JACKIE BROWN, recensione

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Oggi, saltiamo ancora una volta repentinamente e intrepidamente indietro nel tempo e nelle nostre memorie cinefile più dorate e giammai dimenticate, in quanto recensiremo un magnifico film perlaceo uscito nelle nostre sale nell’oramai lontano anno 1997, ovvero Jackie Brown, scritto e diretto da un consuetamente prodigioso Quentin Tarantino, qui allo zenit della sua indiscussa bravura cineastica dalla rinomatissima scuola profumata di classicismo d’annata.

Jackie Brown uscì quasi in concomitanza, anzi, praticamente in contemporanea, con Il grande Lebowski dei fratelli Coen. Non citiamo quest’ultimo film a caso.

Sia Jackie Brown che Il grande Lebowski, difatti, sono due hardboiled molto sui generis, entrambi sono dei capolavori straordinari ma tutt’e due furono ampiamente sottovalutati ai tempi, per l’appunto, della loro ufficiale release sui grandi schermi. Insomma, furono in gran parte decisamente snobbati e, soltanto col passare degli anni, valutati in maniera più oggettivamente distaccata ed esatta. Crescendo infatti progressivamente presso i favori dell’intellighenzia critica e assurgendo, a tutt’oggi, a vette irraggiungibili del loro genere cinematografico, a sua volta mescolato a molteplici sotto-trame, a coltissimi citazionismi e a variegati generi centrifugati in forma di rispettivi lungometraggi strabilianti.

Se Il grande Lebowski è una geniale rivisitazione farsesca e in chiave irresistibilmente grottesca, corroborata d’humor nero esilarante e al contempo tagliente di molte opere della Hollywood degli anni cinquanta e dei seventies, se è un sapido potpourri di matrice visivo-narrativa, ricolmo di chiarissime allusioni a Raymond Chandler, con un folle McGuffin a giustificare la sua trama apparentemente lontana dalle atmosfere tipiche del noir à la Il grande sonnoJackie Brown gli è parzialmente similare nella sua diegetica speculare ed è un’arguta e sofisticata mistura stratificata di poliziesco, potremmo dire, anacronistico e volutamente, piacevolmente fuori moda, un thriller a combustione lenta, ottimamente congegnato e a orologeria, è perfino un film pulp che omaggia la blaxploitation e la regina di molti suoi b movies, Pam Grier, qui protagonista assoluta, venerata e da Tarantino glorificata, ed è soprattutto una potente storia d’amore che lascia esterrefatti ed emozionalmente tramortiti per l’immensa e struggente malinconia che languidamente emana. Jackie Brown dura due ore e trentaquattro minuti avvincenti e rocamboleschi che scorrono tutti d’un fiato ed è l’unica opus di Tarantino, come sopra dettovi, sì, scritta da Quentin stesso ma tratta da un romanzo, vale a dire Punch al rum di Elmore Leonard.

Il saggio e compianto Morando Morandini fu uno dei pochi critici italiani a vedervi lungo, assegnando in tempi non sospetti tre stellette e mezza assai lungimiranti a Jackie Brown. Captandone immediatamente i pregi che, come poc’anzi accennatovi, passarono in passato alquanto inosservati. Estrapolandovi dunque la sua ammirabile recensione, concisa e assai precisa, quanto mai perfettamente sintetica e del tutto centrata, non magnificheremo affatto Jackie Brown, soltanto pigramente associandoci all’alto giudizio a riguardo da lui espresso ed emessovi, semplicemente ce ne rispecchiamo indiscutibilmente, riconoscendoci in esso pienamente:

