WYATT EARP, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto, speriamo apprezzato, appuntamento settimanale coi Racconti di Cinema, torneremo indietro nel tempo, cinematograficamente parlando, ovviamente, sino a metà degli anni novanta, più precisamente nel ‘94, anno d’uscita nelle sale mondiali del film da noi seguentemente disaminato e preso in questione, vale a dire Wyatt Earp, scritto (assieme a Dan Gordon) e diretto da Lawrence Kasdan (Il grande freddo, Silverado). Pellicola della più che corposa, osiamo dire decisamente eccessiva, spesso noiosa e soporifera, durata di tre ore e undici minuti abbondanti, Wyatt Earp è un western malinconico e crepuscolare che, all’epoca, fu quasi unanimemente mal accolto dalla Critica e in gran parte snobbato dal pubblico. A tutt’oggi riscontra, sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com, una discreta eppure non appieno sufficiente valutazione, in percentuale, del 47% di opinioni positive. Considerato quindi, quasi da chiunque, come un colossal(e) flop, su ogni fronte, di proporzioni bibliche e ciclopiche, Wyatt Earp, a prescindere dalle sue lentezze e da indubbie tediosità facilmente percettibili ed evincibili specialmente nella sua parte centrale, prolissa e forse addirittura inutile ai fini dell’intreccio espostoci e dell’economia narrativa del racconto da Kasdan allestitoci e proposto, è davvero così brutto e disdicevole come generalmente, giustappunto, si dice in modo qualunquistico e frettoloso? Decisamente no. In quanto, a nostro avviso, è invece tutt’altro che un film sbagliato, è un film fascinoso e sontuoso, fotografato in modo meraviglioso, perfino elegantemente pittorico, da Owen Roizman (Quinto potere, Vigilato speciale e assiduo, frequente collaboratore di Kasdan, vedasi per esempio French Kiss) con soavi e vertiginosi elementi poetici d’alta scuola e maestria cineastica impari e deliziosa. Un film, dunque, ampiamente da rivalutare quanto prima e da rivedere presto con più oculatezza e saggia giustezza in modo tale da smentire immediatamente molte dicerie a riguardo, vetuste e superficiali in modo ingiusto, che a loro volta sarebbero indubbiamente da ravvedere seduta stante in maniera netta e subitanea.
Trama: Siamo in piena Guerra Civile Americana e, dopo il folgorante e spasmodico incipit che ci anticipa, di salto in avanti temporale, il duello finale e la mitica sfida all’O.K. Corral, avvenuta a Tombstone, che vedremo verso la fine, veniamo poi catapultati, di rapidissimo flashback sui titoli di testa fluenti, in una fattoria sperduta nella natura brulla dell’Illinois, Monmouth, ove vive, abbastanza fastosamente, una ricca famiglia patriarcale capeggiata dal burbero ma al contempo previdente Nicholas Earp (un titanico e carismatico, come di consueto, Gene Hackman), padre di tre figli, rispettivamente di nome Wyatt (da bambino interpretato da Ian Bohen, da grande da Kevin Costner), Morgan (Linden Ashby) e Virgil (Michael Madsen). Questi ultimi due, maggiori d’età rispetto a Wyatt, partiranno per il fronte. Successivamente, assistiamo a Wyatt cresciuto e pasciuto che, dopo essersi cimentato, giocoforza e contro la sua volontà, in uno scontro all’interno d’un impolverato e malfamato saloon avvenuto nei riguardi del bifolco e violento Ed Ross (Martin Kove, sì, Sensei John Kreese di Karate Kid e Cobra Kai), ritorna nella sua patria natia per dichiarare romanticamente il suo eterno e languido amore alla sua indimenticata ragazza dei suoi anni infantili, l’avvenente Urilla Sutherland (una commovente Annabeth Gish). Wyatt la sposa ma, tragicamente, di lì a poco, la dolce Urilla si ammalerà di tifo, morendo fra le braccia dell’inconsolabile Wyatt. Il quale, distrutto dal dolore, col cuore spezzato, affranto terribilmente, vagherà in stato pietoso, trascinandosi da ubriacone lungo le più lerce e maleodoranti strade notturne del vecchio West più disumano e fatiscente… Diverrà un ladro di cavalli ma suo padre lo salverà, evitandogli la forca, cioè la pena di morte con conseguente, inevitabile e atroce impiccagione annessa ma raccomandandogli di fuggire lontano e di non mettere più piede in quel posto spietato. Wyatt, da bandito fuorilegge, per un suo atto eroico, diverrà prima vicesceriffo e poi sceriffo della burrascosa Dodge City ove incontrerà lo strampalato ex dentista, divenuto a sua volta giocatore d’azzardo incallito, Doc Holliday (un grande, gigionesco in modo sublime, Dennis Quaid forse nella sua migliore interpretazione in assoluto della sua carriera).
Secondo il dizionario dei film Morandini, dal quale testualmente estraiamo la sinossi scrittavi e il giudizio espressovi, Wyatt Earp è soltanto erroneamente, miseramente questo: …di impianto revisionista… è un western inetto… il verismo l’uccide l’aura, il colore del contorno confonde il ritratto, il dettaglio studiato della quotidianità… appartiene alla condanna del kolossal… (Silvio Danese). K. Costner recita come se Earp fosse un dirigente della middle–class, surclassato dal Doc Holliday di D. Quaid. La musica di James Newton Howard ridonda.
Una critica troppo impietosa, questa mostratavi di Morandini, da svecchiare e scalzare in quanto Wyatt Earp è, sì, disomogeneo lungo le sue 3h di durata, sbilanciato, sfilacciato e farraginoso in alcuni punti, altresì è struggente, specie all’inizio, pregno di pathos non trascurabile e con un finale che, nel salendo palpitante della tensione, riesce efficacemente a sopperire alle sue carenze, palesandosi come un film vincente sotto numerosi aspetti. Non è inoltre, peraltro, vero che Costner reciti qui come se fosse un anonimo impiegato WASP, di certo non eccelle eppur è molto convincente e la sua performance risulta sfaccettata, sentita, dolente e sofferta, contemporaneamente grintosa e potente.
Cast infinito e incredibile ove oltre ai nomi di Costner, Hackman e Quaid, ai sopra citati Madsen e la Gish, s’aggiunge una lunghissima lista che comprende, fra i tantissimi nomi, Tom Sizemore (Indiziato di reato), Joanna Going, Catherine O’Hara, JoBeth Williams (Poltergeist – Demoniache presenze), Jeff Fahey, Isabella Rossellini, Bill Pullman, Adam Baldwin, James Caviezel e Mare Winningham.
di Stefano Falotico