I SOLITI SOSPETTI (The Usual Suspects), recensione
Ebbene, oggi voleremo indietro nel tempo, planandovi e atterrando all’anno 1995 in cui fu distribuito, nelle sale mondiali, il film da noi prossimamente disaminato, ovvero I soliti sospetti (The Usual Suspects), secondo opus registico, come si suol dire, sfavillante, impressionante e col botto del talentuoso, in futuro, ahinoi, discontinuo e altalenante, sempre comunque interessante, Bryan Singer (X-Men, L’allievo, Bohemian Rhapsody), avvenuto immediatamente dopo l’allor inedito, perlomeno da noi, Public Access del ‘93.
Sorprendente film dell’irresistibile durata, nel suo arzigogolato e fascinoso, articolato intreccio movimentato, di 105’, sceneggiato interamente, a partire da un suo soggetto molto originale, da Christopher McQuarrie (or habitué inseparabile e assai affiatato, diciamo, del suo fido amico Tom Cruise, suoi infatti gli script de La mummia, Edge of Tomorrow e di Top Gun: Maverick, oltre naturalmente all’ereditato e da lui proseguito franchise di Mission: Impossible). Il quale, per questa sua invenzione mirabolante e genialmente spiazzante, vinse meritatamente l’Oscar e, sempre con Tom Cruise, quest’ultimo sol perennemente in veste attoriale, e lo stesso Singer dietro la macchina da presa, autore di Operazione Valchiria. Trama de I soliti sospetti, semplicemente trascrittavi testualmente da IMDb per non rovinarvi le sorprese, se mai apparteneste alla sparuta schiera di rarissime persone che non hanno mai visto tale scoppiettante e superba pellicola dalla qualità acclarata e incontestabile:
L’unico sopravvissuto racconta gli eventi tortuosi che hanno portato a un orribile scontro a fuoco su una nave, iniziato quando cinque criminali si sono incontrati in un commissariato.
I cinque criminali, o presunti tali, cioè già tutti più o meno macchiatisi, in passato, di reati dei più disparati, or principali indiziati di quanto poc’anzi succitato, rispondono rispettivamente ai nomi del fascinoso e all’apparenza integerrimo, altolocato e insospettabile, giustappunto, Keaton (un Gabriel Byrne qui al massimo della sua allure recitativa e non, carismatico, mellifluo e fotogenico come non mai), mascheratosi dietro una vita, a prima vista, stimabile e altoborghese, lo strampalato e forse scimunito McManus (Stephen Baldwin), il torvo e tanto misterioso quanto caratterialmente burrascoso Hockney (Kevin Pollak), l’ermetico ma strafottente Fenster col suo viso indecifrabile da sfinge (Benicio Del Toro) e lo storpio Verbal (Kevin Spacey che, in maniera sacrosanta, vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista per tale sua performance oramai leggendaria ed epocale). Colui che, perdonateci il voluto gioco di parole, verbalizzerà la confessione, nella soprastante sinossi riportatavi, dinanzi al duro, chissà se davvero scaltro o ingenuo, commissario Dave Kujian (Chazz Palminteri). Verbal, metaforicamente strangolato e messo, giocoforza, sotto torchio dal severo Kujian, durante il suo interrogatorio sta rivelando il vero oppure sta, di sana pianta, inventandosi una storia diabolica? Echeggia, infatti, memorabile e sulfurea, agghiacciante mortalmente la sua frase inquietante: Io credo in Dio… e l’unica cosa di cui ho paura è Keyser Soze.
Chi è Kayser Zose? Mentre il fantomatico avvocato, di nome Kobayashi (Pete Postlethwaite), è un personaggio di fantasia, ovverosia fittizio, puramente immaginario, oppure esiste realmente così come il temibile e apparentemente inesistente, fantasmatico Soze?
Teso in modo spasmodico, avvincente dal primo all’ultimo minuto, diretto magistralmente da un Singer ispiratissimo, sorretto inoltre dalla bravura ineccepibile d’un cast da leccarsi i baffi in cui, oltre agli interpreti sopra singolarmente nominativi, son altresì da annotare le incisive presenze di Giancarlo Esposito, Suzy Amis e Dan Hedaya, perfettamente fotografato, con cromatici contrasti lodevoli e suadentemente chiaroscurali, da Newton Thomas Sigel, I soliti sospetti, a distanza di quasi un trentennio dalla sua ufficiale release nelle sale cinematografiche, intattamente conserva il suo forte valore e par non essere invecchiato nemmeno di un giorno. Forse non è un capolavoro ma “soltanto” un thriller congegnato argutamente ed esplosivo come un’oliata macchina ad orologeria infallibile e micidiale? Dici poco…
di Stefano Falotico