NEW YORK, NEW YORK, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento imperdibile con la nostra immancabile rubrica Racconti di Cinema, abbiamo deciso di viaggiare indietro nel tempo sino al ‘77, anno di uscita della pellicola da noi qui presa in analisi, ovvero il magnifico, ahinoi, a tutt’oggi sottovalutato, invero impeccabile e magistrale New York, New York, firmato dal maestro Martin Scorsese (The Irishman).
Opus crepuscolare, infinitamente malinconica e al contempo mirabolante e variopinta non soltanto a livello cromatico, scoppiettante e pirotecnica come i fuochi d’artificio deflagranti nel suo trailer originale, sfavillanti. Intrisi d’emanante bellezza lucente ed incontenibile euforia luccicante con profusaci e, potremmo dire, energicamente scagliataci vita adamantina e abbacinante, a sua volta intrisa da una vena melanconica atrocemente struggente e romanticamente strappalacrime.
Stavolta, partiamo subito con la trama, successivamente entreremo più vivamente e in maniera vivida nei dettagli in modo specifico:
L’ambientazione è, naturalmente, New York. Sì, la Big Apple rutilante e caotica di metà anni quaranta. Esattamente, l’incipit avviene, temporalmente, durante la festosa sera del 2 Settembre del ‘45 in cui, all’interno d’un enorme salone sfarzoso ricolmo di gente di varia estrazione sociale, in mezzo a un melting–pot scatenato, persone eterogenee brindano, ballano e si divertono appassionatamente per celebrare la resa del Giappone. Sì, la Seconda Guerra Mondiale è finalmente terminata e gli Stati Uniti brindano gloriosamente, qui esemplificati e simbolizzati da una congrega e colorata moltitudine, diciamo, d’uomini e donne che, quasi tutti in vesti sgargianti, ubicati in tale androne-albergo sovraffollato, si stanno sollazzando e dando catarticamente alla pazza gioia per sigillare e solennizzare la fine d’un incubo che sembrava interminabile. Dopo tanta sofferenza, come si suol dire, l’esplosione d’una joie de vivre salvifica ed estasiante.
Subito, avvistiamo l’esuberante Jimmy Doyle (Robert De Niro, in gran spolvero), un sassofonista dalle grandi ambizioni e dalla maglietta hawaiana alquanto vistosa, il quale, a sua volta immantinente, adocchia un’affascinante donna conturbante e misteriosa di nome Francine Evans (un’incantevole e seducente Liza Minnelli, qui allo zenit del suo atipico, particolare sex appeal post-Cabaret di Bob Fosse per cui vinse meritatamente l’Oscar).
Jimmy, con fortissima sicumera, senz’alcuna inibizione né false modestie titubanti, scevro d’ogni timidezza e pavore, privo d’ogni ritrosia, perfino ipocrisia, privo d’ogni freno inibitorio, in maniera decisamente imbarazzante e da gran pavone simpaticone un po’ cafone, se ne approccia con far sfrontato, assolutamente sfacciato, corteggiandola in modo insistentemente brusco e quasi molesto. Malgrado l’iniziale e del tutto comprensibile rifiuto netto e immediato di Francine, indubbiamente disturbata dalla sin troppo diretta avance poco educata di Jimmy, quest’ultimo non demorderà nella sua inarrendevole opera di seduzione esagerata, desideroso ardentemente di averla sua a livello sentimentale. Lei, dinanzi al turbinoso Jimmy, platealmente da lei folgorato che, neppur per un solo istante, desistette dal volerla a tutti i costi fortissimamente, piacevolmente abdicherà, soccombendone godibilmente. Poiché, probabilmente, anche lei fu subito attratta sensualmente e sentimentalmente da Jimmy e infatuatasi di classico colpo di fulmine reciproco, sebbene, per signorilità e per non apparire una donna troppo facile, subitaneamente e chiaramente non lo ammise, anzi, gli fu civettuola e severa impietosamente.
Fra loro due divamperà una fortissima, bollente passione travolgente. Francine è una cantante dalla voce stupenda, Jimmy, come sopra accennatovi, un suonatore di sax dal grande talento. Cosicché, dopo essersi amorosamente congiunti passionalmente, Francine & Jimmy decideranno presto di congiungere le loro brillanti forze e risorse artistiche impetuose al fine di far carriera unitamente in modo proficuamente luminoso. Dapprima, entrambi lavoreranno in un night. Poi, da focosi amanti e artisti inseparabili, grazie a un’orchestra, s’esibiranno pian piano a platee sempre più vaste e variegate.
