EYES WIDE SHUT, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento con la rubrica dei racconti di Cinema, vi parleremo dell’ultima opus, postuma, in quanto distribuita dopo la sua morte, di Stanley Kubrick (Arancia meccanica, Shining).
Opera controversa, assai discussa, mai passata di moda e inviolabilmente universale per tematiche affrontate, per la vastità d’interpretazioni variegate non solo di matrice cinematografica, bensì delle più assortite e perfino, ovviamente, psicanalitiche, Eyes Wide Shut è rimasto invariato nel suo titolo originale in inglese. Il cui significato è allusivo e sostanzialmente intraducibile, trattandosi infatti d’un titolo ossimorico (occhi aperti/sbarrati/spalancati chiusi) che gioca volutamente ed enigmaticamente con un nettissimo, forte contrasto di parole per creare disambiguazione/ambiguità melliflua e ricercata. Gergalmente, tale espressione viene adottata per definire colui o colei che s’ostina a non voler vedere, per l’appunto, la verità dei fatti e tende perciò inconsciamente a respingerli e oscurarli alla vista, anche intesa metaforicamente, della sua anima, sulla base del suo substrato mentale, dei suoi retaggi, della sua educazione, impartitagli o meno, della sua forma mentis, più generalmente e semplicisticamente a causa di tabù e condizionamenti, duri pregiudizi, immutabili e perpetui, difficili da scardinare, entro cui s’è barricato e trincerato, strutturato e, in un certo senso, protetto psicologicamente di conseguenza nel fortilizio d’automatismi e comportamenti riflessi a mo’ di meccanismo di difesa spesso involontario.
Potremmo dire, sintetizzando, una persona quindi refrattaria all’evidenza oggettiva di ciò che gli è stato raccontato o una persona che nega ciò che, giustappunto, ha visto coi propri occhi in quanto gli è più conveniente forse non credervi o darvi immediata, onesta fedeltà, altrimenti ne soffrirebbe immensamente e ne sarebbe emozionalmente scioccato. Anche in tal caso, probabilmente e paradossalmente non tanto in quanto gli accadimenti occorsigli son invero e realmente, semmai, gravi o deleteri, bensì perché lui li percepisce come minacciosi e lesivi delle certezze in lui create, delle istanze in lui ingeneratesi e introiettate, entro le quali ha fondato la sua stessa ragione o visione di esistere e vedere l’altro e il mondo attorno a sé.
Premesso e specificato ciò, perfettamente aderente con ciò che succederà in effetti alla psiche del protagonista di Eyes Wide Shut, il quale agirà inconsciamente d’istinto per via d’un retro pensiero tutto suo e probabilmente distorsivo, la pellicola dura 159’ e, così come sempre avvenuto per Kubrick, si basa puntualmente su una novella da lui stesso liberamente adattata con l’apporto, stavolta, di Frederic Raphael. Traendo ispirazione da Doppio sogno (Traumnovelle) di Arthur Schnitzler. Nel suo adattamento, fedelmente, ricalcando il suddetto romanzo. Che però era ambientato nella Vienna d’inizio Novecento.
Kubrick sposta invece l’ambientazione a New York ma girò Eyes Wide Shut interamente a Londra. Cioè, il principale luogo della vicenda, svoltasi in Eyes Wide Shut, ovvero il Greenwich Village di Manhattan, fu ricostruito interamente a Borehamwood. D’altronde, il newyorchese Kubrick, sapete benissimo, che oramai trasferitosi da tantissimi anni in una villa nelle campagne londinesi, viveva da misantropo, isolato dal resto del mondo e, anche per quanto concerne i ciak di Eyes Wide Shut, non intese dunque assolutamente trasferirsi negli Stati Uniti e più precisamente nella Big Apple. Preferendo dunque girare nei suoi dintorni e dalle sue parti per pura convenienza, potremmo dire e supponiamo noi in modo facilmente deduttivo, emotiva e organizzativa.
