REDACTED, recensione
Ebbene, ivi nuovamente sganciato da pedanti e didattici, cioè superflui dettami editoriali che, indubbiamente, imbrigliano la creatività e la “spensieratezza” financo critica, disaminerò, in modo falotico, un encomiabile capolavoro del quale, stranamente e in modo criminoso, nessuno parlò e, dunque, figurarsi se oggi ne parla, celebrando invece, rimanendo in ambito bellico, opere sopravvalutate, queste sì, a mio avviso retoriche, quali Full Metal Jacket e affini.
Non linciatemi per “blasfemia” ma, in totale e asciuttissima, molto secca franchezza congenita, al mio animo veritiera, ritengo il kubrickiano opus poc’anzi citatovi, una mezza bazzecola se paragonato a quest’ingiustamente, ribadisco, masterpiece depalmiano. Film, quest’ultimo, che vidi al Festival di Venezia di tanti anni or sono e, onestamente, ricordo che mi piacque molto ma fui condizionato, nel mio giudizio personalissimo, dalle persone con cui, per l’appunto, lo vidi. Che, disdegnandolo, anzi, rettifico prontamente, non poco snobbandolo apertamente, avendolo lor liquidato leziosamente, mi praticarono una sorta d’immediato lavaggio del cervello del tutto osceno. Cosicché, per non apparire loro sgarbato, suggestionato da costoro che mi persuasero, forse involontariamente, a non amarlo, dunque non voglio certamente imputarli d’alcuna colpa, erroneamente e quasi immantinente, mi convinsero, ripeto, a dimenticarlo in fretta e parimenti a liquidarlo con superficialità pazzesca. Redacted, tradotto letteralmente, significa redatto… De Palma, maestro peraltro per antonomasia del Déjà vu in senso tout–court poiché, memore di Hitchcock, ovviamente e per sue stesse dichiarazioni, ispiratosene ma, attenzione, giammai copiandolo, semmai tutt’al più ricreandolo e alla sua unica poetica incontrovertibile plasmandolo in forma citazionistica e rigenerativa, è da sempre specializzato a squartare il velo delle apparenze, a svelare ciò che, a prima vista, sembra oggettivo e inconfutabile ma non lo è affatto. Proponendone inquadrature diversificate, in senso figurato, a mo’ per di più del kurosawiano Rashomon in formato ante litteram. Trama, stringata e testualmente sotto riportatavi da Wikipedia, stavolta, sì, copia-incollata. Che male c’è?…
«Il film è incentrato su un gruppetto di militari statunitensi di stanza presso un checkpoint in Iraq che, una sera, violentano a turno una quindicenne e ne bruciano il corpo dopo aver ucciso lei e tutta la famiglia. Alterna vari punti di vista cercando un equilibrio tra le esperienze di questi giovani sotto tensione, quelle degli esponenti dei mezzi di informazione e quelle della popolazione autoctona irachena». Invero, De Palma non propone invece stavolta, ed è paradossale, non credete, differenti “points of view”, comme d’habitude… E, nell’incipit, si “spaccia” per gli autori francesi di un documentario realistico. E ho detto tutto. Scarsamente apprezzato all’epoca, sebbene vinse, alla suddetta kermesse, il Leone d’argento per la Migliore Regia, Redacted è angosciante, girato con lunghi piani sequenza con volute riprese amatoriali da videocamera pre-Android odierni e sofisticati, fa paura nella scena dello stupro, agghiaccia in questa lunga notte macabra e orridamente incredibile, la notte orrifica della violenza carnale e dell’eccidio micidiale. Ma è tutto parzialmente, immensamente e immondamente reale. E il pianto, catartico, toccante e vivissimo dello straziato eroe di guerra Lawyer McCoy (Rob Dewaney), al pub con gli amici, in una serata apparentemente di festa per brindare al suo ritorno a casa, dinanzi alla moglie commossa quanto lui, con l’urlo strozzato in gola e le sgorganti lacrime di dolore incolmabile, dirimpetto proprio ai suoi buoni friends che lo riprendono con una videocamera simile a quella che filmò la terrorizzante mostruosità avvenuta a Samarra, è un pezzo di Cinema allucinante per bellezza ed emozionale grandezza abissale. Senza melensaggini di sorta, De Palma va dritto al sodo, ci racconta come sia stato possibile stuprare una “bambina” per colpa dello stress e dell’orrore di kurtziana memoria alla Marlon Brando di Apocalypse Now.
De Palma fa tutto, ivi, da sé, scrivendone soggetto e sceneggiatura, affidandosi alla fotografia dello “sconosciuto” Jonathon Cliff e al montaggio di Bill Pankow, rischiando tutto, in verità realizzando, genialmente, uno dei film più belli sulla guerra che si siano mai visti.
Uno dei più duri, dei più cinici, dei più romantici, dei più indimenticabili.
Un film all’unisono sulla vita e sulle vittime massacrate, finendo con titoli di coda che lasciano tramortiti e gelano il sangue sin ad arrivare alle viscere dei nostri occhi e cuori mortificati, al contempo pietrificati ed estasiati da un colpo di genio di questo livello fortissimo.
Il regista di Vittime di guerra (Casualties of War), a proposito del succitato Stanley Kubrick, utilizza Beethoven nel suo Arancia meccanica più potente di Orizzonti di gloria, innestato su questi drughi non da latteria Korova Milk Bar e non coi denti da latte, bensì porcelloni, soltanto due ma bastardi sin al midollo, ove il grassone, taglia extra large, non è AlexDeLarge, e lo smilzo è più ripugnante, umanamente, di quel Malcolm McDowell…
di Stefano Falotico