Riscuotendo, nel giro di brevissimo tempo, uno straordinario successo professionale che si ripercuoterà a livello personale. Con esiti però non del tutto positivi e soprattutto inaspettati. Nel frattempo, infatti, Francine dichiara a Jimmy d’aspettare un figlio, nato dalla loro scalmanata relazione incandescente…
Una bellissima notizia, almeno a prima vista. Paradossalmente, proprio questa lieta novella, anziché suggellare e sacramentare la loro magica love story incredibile, rappresenterà assurdamente, invece, l’inizio della sua lenta, ineluttabile fine amara. Già, peraltro, recentemente incrinatasi e scricchiolata per via di crescenti, inesorabili contrasti caratteriali divenuti man mano inconciliabili e maggiormente irrisolvibili.
Giocando invece noi di parole, ci poniamo e vi poniamo questa domanda spontanea.
New York, New York è un forse irrisolto, troppo lungo, prolisso e ripieno di parentesi digressive e lentezze, dilatazioni narrativo-diegetiche superflue ed eccessive? Che ne smorzano la carica sua potente e strepitosamente armonica e romantica, in quanto risulta manieristicamente spezzettato e intervallato, in modo fastidioso, da noiose scene forse inutilmente ripetitive, irritanti e a volte stucchevolmente, pomposamente retoriche?
Ebbene, spieghiamo innanzitutto questo: New York, New York, ai tempi della sua release, fu presentato in tutto il mondo nell’edizione accorciata di 133 minuti. Originariamente, infatti, ne durava 162. Quindi, circa mezz’ora in più. Senza considerare, inoltre, che Scorsese girò circa il doppio di pellicola e, giocoforza, logisticamente dovette tagliarne metà. Scontrandosi non poco, in forma però “amicale” e sostanzialmente, solamente creativa, col suo produttore principale, ovvero Irwin Winkler. Il quale, infatti, dopo avergli prodotto, soltanto l’anno prima, Taxi Driver, non litigò mai davvero con Scorsese, tant’è vero che successivamente gli finanziò Toro scatenato e, recentissimamente, The Irishman.
Confezione di enorme lusso, ricostruzione ambientale veramente impeccabile e da leccarsi i baffi, fotografia eccezionale e d’altissima, sofistica scuola egregia e distinta, firmata dal leggendario László Kovács, l’indimenticabile hit che dà il titolo al film, cantata inarrivabilmente e mirabilmente dalla Minnelli (poi, ripresa con ancor più successo da Frank Sinatra), subito divenuta celeberrima, due interpreti, De Niro e la Minnelli, formidabili e in forma smagliante, tutt’e due candidati meritatamente ai Golden Globes come migliori attori protagonisti per commedia/musical così come la pellicola stessa fu nominata a Miglior Film della succitata categoria. Però, all’epoca, in gran parte, fu guardata con sospetto dalla Critica e mal accolta dal pubblico che, generalmente, la respinse ingiustamente. Gli incassi non furono disdicevoli ma molto al di sotto delle aspettative. Tanto da far cadere Scorsese in una profonda crisi depressiva e indurlo vicino al suicidio. Che, per nostra immane fortuna, oltre naturalmente per lui, vivaddio, non successe. La sua condizione mentale, a quei tempi, però fu davvero per lui pericolosa, aggravata anche dalla contemporanea fine della sua relazione con la stessa Minnelli. Sì, in quegli anni, Scorsese e Liza Minnelli stavano assieme e, forse, New York, New York, fu l’involontaria, profetica trasfigurazione, incarnata nell’alter ego di Scorsese, De Niro/Doyle, di quanto, di lì a poco, nella vita reale, sarebbe fra loro accaduto tristemente. Con l’unica differenza che Scorsese e la Minnelli non hanno mai avuto figli nati dalla loro meravigliosa, altresì amara storia d’amore difficile, turbolenta e tormentata. Detto ciò, tralasciando quest’aspetto aneddotico, comunque sia, imprescindibile e rilevante, reputiamo New York, New York un film, così come d’altronde già sopra largamente espressovi entusiasticamente, sì, effettivamente sbilanciato e non organicamente perfetto e inattaccabile, cioè non privo di marcati difetti e d’una certa estetica qua e là artefatta, eppur grandioso indiscutibilmente e da incorniciare eternamente e indelebilmente nella storia del Cinema più stupefacente. New York, New York è, forse paradossalmente, in virtù delle sue imperfezioni splendide e innocue, un film magistrale, specialmente molto toccante ed elegante. Musiche intramontabili del terzetto delle meraviglie composto di Ralph Burns, Fred Ebb e John Kander. Questi ultimi creatori e compositori della canzone del titolo, anzi, per meglio dire, Kander ne scrisse la musica ed Ebb il testo.
Finale col botto auto-celebrativo à la Falò: per scrivere invece questa recensione, vi vuole una gran testa.
De Niro & la Minnelli al massimo quasi storico, uno Scorsese più sgargiante della maglietta blu-hawaiana indossata da De Niro/Doyle. De Niro e la Minnelli, oltre a essere famosi per il loro talento smisurato, hanno rispettivamente un neo (dunque due, eh eh) distintivo e segno particolare bellissimo. Lui, sulla guancia, lei sotto un occhio.
di Stefano Falotico