Trama:
L’apparentemente felice coppia agiata, quasi altolocata, formata dai coniugi Bill Harford (un Tom Cruise in grande spolvero, accusato ingiustamente d’inespressività, invece adattissimo per il ruolo e magnetico) e la sua sensuale e bella consorte Alice (Nicole Kidman), si reca a un party mondano prenatalizio ricolmo di gente economicamente abbiente, ripieno e debordante di persone ricche e uomini e donne nababbi, appartenenti all’alta società, sì, alla cosiddetta crème de la crème…
Di ritorno dalla festa, dopo aver fumato marijuana, Alice intimamente confida a Bill una sua sfrontata fantasia erotica. Al che, all’improvviso, Bill se ne turba profondamente e, progressivamente, la sua mente scricchiolerà, vacillando in modo a sua volta perturbante soprattutto per noi spettatori che assisteremo al suo lungo, notturno peregrinaggio delirante all’interno dei meandri d’una periferia di Londra agghiacciante ove misteriosi personaggi equivoci gli e c’appariranno nelle vesti, anche interiori, più strampalate e inquietanti. Bill, in gran segreto e sotto mentite spoglie, in titubante camuffa riuscirà con l’inganno ad entrare a un’altra festa stavolta però molto particolare, anzi, presenzierà a un festino orgiastico ove gli scambisti commensali sui generis consumeranno, dirimpetto ai suoi occhi allucinati ed eccitati, al contempo esterrefatti e increduli, pietanze e amplessi di natura carnale assai provocante…
Bill, celatosi dietro falsa identità, in questo affascinante e perverso suo onirico, sconvolgente viaggio all’inferno incarnato soprattutto da un ballo in maschera che assomiglia parecchio a una messa nera per pochi diabolici, morbosi eletti fortunati, sarà per l’appunto smascherato o semplicemente, davanti alla sua confusa morale borghese denudata d’ogni orpello sovrastrutturale, vedrà frantumarsi la sua coscienza, giocoforza obbligata a interrogarsi su dilemmi etici da lui, fin a questo momento, mai obiettata e davvero introspettivamente indagata?
Al che, il clima mite dell’anima dapprima equilibrata e intonata alla morigeratezza anche emotiva di Bill, pian piano, declinerà nel congelarsi instabilmente psichico più rabbrividente…
Film amatissimo, idolatrato dagli aficionado di Kubrick, di contraltare guardato invece con sospetto dai suoi detrattori, presentato in anteprima mondiale al Festival di Venezia, ufficialmente uscito in Italia nel giorno del primo ottobre del 1999, ostracizzato dai più retrivi e bigotti benpensanti anacronistici, Eyes Wide Shut rimane, rivista con obiettività sincera e col senno di poi, un’opera magnificente piena di visive, abbacinanti magniloquenze, una pellicola straordinariamente importante, rilucente di molte scene d’antologia filmate magistralmente, girata in modo formalmente eccellente e sovente addirittura ipnoticamente trascendente.
Eppur forse è vero che la stanchezza e la senilità d’un Kubrick oramai ai suoi ultimi giorni di vita, inevitabilmente s’avverte, poiché Eyes Wide Shut, malgrado i suoi irraggiungibili pregi, trasuda, a distanza di oltre due decadi dalla sua release nelle sale, di decadentistica tristezza leggermente irritante.
Kubrick è inconfutabile che, in tale suo film, abbia adottato filmicamente e ideologicamente uno sguardo “antiquato” nel filtrare il libro di Schnitzler, ascrivendolo un po’ troppo moralisticamente alla sua visione fin troppo disincantata e marcatamente distaccata dalla realtà e forse persino dall’esistenza reale.
Pedantemente, divenendo nel finale troppo esplicitamente didascalico e addirittura consolatorio.
E da lui non ce lo saremmo aspettato, onestamente.
Nell’eterogeneo cast impeccabile, fra gli altri e oltre ovviamente ai succitati Cruise & Kidman, il compianto Sydney Pollack, subentrato ad Harvey Keitel, in quanto quest’ultimo diede forfait dopo alcuni giorni di riprese per scontri avvenuti con Kubrick, Todd Field, la sexy e fulva Julienne Davis, Marie Richardson, la magnifica Vinessa Shaw, Leelee Sobieski, Rade Šerbedžija e Alan Cumming.
In conclusione: opera capitale, capolavoro intoccabile o guardabile per i nudi eccezionali e basta che creano estrema, ormonale confusione non solo mentale? Film geniale o genitale? Al posteriore della Kidman, no, ai posteri, la durissima sentenza assai tosta. Ah ah.
di Stefano Falotico