IL TALENTO di MR. RIPLEY, recensione
Il film non è bello come Jude Law e come disse e dice la Critica americana? Non è nemmeno brutto come la coppia Rosario-Beppe Fiorello. Sì, sono due cessi, sopravvalutati. Non male, comunque, la locandina italiana con la scritta qualcun’altro. Un apostrofo da gran figa, no, “correttissima” grafia! Ah ah.
Ebbene, perdonatemi per quest’intestazione dal tono confidenziale, quindi reputata mancante di “bon ton” a livello prettamente recensorio in quanto non è uso, secondo il “galateo” della cosiddetta intellighenzia di matrice elegante e canonicamente standard (altro gioco di parole), peraltro opinabile e faceta, appellarsi fin dapprincipio al lettore in tali termini troppo amicali e, per l’appunto, non consoni a una classicità stilistica, diciamo, consueta. Specificatovi ciò, essendovi preciso, no, mi correggo, precisando al contempo che sarò ivi nuovamente scevro da canoni editoriali, ripeto in un certo qual senso ricollegandomi a quanto poc’anzi dettovi, libero di svolazzare in forma pindarica, con una personalissima esegesi satirica, sganciata da ogni regola non esegetica, bensì estetico-etica, metaforicamente intendendoci, all’interno di quest’opus del compianto Anthony Minghella, dopo tanti miei panegirici forse superflui, financo ingenui, entr(iam)o nel vivo della f… ga, no, filmografia, no, questione, no, della mia recensione particolare e nei confronti di me stesso emblematica, forse sintomatica del mio vero essere non snaturato dalla canonicità per me irrilevante.
The Talented Mr. Ripley, da noi divenuto Il talento di Mr. Ripley, tratto dall’omonimo romanzo della giallista Patricia Highsmith, dallo stesso Minghella adattato, perciò sceneggiato oltre che naturalmente diretto, parte con un incipit nel quale assistiamo a James Rebhorn, preside della scuola di Scent of a Woman, dar, no, è brutto dirlo e scriverlo, fornire direttive al giovane occhialuto Tom Ripley, un Matt Damon in versione antitetica rispetto a Will Hunting ma (fac)simile, meta-cinematograficamente, al perverso John Malkovich del susseguente Il gioco di Ripley by Liliana Cavani. E in merito a quest’ultima pellicola poi accennerò in modo falotico…
Stando alla concisa ma a suo modo esaustiva sinossi riportataci da IMDb: Negli anni 50 il giovane amorale Tom Ripley viene mandato da New York in Italia affinché ritrovi e riporti a casa il ricco e viziato milionario Dickie Greenleaf; ma le cose andranno diversamente dal previsto.
Ecco, se Wim Wenders girò L’amico americano e la Cavani il film appena suddetto, Minghella filmò, per l’appunto, il seguente da noi disaminato seguentemente. Riuscite a seguirmi? Ok.
L’amico americano è il titolo italiano del libro della Highsmith che in originale si chiama Ripley’s Game, quest’ultimo è il titolo internazionale della pellicola cavaniana. Ammesso che qualcuno, al di fuori dell’Italia, non me ne voglia la Cavani, avesse o abbia mai visto tal bischerata, ahinoi, passata al Festival di Venezia alla pari dell’impresentabile, recentissimo L’ordine del tempo. Che, in ordine temporale, è venuto dopo. Che ve lo ridico a fare? Nel 1960, invece, The Talented Mr. Ripley ebbe già una trasposizione filmica per mano registica di René Clément, ovverosia Delitto in pieno sole (Purple Noon). Ho scritto, fra parentesi, Purple Noon, da non confondere con Purple Rain di Prince. Il protagonista ne fu Alain Delon dei tempi d’oro, all’epoca pressoché identico, quasi spiccicato al Jude Law del film di Minghella. Insomma, detta onestamente, Alain era ed è, malgrado la sua voglia di vendetta, no, assai veneranda età e il suo desiderio atavico di farla finita tramite l’eutanasia, decisamente più fascinoso del belloccio, spesso bamboccio, a mio avviso, Law. Minchia! No, Minghella deve però aver pensato, visionando certamente il film succitato, di affidare alla copia ante litteram e moderna di Delon, cioè ovviamente, ribadisco, Law, la parte ingrata ma fisicamente assai piacente dell’antagonista figo ma al contempo, paradossalmente, sfigato poiché trucidato, per modo di dire, Greenleaf. Qui si chiama Dickie, nel film di Clément, Philippe. Mentre nella novella originaria della Highsmith? Spetta a voi, stavolta, saperlo e, se non lo sapete, compitene le dovute ricerche, eh eh.
Delitto in pieno sole, nel suo francese titolo originale, s’intitola(va) Plein soleil. Greenleaf però è anche l’identità acquisita e il nome nuovo auto-affibbiato da Ripley dopo la sua uccisione nei riguardi di Greenleaf stesso.
Ah, scusate per lo spoiler. Vi ho ucciso, così facendo e dicendovelo, l’ospite inatteso, la sorpresa in attesa o sol (in)attesa?
Inoltre, altro breve appunto forse improprio, molto probabilmente tipico del Falotico, ovvero il sottoscritto, ridondante e ripetitivamente evidenzio marcatamente, me stesso in persona, se Rebhorn qui interpreta, anche se per pochissimi minuti, cioè quelli iniziali, la parte del padre di Greenleaf di nome Herbert, in Scent of a Woman, nei panni del sig. Trask, dovette risolvere il contenzioso avvenuto fra i personaggi rispettivamente incarnati da Philip Seymour Hoffman & Chris O’Donnell. Invero, a risolverlo e a dimidiarlo, anzi, ad annientarlo e a ridicolizzarlo in quanto fu all’origine inopportuno e sciocco crearlo e originarlo, fu il tenente colonnello Frank Slade/Al Pacino e non Vittorio Gassman de Il buio e il miele, eh eh.
