LA FRODE (Arbitrage), recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto, speriamo apprezzato appuntamento, con la nostra usuale rubrica Racconti di Cinema, vi parleremo del film La frode (Arbitrage). Film piuttosto recente, cioè uscito solamente una decade fa, precisamente nell’anno 2012.
La frode è una bella, sottovalutata opus firmata dal regista indipendente, alquanto misconosciuto e purtroppo abbastanza inattivo da qui in poi, Nicholas Jarecki. Che, con questo suo, La frode, a prescindere da qualche cortometraggio e dall’inedito, perlomeno per il distributivo mercato nostrano, The Outsider, esordì subito, a livello cineastico e ad Hollywood, con tale lungometraggio positivamente accolto dalla Critica, assai meno però dal pubblico però, potendosi già fieramente e notevolmente avvalere d’un cast di pregevoli nomi altisonanti del panorama cinematografico d’oltreoceano dei più rinomati, a partire innanzitutto da uno strepitoso e magnetico Richard Gere in grande spolvero e forma, non soltanto recitativa, come si suol dire, smagliante.
Da Jarecki stesso scritto, oltre che naturalmente diretto, La frode dura centosette minuti avvincenti ed è un film drammatico bellamente increspato di tonalità thrilling d’alta sofisticatezza ingegnosa e dai risvolti non poco inquietanti.
Trama, un po’ contorta nel suo andamento imprevedibile ma lineare nel dipanarsi e succedersi rocambolesco degli avvenimenti narratici, piena di colpi di scena tanto spiazzanti quanto appassionanti:
Robert Miller (Gere) è un ricchissimo uomo d’affari dalla vita invidiabile, arrivato al vertice della cosiddetta piramidale scala sociale e, diciamo, monetaria. Cioè, è giunto positivamente al culmine considerevole e ammirevole, allo zenit, del successo professionale e, apparentemente, sentimentale per quanto concerne il versante privato. Ma non è tutto oro quel che luccica? Forse.
Infatti, a dispetto delle sue ingenti, assai cospicue risorse finanziarie, nonostante la sua vita, come detto, economicamente fastosa e il suo appartamento lussuoso in un grattacielo dorato, malgrado la sua affascinante, quasi coetanea moglie attempata ma sensuale, specialmente affettuosa e ancora molto innamorata di lui, Ellen (Susan Sarandon), e l’avvenente figlia Brooke (Brit Marling), la quale lavora nel suo gigantesco studio, Robert ha probabilmente molti scheletri nell’armadio. Da tempo tiene nascosta la sua adulterina, giustappunto, extraconiugale relazione passionale e sessuale con la sexy gallerista Julie Cote (Laetitia Casta), assai più giovane di lui, ma questo sarebbe solamente un peccato veniale e, invero, tralasciando fatui moralismi bigotti, rappresenterebbe sostanzialmente un problema, tutto sommato, alquanto trascurabile e di scarsa importanza, persino facilmente risolvibile, ai fini della sua rispettabilità indiscussa. Soprattutto perché, al momento, nessuno n’è informato ed è assai difficile, per via della scaltrezza di Robert, della sua intelligente discrezione e furba riservatezza, che il suo tradimento nei riguardi della moglie possa essere scoperto facilmente.
Il primo problema grave che, nella sua vita insorge come un tremendo fulmine a ciel sereno, neanche a farlo apposta imponderabilmente e fatalmente, è la non calcolata, scioccante morte accidentale della stessa sua amante, nientepopodimeno che Julie. Quest’ultima deceduta nella macchina di Robert dopo una serata trascorsa in compagnia. Dopo aver litigato con Julie, poco prima della tragedia descrittavi, Robert, per farsi perdonare, le propose di recarsi con lei nella sua confortevole casa isolata di campagna al fine di gustare una notte d’amore tanto bollente quanto spensierata, lontana dai problemi ingombranti e opprimenti del quotidiano più barboso. Al che, come poc’anzi accennatovi, Robert, durante il viaggio in direzione della sua abitazione ubicata in zona campagnola, ha un improvviso colpo di sonno e, per qualche attimo infinitesimale, perde il controllo dell’autovettura. Bastano però questi pochi, imponderabili istanti fatali per decretare la triste fine di Julie.
Su cui subito sta indagandovi lo scafato detective Michael Bryer (Tim Roth) della sezione Omicidi, un uomo risoluto e determinato ad arrivare a una risoluzione di quello che, fin dapprincipio, si palesò ai suoi occhi come un inequivocabile, chiarissimo omicidio preterintenzionale. Come se non bastasse tale macabro episodio appena espostovi, episodio che naturalmente Robert tenterà di celare, dissimulandone la veridicità affinché la sua, finora inviolata reputazione intoccabile e la sua fedina penale immacolata non siano compromesse, nel frattempo, Brooke apprende e viene a scoprire in ritardo, scioccata e con suo immane dispiacere, che suo padre Robert ha, da parecchio tempo, laidamente tenuta nascosta e insabbiato un’altra verità decisamente disdicevole e, per l’appunto, compromettente. Difatti, i conti della società per cui lavora sono stati manipolati col beneplacito dello stesso Robert e il truffaldino aiuto d’un suo assistito. Per non finire in bancarotta e lasciare sul lastrico la sua famiglia per colpa d’un investimento sbagliato in Russia, Robert è stato costretto, giocoforza, a compiere una frode. Da cui il titolo italiano del film. Quello originale invece, all’inizio di tale nostro scritto, fra parentesi inseritovi, vale a dire Arbitrage, è più connotato di sfumature non poco evocative Arbitrage, tradotta letteralmente, è una parola che significa arbitraggio. Altresì, è una di quelle parole “intraducibili” perfettamente nella nostra lingua ed è perciò allusivamente permeata di molti possibili significati e consequenziali significanti che possiamo svariatamente darne. Ad esempio, decisione arbitrale oppure operazione di arbitraggio. Ma anche libero arbitrio…
Teso, compatto, con una fotografia slavata ma efficace di Yorick Le Saux, sorretto dalla prova d’un Gere che, malgrado stonatura, qualche compiaciuta smorfia di troppo forse non necessaria e alcuni fastidiosi, proverbiali suoi tic espressivi da eterno piacione, da lui esibiti sfacciatamente anche in frangenti poco pertinenti rispetto all’escalation della drammaticità d’alcune situazioni mostrateci, per tale sua performance, comunque sia eccellente, fu candidato ai Golden Globes, La frode si lascia vedere volentieri.
Tim Roth è bravo ma la caratterizzazione del suo personaggio risulta un po’ caricaturale. C’è parsa, infatti, esagerata la sua continua gesticolazione infermabile e la sua perenne, forzata posa dinoccolata da investigatore segugio col fiuto, come si suol dire, da tartufo e l’aria dell’apparentemente innocuo cane bastonato che però, sotto sotto, la sa lunga come una vecchia volpe infallibile. Una prova, quella di Roth, dunque buona ma al contempo di maniera e leggermente studiata, priva cioè di quell’istintiva, lodevole naturalezza che l’ha sempre contraddistinto in modo egregio in virtù, per l’appunto, della sua innata spontaneità attoriale veramente, simpaticamente stimabile.
Curiosità: il ruolo incarnato da Gere fu inizialmente proposto ad Al Pacino. Il quale accettò ma poi, per divergenze creative dell’ultimo momento, abbandonò il progetto.
di Stefano Falotico