È stata la mano di dio (THE HAND OF GOD) di Paolo Sorrentino – Sarà largamente omaggiato nel mio prossimo libro che sto editando e correggendo
- Dolore, intorbidimento, intorpidimento, restaurazione, incupimento, ancora risorgimento, salvazione, amore e struggimento, pienamente viversi dentro. È stata la mano di dio a ricordarmi i miei ricordi pieni di romantico ardimento
Ieri, 15 dicembre di tale anno 2021, frastagliato da mille mie tribolazioni interiori, sconquassato come fui da turbinosi dubbi amletici dei più emotivamente tormentosi, perfino perniciosi, guardai su Netflix la nuova opera cinematografica, mirabolante, colorata e pindarica, superba e magnifica di Paolo Sorrentino, intitolata È stata la mano di dio.
Nell’attimo attuale in cui ho appena scritto quanto avete appena letto e negli istanti, forse addirittura minuti successivi nei quali mi prodigherò, appresterò a proseguire nelle righe che prossimamente, m’auguro, leggerete attentamente, decanterò il film di Sorrentino, intessendolo di lodi sperticate, come si dice solitamente. Non so se, al momento, tale film sorrentiniano, diciamo, sarà oscarizzato oppure no, naturalmente. Ciò mi par ovvio e io non sono un indovino.
Difatti, per quel che c’è dato sapere adesso, noi che non siamo veggenti come Jude Law/Lenny Belardo di The Young Pope, siam invece ora solo a conoscenza del fatto che È stata la mano di dio ai Golden Globes è stato candidato. E chissà se, nel febbraio dell’immediato anno a venire, sarà selezionato nella cinquina delle cinque pellicole, nella categoria di Miglior Film Straniero, che la mitica statuetta dorata si contenderanno, poi aggiudicandosi l’agognata e da me sperata vittoria finale che sarebbe, a mio avviso, legittimamente sacrosanta.
È stata la mano di dio, ribattezzato, per l’appunto, per il mercato internazionale col titolo The Hand of God.
Un film prodigioso, pregno di delicatezza armonica, suggestivamente avvolgente e inebriante, riscaldante i nostri cuori invernali e intirizzitisi non soltanto a causa di evidenti ragioni climatiche appartenenti a questi duri mesi dalle temperature assai nevose, piovigginose e rigide. Per me anche emozionalmente, nonostante tutto, freneticamente tanto sussultanti di vita in me riscalpitata all’improvviso quanto ancora indelebilmente nervosa e a tratti algida…
Intanto, penso che dovremmo noi tutti scalzare il vecchio, abbattendo seduta stante e prestissimamente ogni concetto di vecchiaia nostalgicamente deprimente, vincendo ogni vetustà e antiquata mentalità oramai insostenibile, anche perché presto sarà fine anno e, come consuetudine, nella notte di San Silvestro, allo scoccare della mezzanotte dell’anno per l’appunto passato e trascorso, superato e accantonato, abbandonato e dimenticato, in Piazza Maggiore, a Bologna, verrà bruciato il cosiddetto Vecchione, cioè un enorme fantoccio di cartongesso dalle fattezze e artificiali fisionomie, potrei dire, variabili come il tempo atmosferico, no, a seconda di chi per l’occasione l’allestì e anche stavolta ne costruirà, per l’occasione imminente e festante, la nuova versione che verrà immantinente arsa e incenerita con tanto di folla esultante e brindante, gioiosamente scalmanata.
Ma che c’entra ciò?
Dopo vi spiegherò meglio, in forma più precisa, persino lirica.
Come avrete avuto ampiamente modo di capire, leggendomi, m’auguro, di buon gusto sin ad ora, anzi, augurandovi buon anno, no, augurandomi che perlomeno, fin a qui, siate piacevolmente arrivati nella lettura, spero per voi lieta, sono un tipo bislacco e, infatti, spesso salto di palo in frasca, perdendomi nei meandrici corridoi sinaptici miei assai particolari e personali, smarrendomi nottetempo negli imponderabili anfratti dedalici della mia onirica, lunatica mente contorta e stramba.
Nel mentre, scorre la mia complessità emotiva, frequentemente priva d’una chiara via e di conseguenza vita cosiddetta retta e obiettiva, perfino pragmaticamente realistica, quindi avulsa da qualsivoglia direttiva normalizzante il mio spirito libero, altresì remota da ogni indottrinamento atto a irreggimentarci tutti in un’esistenza linearmente piana e adattata o adatta che dir si voglia a quella che posso, tranquillamente e con cognizione di causa, definire una schematica planimetria del doversi giustappunto adattare, coattamente e senza battere ciglio, a modelli di comportamento e di pensiero impostici con arbitrarietà per modo di dire adulta, a sua volta pianificata e allineata a un tipo d’educazione conservatrice e tradizionalistica ricevuta da noi nostri padri e da quest’ultimi emanataci ottusamente attraverso imposizioni spesso eticamente ambigue, distorte o perfino erronee.
