Alì, recensione
Oggi, recensiamo lo splendido Alì firmato dal geniale Michael Mann (Heat – La sfida, Miami Vice, L’ultimo dei Mohicani). Una delle sue inarrivabili perle cinematograficamente più potenti e indimenticabili.
Ebbene, mentre impazza oramai da due settimane il “caso” Will Smith, in seguito al suo istintivo, discutibile gesto clamoroso ai recenti Oscar, ovvero l’oramai tristemente celebre pugno da lui sferrato allo stand–up comedian à la Don Rickles, cioè Chris Rock, gesto per il quale è stato severamente, non sappiamo però se giustamente, sanzionato fortemente, per l’appunto, dal cilindro magico delle cinefile memorie più incantate e cristalline, ripeschiamo tale capolavoro, sì, lo è indiscutibilmente, ovvero, inutile ridirlo, Alì. Checché se ne dica e, a prescindere da quanto, potremmo dire, recentissimamente, scabrosamente successo a Will in seguito al suo incontenibile, punibile e punito, chissà se sbagliato o solamente smodato, raptus di “follia” irosa, un film contenente una delle sue più sentite, strepitose, incredibili performance d’attore. Insomma, uno dei migliori Will Smith di sempre, incarnatosi straordinariamente e camaleonticamente in una prova recitativa, parimenti e al contempo, in forma antitetica rispetto al suo gesto, eclatante da applauso e stupore a scena aperta.
Alì, film della robusta e corposa durata di due adrenaliniche, romantiche, appassionanti e ardimentosamente entusiasmanti ore e trentasette minuti veramente eccezionali con uno Smith corpulento e allo stesso tempo sorprendente nei panni del mitico e leggendario Muhammad Ali, ovviamente. Alì, sceneggiato mirabilmente dal premio Oscar Eric Roth (Forrest Gump, Dune) e dal duo composto da Christopher Wilkinson & Stephen J. Rivele, già writer unitisi, professionalmente, per Gli intrighi del potere – Nixon, a partire da un soggetto e una storia ad opera di Gregory Allen Howard (Il sapore della vittoria – Uniti si vince), è naturalmente un biopic, d’alta scuola cineastica e finissima regia di classe veramente ragguardevole, incentrato su colui che viene quasi unanimemente considerato il più grande pugile di tutti i tempi, ça va sans dire, il già appena menzionato Muhammad Ali, nato però all’anagrafe come Cassius Marcellus Clay Jr. E ribattezzato Alì (accentiamo come nel titolo italiano, in originale non lo è) per ragioni ai più note e palesateci, narrate nella suddetta pellicola di Mann da noi qui disaminata, speriamo con esemplare acutezza e chiara asciuttezza esaustiva e precisa.
Trama, sintetizzata al massimo per non rovinarvi le sorprese e soprattutto le emozioni che certamente vivrete intensamente se, prima d’ora, non avete mai visto questo film mastodontico e maestoso…
Semplicemente, ci viene raccontata, col solito stile mirabolante di Mann, cioè fiammeggiante, romantico e sontuoso, assai classico eppur veloce, intriso di flashback spiazzanti come un jet–lag scagliatoci furentemente nel momento più inaspettato, stavolta inteso in senso lato e in senso, giustappunto, emotivamente sorprendente, la cronistoria di Cassius Clay (un titanico Will Smith). Più esattamente, ribadiamo, mediante salti temporali pazzeschi e bellissimi, si salta, come il ballerino del ring Ali, dal 1964 a ‘74. Anno storico del celeberrimo e monumentale trionfo del redivivo Clay, detronizzato dello scettro di re del pugilato e ingiustamente scippato della sua cintura di campione dei pesi massimi, contro il suo antagonista più ostico e forse cattivo, George Foreman (Charles Shufford), avvenuto a Kinshasa, nello Zaire, qui scandito dall’incalzante Tomorrow di Salif Keita.
Cosicché, in quest’arco temporale constante d’un periodo apparentemente breve, cioè consistente soltanto di una decade, assistiamo a una sarabanda stupefacente d’eventi, dall’ascesa del futuro Ali/Clay che vince il titolo contro Sonny Liston, ribaltando ogni pronostico, fino alle sue controverse amicizie con Malcolm X (Mario Van Peebles) e altri personaggi di rango, fra cui il cronista sportivo Howard Cosell (un magnifico Jon Voight), il quale diverrà il suo primo fan sfegatato oltre che amico inseparabile, dal suo altalenante rapporto col suo personal trainer Angelo Dundee (Ron Silver) e col suo cornerman (Jamie Foxx), dal suo primo amore con Sonji Roi (Jada Pinkett, la vera moglie di Smith nella vita reale) alla sua scabrosa relazione con Veronica Porché (Michael Michele), col nel mezzo la sua conversione all’Islam e, da ciò, la sua decisione di cambiarsi nome da Clay ad Ali e, conseguentemente, la sua drastica scelta di non partire per il Vietnam che gli costò il ritiro del titolo di campione mondiale, da Ali riagguantato proprio sconfiggendo Foreman nel match sopra dettovi.
Incandescente ed elegante fotografia di Emmanuel Lubezki e serrato montaggio mozzafiato di William Goldenberg per un capolavoro manniano trasudante passione sfrenata non solo per la settima arte più pregiata.
Un grintoso tour de force superbo per un Smith in forma smagliante, fisica e attoriale delle più mirabili.
Un film dall’andatura crescente, inframmezzato dall’ottima partitura jazzistica di Lisa Gerrad e Pieter Bourke.
Nel variegato cast stratosferico, anche Jeffrey Wright e Mykelti Williamson nei panni di Don King.
di Stefano Falotico