A Los Angeles, il mercante d’armi Ordell (Samuel L. Jackson) vuole ritirarsi dagli affari, ma non prima di venire in possesso di un’ingente somma depositata in Messico. Dovrebbero aiutarlo l’amico Louis Gara (Robert De Niro), appena uscito di prigione, l’amante Melanie (Bridget Fonda) e la ex socia (Grier) arrestata per colpa sua. Max Cherry (Robert Forster) la fa uscire di prigione, pagando una grossa cauzione a nome di Ordell, ma s’innamora di lei e la aiuta a impossessarsi del malloppo, ingannando tutti. Al suo 3° traguardo, Tarantino spiazza tutti, gli entusiasti e i detrattori diffidenti, con un film lineare, tradizionale, “prudente e maturo, scaltro nell’evitare lo scoglio del déjà vu, prigioniero della sua cautela nel tenere a distanza l’umorismo cruento, lo stravolgimento dei generi, il sensazionale in una parola” (P. Cherchi Usai), gli ingredienti che avevano creato la folata modaiola del tarantinismo.

Dal romanzo Rum Punch di Elmore Leonard, sceneggiato con poche e significative libertà, ha cavato un film molto riuscito e poco innovativo che sa fare aspettare: puntiglio nel disegno dei personaggi, inquadrature equilibrate, pochi movimenti di macchina e sempre funzionali, nessun effetto speciale, nessun esibizionismo. Tarantino va controcorrente: a modo suo, è già un classico.

Morandini ci trova assolutamente concordi.

Fotografia di Guillermo Navarro, colonna sonora da urlo, messinscena che non sbaglia un colpo e non “stecca” un solo fotogramma, attori uno più bravo dell’altro, per un capolavoro irripetibile difficilmente eguagliabile.

Il film meno sanguinolento di Tarantino, il più inaspettato, forse il più bello, di certo il più commovente.
Nel cast, anche Michael Keaton, Michael Bowen & Chris Tucker.

Ora, la palla e le palle passano a voi. Ah ah, non siete Tarantino e non siete il Falotico, perciò non siete capaci di scrivere e dirigere capolavori.

Al massimo, potete pulire i cessi, anche delle vostre mogli. E coltivare le cicorie, aspettando tiepidamente la morte, credendovi uomini e donne di valore. In verità, siete tragicomici e, per allentare la tensione del quotidiano stress rompiballe, sapete solo fare carnascialesca baldoria senza gusto né piacevole, equilibrato umore e amore. Siete putridi e cinici, avete perduto ogni sano pudore, non sapete nulla di poesia, della grandiosa fantasia e del vivido, pittoresco, bizzarro folclore.

Di mio, bevo un White Russian come Lebowski e so che la vita è fatta di gioie e poi di dolori, di tanto malincuore ma anche di un falò nella notte che sa inebriarvi di lucida follia piena di colore e calore. Ah ah.

A dircela tutta, inutile poetizzare e romanzare, è stato un sabato sera moscio come pochi.

Vado a prepararmi un frappè ma in cucina non incontrerò Melanie con gli shorts. Alla pari di John Travolta di Pulp Fiction, mi darò al fai da te, berrò un tè e poi un caffè.

Forse incontrerò me stesso, cioè il diavolo di Paranormal Activity.

Su questa stronzata, vi lascio con una faccia da Marilyn Mason dei poveri e vi auguro buone mignotte, no, solamente buonanotte.

P.S.: non moti lo sanno ma sono Michael Keaton di Birdman.

Ora, come il Michael di questo film nel finale, mi lancerò giù dal balcone e non morirò.

Sapete perché? Sono anche Batman di Tim Burton, ho le ali da pipistrello. Inoltre, secondo me, Ed Norton de L’incredibile Hulk avrebbe fatto pena sia a Naomi Watts che a Stone di John Curran, no, ad Emma Stone.

Se voi doveste incontrare il vero Joker per strada, ragazzo disturbato dalla doppia personalità da Edward Norton di Fight Club, ditegli che ci sono anche i film 4 pazzi in libertà e Mi sdoppio in 4.

Dunque, deve ancora mangiare molti panini e guardare tanti altri film prima di fare la fine di Michael Keaton di Fuori dal tunnel.

Se invece io incontrassi Tarantino, Quentin mi direbbe: non farti più vedere, testa di cazzo. La gente non deve sapere che c’è uno più bravo di me.

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di Stefano Falotico

 

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