Ah, mi sto perdendo in chiacchiere e, parafrasando Totò, detto il principe della risata, in pinzillacchere e quisquilie superflue e vanitose, forse addirittura prive di logica e, in tutta franchezza, noiose. Non intendo far la morale a nessuno, tantomeno esser pesante e pedante nei confronti di me stesso nel riflettere e riferirvi in modo pedissequo, nel trascriversi in forma ossessiva, minuziosamente o forse stupidamente, quello che or mi passa per la testa, sì, dentro la mia capa in maniera, giustappunto, pazzerella e priva d’importanza per il prossimo mio e nostro.
Ebbene, l’altra sera, così come poc’anzi dettovi, guardai il film di Sorrentino nominatovi, non ancora però agli Oscar nominato, bensì ai Golden Globes candidato. Opera eccezionale, financo enigmatica, poetica e impegnata, impregnata d’alta rinomanza e irradiante, trascendente potenza visionaria senza pari.
Bellissima opera che, nel suo folgorante incipit visivamente eccellente, ci presenta un personaggio figlio delle fantasie popolari non solo partenopee, vale a dire il Monacello. Il Monacello, a essere più precisi, è una tipica maschera carnevalesca come Pulcinella? No, è una sorta di folletto e/o spirito buono che, nelle tradizioni paesane, spesso d’ascendenza e matrice scaramantica, diciamo nella provinciale cultura superstiziosamente folcloristica del meridione più o meno napoletano, rappresenta e incarna l’anima d’un bambino innocente o d’una creatura pura, morta prima d’essere stata battezzata.
Che aleggia fantasmatica di qua e di là, vagando quasi da spiritello redivivo e Nosferatu sui generis, per l’appunto creaturale e innocuo, bambinesco e dolcemente infantile, il quale si rende visibile soltanto alla vista delle persone che gli stanno simpatiche o alle quali vuole comparire dinanzi per elargire loro strane benedizioni e donare benauguranti regali portafortuna. Oppure per lanciare loro dei messaggi di natura divinatoria.
Ah no, scusate, mi son confuso, nella descrizione appena sopra scrittavi, col Monachicchio. Di cui, nelle seguenti righe, vi dirò in forma abbastanza esaustiva. Tornando al Monacello, il Monacello è… Anzi, mi correggo, non si dice né scrive Monacello, bensì Munaciello. Altresì noto e scritto come Monaciello, a sua volta da non confondere col Limoncello, miei coglioncelli, eh eh. La parola coglioncello è un vezzeggiativo leggermente spregiativo del termine coglione, non esiste in italiano corrotto, no, corretto.
Così come detto e archiviato in ogni vocabolario della Lingua italiana, compreso Luca Zingaretti che sta con Luisa Ranieri, fra le protagoniste di The Hand of God, ah, per la miseria e per madonna impestata fradicia per dirla alla pugliese arrabbiato e blasfemo, che dico mai?!
Dicevo, coglioni miei, coglione non c’è, sì, il Munaciello non è nominato in nessuna nomenclatura del dizionario Zingarelli. Neppure sulla Treccani oppure sul Devoto-Oli.
Dio invece c’è o la bellezza della Ranieri induce a un’ammirazione della sua incantevole bellezza nel marmo incastonata e congiunta al me incantato che mi smuove a pronunciare e urlare, in automatico, un’esclamazione fra l’estatico e l’arrapato vicino all’infarto che impreca contro Cristo e tutti i santi?
Porco Giuda, non perdiamoci in masturbazioni, non solo mentali, del cazzo…
Dicevo, ed è già la seconda volta nel giro di poche righe che ripeto dicevo, Munaciello non compare nei vocabolari, non solo italiani.
Essendo codesta, un’espressione dialettale, quasi gergale, del volgo napoletano che si rifà al folclore per l’appunto locale e alla partenopea tradizione più regionale e popolare, miei uomini italici, dunque nazional-popolari. Di mio, ora fumo una popolare e vado avanti, esplosivamente eruttandovi quel che penso a mo’ di Vesuvio? No, dell’Etna, miei uomini da cannoni, no, da cannoli siciliani.
