WONDER BOYS, recensione
Ebbene, oggi per i nostri Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo, approdando mnemonicamente e, in modo recensorio, all’anno duemila nel quale uscì il film da noi, nelle prossime righe, disaminato, ovvero l’intrigante e suggestivo Wonder Boys, opus targato e firmato dal compianto, altalenante eppur sempre interessante Curtis Hanson. Che, dopo una serie di pellicole probabilmente irrisolte, financo mediocri, quali per esempio La mano sulla culla e Un week end da leone, da non confondere col quasi similare nella dicitura, decisamente più famoso e superiore, Un mercoledì da leoni di John Milius, cominciò improvvisamente e vertiginosamente a distinguersi notevolmente, infilando e indovinando tutta una serie di film qualitativamente apprezzabili, peraltro spaziando, con forte e distinta personalità e versatilità rilevante, in svariati generi, significativamente diversificandosi e spaziando mirabilmente da The River Wild – Il fiume della paura al notevole L.A. Confidential, realizzando giustappunto tal bello Wonder Boys e poi girando il nient’affatto disdicevole 8 Mile con Eminem.
Wonder Boys è un film drammatico dalle leggiadre e godibili tonalità crepuscolari, melanconiche e morbidamente avvolgenti, sapidamente mescolante toni da commedia brillante, assai scanzonata e gustosa, a parentesi più seriose e riflessive, della durata corposa di circa 2h nette, interamente sceneggiato da Steve Kloves (In gara con la luna e writer di tutto il franchise di Harry Potter a partire dalla pietra filosofale…) che, per l’occasione, adattò un importante romanzo omonimo di Michael Chabon. Per tale suo adattamento, ricevette la nomination agli Academy Awards per la categoria best adapted screenplay, ovverosia per la miglior sceneggiatura, per l’appunto, non originale. Accolto favorevolmente dall’intellighenzia critica statunitense, tanto da riscontrare a tutt’oggi una lusinghiera media, su metacritic.com, equivalente al 73% di pareri positivi, eccone la trama:
Un professore di scrittura creativa, di nome Grady Tripp (un Michael Douglas compiaciutamente abbruttitosi che ivi pare più attempato di come, invero, lo fosse all’epoca), parzialmente disilluso, il cui unico romanzo, intitolato La figlia dell’incendiario, riscosse larghi plausi però oramai lontani, vive di rendita sul suo carisma e fascino da intellettuale pittoresco, quasi grottesco e tenero, e trascorrerà una settimana infuocata, burrascosa e sia professionalmente che sentimentalmente complicata. È stato, infatti, appena lasciato da sua moglie, deve vedersela col suo editor gay Terry (Robert Downey Jr.), ha ricevuto la notizia esaltante, altresì preoccupante, che la sua amante e rettore Sara (Frances McDormand) aspetta un figlio da lui, si trova costretto a gestire un cane morto ammazzato di proprietà del marito di quest’ultima, per di più deve gestire il “talento” peculiare, in senso tout–court, del suo miglior allievo tanto promettente quanto problematico grandemente, James Leer (un ottimo Tobey Maguire). Come se non bastasse, l’avvenente ma troppo giovane sua pupilla Hannah Green (Katie Holmes) ha un debole per lui e non fa nulla per nasconderlo in modo imbarazzante, attratta com’è da un uomo tanto più vecchio di lei quanto superiormente e irresistibilmente affascinante. Come andrà a finire in questo piacevole gioco di schermaglie amorose, battibecchi scoppiettanti e una miriade di personaggi stralunati e non poco caratterialmente difficili?
Premiato con l’Oscar per la migliore canzone originale Things Have Changed, composta e consuetamente cantata dal Nobel Bob Dylan, egregiamente fotografato dal nostrano mago delle luci Dante Spinotti, ex habitué di Michael Mann e già cinematographer per Hanson del succitato L.A. Confidential, Wonder Boys non è un film perfetto, anzi, tutt’altro. Forse, il suo minutaggio è eccessivo, andava quindi un po’ scorciato e la sua narrazione disomogenea appare, a lungo andare, scocciante, perdonateci per il voluto gioco di parole, rivelandosi sovente scollata e, a tratti, perfino scontata, alcune battute, inoltre, non vanno a segno a dovere e non sono appieno graffianti.
Ciononostante, trasuda di pura autenticità genuina e l’atmosfera che se ne respira è quella del buon, hollywoodiano Cinema classico, elegante ma non pretenzioso, autoriale ma non artistoide nel senso spregiativo della parola.
Gli attori sono in gran forma e Michael Douglas, pur recitando en souplesse e con la sordina, non usa il cosiddetto attoriale pilota automatico, bensì, con impari classe e superbo mestiere da interprete navigato, cesella e caratterizza il suo personaggio con istrionica bravura ineccepibile, infondendone, comme d’habitude, carismatica allure che vale, eccome, il prezzo del biglietto.
Wonder Boys, però, al di là del suo parterre e del suo cast eterogeneo e affiatato, al di là della stupenda cura formale dei dettagli, indubbiamente pregiata e, ripetiamo, in molti punti spesso addirittura magnifica, disperde molto del suo iniziale potenziale, smarrendosi lungo il suo filmico viaggio e ammosciandosi in un finale veramente troppo buonista e dolciastro.
Peccato, rimane un signor film ma poteva essere molto, molto di più.
Piccola nota finale: Frances McDormand, tanto grandiosa ed oscarizzata quanto scambiata per una bruttina, per non dire bruttona, qui in molte scene, invece, pare figa da morire. E i suoi occhi sono magnetici.
Scusatemi per tale faloticata in The End ma vi devo dire la verità. Comprendo quindi perché il personaggio di Douglas ne sia innamorato. Anche io, a vederla qui, me la sarei scopata.
D’altronde, il character della Holmes dice a Douglas che un grande scrittore, citando a sua volta l’insegnamento da lui impartitole, deve compiere delle scelte. Perciò, deve tagliare il superfluo e accorciare le parti troppo descrittive e i momenti esageratamente ridondanti e digressivi.
Ecco, il Falotico, cioè l’author di quest’articolo, è, che vi piaccia o meno, uno scrittore, anche recensore.
E avrebbe dovuto probabilmente “censurare” le ultime righe riguardanti le fighe, no, solo questa figa, la bellezza e il sex appeal insospettabili della McDormand.
Ma, in tal ca… o, non tagliamo un caz… o.
Francamente, nella scena in cui Douglas è a terra e la McDormand, in minigonna nera e calze nere, per aiutarlo ad alzarsi, si china, mi è diventato duro come un nero.
di Stefano Falotico