungamente covato da De Niro, un progetto duramente e al contempo vividamente sospirato. Non sappiamo però se veramente ispirato in forma vivifica e del tutto compiuta. Poiché, una volta concretizzatosi dopo un casting durato un tempo interminabile (fra i papabili per il ruolo del protagonista, andato a Matt Damon, De Niro pensò inizialmente a Jude Law e a Leonardo DiCaprio), dopo svariati anni in cui fu da De Niro sempre rimandato, ripreso in mano e nuovamente procrastinato a causa dei concomitanti impegni attoriali da lui già sottoscritti, finalmente vide l’anelata luce ma, al di là dei suoi forti ed indiscutibili pregi, a dispetto della fastosità fotografica al solito eccellente di Robert Richardson (Casinò, Al di là della vita) e della maestosa scenografia di Jeannine Oppewall (Prova a prendermi, L.A. Confidential), peraltro giustamente nominata agli Academy Award, nonostante i buoni incassi ottenuti a livello mondiale, The Good Shepherd si rivelò un film soltanto parzialmente riuscito. Sebbene, ripetiamo, sia stato superbamente confezionato, meticolosamente allestito, diretto con mano ferma e assai solida e la storia, in esso presentataci e descritta, indubbiamente, si palesi come estremamente allettante. Questa infatti la trama: ci vengono raccontate le origini della CIA attraverso il punto di vista del suo agente Edward Wilson (Matt Damon). Ex ragazzo universitario timidissimo ed impacciato di Poesia a Yale, viene pian piano avviato, anzi persuaso, a diventare un serio, diligente esponente di rilievo del movimento Skull and Bones, celeberrima e allo stesso tempo misteriosa, segreta massoneria di matrice “studentesca”. Una sorta di banco di prova per il quale, da apprendista, Wilson esperisce giudiziosamente un’incorruttibile, formativa etica atta a modellarlo accuratamente in una fermezza caratteriale indispensabile affinché poi affini e sviluppi, in maturo crescendo(si) rinomato, quelle necessarie ed ineludibili caratteristiche morali e disciplinatrici per poter un giorno ascendere a provetto ed integerrimo quadro dell’Intelligence. Nel frattempo, Wilson sposa la bellissima e sensuale Margaret (Angelina Jolie) ed assiste, spesso impotentemente e con disarmata, malinconica aria attonita, allo squagliarsi sempre più angosciante e lampante degli apparenti, illusoriamente saldi ideali a cui, da giovane, aveva risolutamente creduto e per cui aveva strenuamente combattuto stoicamente in nome di nobilissime virtù che invece sono state spesso perfidamente, in maniera omertosamente maligna e fraudolenta, perfino assassina a livello fratricida, tradite e addirittura vilmente rinnegate dagli stessi membri dello spionistico apparato, a prima vista per l’appunto, più importante e moralmente efficiente del mondo. Al che Wilson, in un vertiginoso flusso di coscienza allineato a un’incombente, nerissima spirale di paura a sua volta avvinghiante le sempre più scricchiolanti certezze progressivamente in lui tranciatesi in modo tormentosamente strozzante e straziante, visceralmente vivrà interiormente, soventemente tacendo persino alla sua soffocata coscienza afflitta perennemente da sofferti dubbi lacrimosi, un profondissimo e chiaroscurale quarto di secolo americano, personalmente prendendo visione, potremmo dire, da spettatore più che altro impassibile, riguardo ad eventi nefasti, a macabri complotti assurdi ed aberranti, a gelidi omicidi infausti e tragici, al dipanarsi di molteplici episodi oscuri su cui aleggiano gli spettri di crimini ingiustamente impuniti, su cui si spande un clima mortifero di glaciale silenzio ipocritamente tombale.
Arrivando sino a un suo, diciamo, emotivo e peranco narrativo-psicologico climax struggente, antieroico, disilluso e romanticamente lapidario…
Ma è proprio così oppure lui, essendo stato all’apparenza solamente un anonimo dirigente della CIA, grazie al suo innocuo, panoramico sguardo da falco, in verità altri non è, anzi, fu paradossalmente il principesco detentore delle verità che chi stava e tuttora sta sopra di lui non poteva e non potrà dire mai?
È dunque il retto custode silente di riservatissime informazioni occultate dalla rigida, bugiarda gerarchia a lui stesso funzionale ma, solamente di facciata, para-istituzionale?
È lui forse il mentore per antonomasia del suo essere contemporaneamente servo menzognero, vigliacco scudiero od invero un valido, confidenziale condottiero della strada maestra della sua stessa ambigua esistenza, della sua pericolosa, vulnerabile conoscenza, della sua intransigenza ferrea?
Da qui il titolo originale, difatti, della pellicola. Traducibile letteralmente nel buon pastore…
Musiche di James Horner, assiduo collaboratore di Ron Howard (Apollo 13) e una compagine di attori strepitosa, vale a dire una sfilza di nomi da riuscire a impallidire qualsiasi altro film. Che consta, fra gli altri, di William Hurt, John Turturro, Billy Crudup, Alec Baldwin, Michael Gambon, Timothy Hutton, Eddie Redmayne. Fregiandosi del cammeo di Joe Pesci.
Eppure, malgrado il notevole sforzo produttivo, la passione profusa da De Niro in veste di cineasta e, similmente al succitato Bronx, ritagliatosi qui una piccola parte chiave, The Good Shepherd pecca probabilmente di un impianto, detto altresì canovaccio, leggermente anacronistico, si perde in eccessive dilatazioni temporali, divenendo confusionario e frammentario in mezzo a ripetuti flashback superflui e a digressioni onestamente evitabili, è troppo retorico in molti punti ed esageratamente studiato, come si suol dire, a tavolino. Forse la gestazione è stata, come detto, lunga oltremisura e ciò ha influito sul risultato finale. Per l’appunto, non perfettamente omogeneo.
Comunque sia, è una prova registica quella di De Niro che, sebbene si riveli fallace e suoni vecchia stilisticamente, può avvincere e va premiata per l’impegno. The Good Shepherd, inoltre, potrebbe piacere molto a chi ama i biopic particolari, intrattenendo con la sua narrazione fluida a mo’ di romanzo, trasposto in immagini, che sembra essere figlio di una nobiliare epoca lontana, forse cavalleresca, forse semplicemente andata perduta tristemente.
di Stefano Falotico