Ebbene, sia il Monachicchio che il Munaciello e/o Monaciello vengono accreditati però su Wikipedia. Perciò, in quanto stufo di riferirvi tutto nei minimi termini, miei uomini sempre al minimo storico, eh eh, cercatene le origini, non solo meridionali.
Dico or a te, amico. Anzi, ti domando… qual è la tua origine, anzi, quali sono le tue origini, insomma, di dove sei originario come si suol dire? Ah, perdonami, non importa che tu risponda a questa mia insulsa domanda, tutto sommato, inutile. D’altronde, che tu sia nato a Napoli o a Milano, che me ne fotte?
L’importante è che tu piacevolmente fotta e che io non venga fottuto, anche sessualmente, da te, soprattutto. Non so, infatti, se tu sia un gay attivo a cui io posso o possa piacere ma, per cortesia, a prescindere…, ancor parafrasando Totò, lascia stare il mio culo, sì, il mio popò.
A me piace quello di Luisa Ranieri.
E, godendo anche in forma masturbatoria della sua arrapante grande bellezza da Oh, Sole mio, no, non sol sorrentiniana, bensì da verace napoletana ruspante e procace, così come direbbero al sud, ch’è veramente tanta, me n’incanto, la decanto, una canzone di Pino Daniele magnifica, sanamente magnificandola e contemplandola, le canto? Quale canzone di Pino? Quella che si ode, distintamente, nei titoli di coda di È stata la mano di dio? No, quella che, nel suo famoso ritornello, recita la scrofa, no, la strofa… che dio ti benedica, che fica.
Detto ciò, terminato lo stordimento e il mio arraparmi, a cazzo duro, scalmanato e irruento per la Ranieri ignuda, debbo confessarvi, come peraltro appena fatto, fra l’altro, i miei atti impuri? No, puramente debbo inserirglielo, no, asserirvi che il film di Sorrentino trasuda di magia incantata e odora di sana e autentica, viva levità pura. È un film d’alta scuola cineastica davvero finissima, un tuffo intimista nel piacere marino della venustà lirica più abbacinante e commovente.
Una carezza lieve alle nostre anime, donataci in forma paradisiaca, un bacio bollente e sentitamente ardente effusoci parsimoniosamente, regalato ai nostri cuori spesso tristemente oscuratisi e raffreddatisi nelle durezze dei nostri cosiddetti cazzi personali più ammoscianti la passione sincera per la figa, no, per tale nostra vita soventemente spentasi come il Vesuvio.
Dalle profondità, invece, delle mie emotive, arcane viscere agitate a mo’ di burrasca robustamente ondosa a livello metaforico, dalla tempesta furente dei miei ricordi voraginosi e impetuosi, sta riemergendo, come dettovi, la mia vita precedentemente annegatami, e io sto risorgendone, muscolarmente potente, come il re dei mari Nettuno, forse…
Al che, suggestionato dalla visione di tale capolavoro stordente di Sorrentino, ancor ammainato, no, amareggiato, no, ammaliato dalla beltà frastornante della Ranieri, ipnotizzato dalla suadente bellezza di The Hand of God, suggestionato dall’apparizione, in questa pellicola, del vivace e al contempo perturbante Monaciello, la mia mente, giocando istintivamente, perfino inconsciamente, di associazioni mentali facilmente ricollegabili al mio passato da me stesso rimosso e obliato, ecco che la mia anima, obnubilatasi e appannatasi per tantissimo tempo scordatomi, ecco che il mio cuore, raffreddato, frenatosi, raffrenato e raggelatosi, rattristatosi negli abissi più glacialmente oceanici della mia vitalità affievolitasi, riscoccano combattivamente battaglieri in modo inaspettato, perfino implacabili e irruenti.
Stupefacenti e, nei riguardi dei miei opacizzati sentimenti passati, metaforicamente strafottenti.
Ergendosi statuario, nella schiarente, lucente solarità, da me quasi del tutto riagguantata e captata, con volontà indomabile pressoché riafferrata, d’una vita temeraria che sto riscattando dal suo sin troppo pateticamente languido passato mortifero e decadente.
Gioendo io esultante, ancora, del piacere bello e adamantino d’una esistenza ringiovanita e ricolma di giovamento e, anche se non ancora completamente resuscitata e ripristinata al suo innato lindore immacolato, perlomeno prossima a vivere con lietezza suprema, scevra da qualsivoglia patimento tetro e funereo.
E m’immersi, assistendo a questo film emozionante, nella tempesta mia stessa emotiva dei miei ricordi d’infanzia, annegando piacevolmente nella marea titanica di memorie tanto liete e morbide quanto ancor dolorose e prepotentemente romantiche.
di Stefano Falotico
Attualmente in fase work in progress.