C’ERA UNA VOLTA IN MESSICO, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento immancabile, speriamo apprezzato, coi Racconti di Cinema, disamineremo C’era una volta in Messico (Once Upon a Time in Mexico), distribuito nelle sale nel 2003 e firmato da Robert Rodriguez (Spy Kids, Machete).
Ascrivibile, in forma dizionaristica e puramente classificatoria, in forma generalista, alla cosiddetta trilogia del Mariachi, facente parte d’un terzetto insorto e generatosi per casualità all’interno dell’excursus filmografico di matrice rodrigueziana, inaugurato giustappunto dalla pellicola cult El Mariachi del ’92 con Carlos Gallardo (qui in vesti, esclusivamente, di produttore), poi trasfusosi in Antonio Banderas che ne ereditò il ruolo in salsa hollywoodiana con Desperado nell’anno 1995, C’era una volta in Messico, così come per il capostipite poc’anzi citatovi e il suo secondo episodio, è un film, oltre che diretto, scritto e prodotto dal regista di Dal tramonto all’alba e dura, scorrevolmente, un’ora e quarantadue minuti netti, sanguigni, perfino sanguinari, adrenalinici, suggestivi e corposi. Sebbene, premettiamo subito, C’era una volta in Messico non possiamo di certo definirlo un capolavoro, in quanto non è un’opus eccelso e perfetto, bensì semplicemente spassoso e, in molti punti, inventivamente divertente e, a tratti, appassionante dalla discreta amalgama che mixa, con gusto e sapida ironia, scanzonato entertainment da pastiche guascone all’action secco e violento. Alternando momenti leggeri d’ilarità ad altri più orientati al melò più romantico eppur mai serioso né banale e/o convenzionale.
Trama:
Stavolta, il Mariachi (Banderas) è richiamato in servizio da un losco, seppur bellissimo e affascinante, misterioso agente, sotto copertura, della CIA (Johnny Depp), al fine di sabotare un complotto e l’assassinio pianificato e ordito ai danni del Presidente messicano.
In questa temeraria e assai pericolosa impresa intrepida, non priva di sorprese, sarà affiancato da due fidi scudieri (Marco Leonardi & Enrique Iglesias), alla pari di lui, chitarristi di pregio.
Secondo le testuali parole del dizionario Morandini, dal quale trarremo, sottostante, un breve estratto…
Rodriguez dice che il progetto è nato dal suo amore per Sergio Leone e dagli incoraggiamenti dell’amico Q. Tarantino. L’omaggio al grande maestro del western lo apprezziamo e sull’amicizia non si discute. Ma lui l’ha scritto, prodotto, diretto, fotografato e montato, e ne ha fatto uno scoppiettante, frenetico, chiassoso, furibondo mix di azione, western, pulp, hard boiled, all’insegna di un Kitsch sfrenato e di effetti speciali in alta definizione. La cosa migliore: J. Depp, irresistibile quando uccide un cuoco che ha cucinato l’arrosto di maiale che non gli piace, memorabile quando si aggira con gli occhi che grondano sangue, moderno Tiresia cinico e bellissimo. Gli altri sono solo nomi prestigiosi per figurine di un innocuo videogioco.
Concordiamo appieno col sintetico ma preciso giudizio citatovi e da Morandini espresso, però citando (perdonateci per la voluta ripetizione e il gioco di parole), perlomeno, il carisma e la bravura d’un Willem Dafoe e di un Mickey Rourke, entrambi villain, in grande spolvero e magnetici.
Puerile, sciocco, volontariamente esagerato e mai pretenzioso, con un bell’incipit ridondante e un finale romantico decisamente roboante, C’era una volta in Messico, qualche volta, annoia, sovente gira a vuoto ma si lascia vedere con piacere, intrattenendo al contempo con molti spunti simpatici e guizzi registici d’alta scuola e collaudata maestria.
Insomma, il regista di Sin City non volle realizzare un film indimenticabile né paragonarsi a Leone. Bensì, ispiratosene, desiderò soltanto creare un burlesco e scoppiettante fumettone, ripieno di citazioni e forti echi cinematografici, da mandar giù in un sol boccone senza troppa presunzione.
Ovviamente, ritorna la sensualissima Salma Hayek e assistiamo alla folgorante new entry di Eva Mendes.
di Stefano Falotico