O’Donnell della pellicola sopra menzionatavi di Martin Brest, invece e a sua volta, assomiglia a Matt Damon di questa del Minghella. Perlomeno, Damon n’è la sua versione incattivita e prosecuzione ideale in senso negativamente evolutivo? Per di più, uno dei migliori amici di O’Donnell, no, di Jude Law/Greenleaf, vale a dire Freddie Miles, è nientepopodimeno che lo stesso Philip Seymour Hoffman. Sia Rebhorn che Hoffman sono deceduti qualche anno or sono. Forse nello stesso anno? Controllate. Per dovere di cronaca nera, no, soltanto funebre e mortuaria, osé per niente, oso dire persino mortifera, Anthony Minghella morì nel 2008. Prima de Il talento di Mr. Ripley, vinse l’Oscar (immeritato?) per Il paziente inglese e lavorò altre due volte con Law per Ritorno a Cold Mountain & Complicità e sospetti.
Ecco che in tale versione minghelliana dell’opera dettavi della Highsmith, abbiamo perfino l’imbarazzante Rosario Fiorello, il quale assieme a Damon e Law, canta, memore del Karaoke da lui condotto con Katia Noventa che metteva a novanta nei nineties, la cover sui generis d’una celeberrima, insopportabile song, sì, canzone, poveri cazzoni, di Renato Carosone, Tu vuò fa l’americano! Rosario, insieme a suo fratello, Beppe Fiorello, alias Fiorellino, qua si dispera per la death allucinante e agghiacciante della suicida(tasi) Stefania Rocca nel ruolo di Silvana. La Rocca che s’ammazza perché il futuro morto ammazzato, Law/Greenleaf, la scopò ma amò ed ama anche trombare tutte le altre donne carine del suo pisello, no, paesello e preferisce, su tutte in ogni senso, anche sensuale, specialmente sessuale, le scopate con Marge Sherwood/Gwyneth Paltrow. Stefania Rocca compare per pochi infinitesimali istanti e, as Silvana, arrivò forse a letto con Greenleaf/Law, parimenti, arriverà poi esistenzialmente alla frutta, dopo aver leccato la banana di Law e aver svolto il lavoro di fruttivendola forse anche delle sue belle pesche mostrate senza vergogna in Viol@. Non c’è Asia Argento di Viola bacia tutti ma Law non solo bacia ivi quasi tutte, bensì ancor adesso fa impazzire tutte le donne che non scoperanno mai con lui, ah ah, perché son delle povere disgraziate poco belle che non trovano un lavoro nemmeno al mercato rionale o in quello ortofrutticolo d’una immaginaria Mongibello. Amalgamation, sì, inventiva amalgama d’una città geograficamente inesistente, nel film reale, no, finta eccome poiché ricreata, in ogni seno turgido della Rocca, no, in tutti i sensi, in quel d’Ischia e Procida. Ah, dimenticavo. La Rocca interpretò il film In principio erano le mutande e, dopo aver baciato Law, nella finzione, non so se nella vita reale, fra un ciak e l’altro, abbia assaggiato il suo cetriolo ma di sicuro sul set si bagnò più di com’è bagnata, in quanto affogatasi, nella scena della sua morte rivelata. Comunque, in Mezzanotte nel giardino del pene, no, del bene e del male di Clint Eastwood, Law fu uno degli amanti, bugiardi o meno, quasi minorenni del sex scandal riguardante Kevin Spacey? Ah ah.
Jude non è mai stato omosessuale, Spacey, sì, Jude Law ha sette figli. Ne manca ancora una alla cappella del suo “falso” papa pappone di The Young e The New poppe, no, Pope, no, uno (pere, no, però potrà essere anche una nel ca… o di fi… a ) all’appello per raggiungere Eastwood che di figli/e ne ha otto. Caro Jude, ne devi mangiare… ancora… sol una di mignotta/e, no, di pagnotte… Sia Eastwood che Law ne hanno… di soldi per mantenere, portare tutto il p… e in famiglia. Sono dei bravi crist(ian)i?
Comunque, hanno sempre tradito le mogli. Chissà, forse un giorno, spunteranno altri figli “illegittimi” come quello di Esther Aubry/Ludivine Sagnier della serie sopra eccitata (se messa sotto, no?), no, su citata di Paolo Sorrentino.
Non perdiamoci però in troi(at)e, cari figli di puttana e andiamo avanti con questa review (in)degna di calda notte, no, di nota. Appurato che Law sia sempre stato un grande scopatore alla pari del conclamato puttaniere Alain Delon (la sua famosa ex, Romy Schneider, morì di crepacuore? Ah no, pardon, eh eh), acclarato che la Paltrow adesso, dopo averglielo forse nascostamente tirato fra un Brad Pitt e un Chris Martin della min… ia, con l’intermezzo non dichiarato ma assai probabile d’un Harvey Weinstein che la raccomandò, a letto suo specialmente, per vincere l’Oscar di Shakespeare in Love, s’è dal Cinema ritirata e vende, online, prodotti da “monologhi della vagina”, torniamo alla disamina di questo film che è una mezza stronza, no, stronzata quasi intera. Sebbene, stando con chi, no, stando alle valutazioni della Critica d’oltreoceano ed estere, a tutt’oggi abbastanza alte, al di fuori del nostro Belpaese, soprattutto negli States, giustappunto, è ritenuto bono… Detta fra noi, se io fossi una donna, Law non mi piacerebbe. Infatti, non sono una donna. Fottetevi! Facciamo or i seri e non cazzeggiamo. Francamente, il film non è male ed è sicuramente meglio di Paolo Mereghetti che, nel suo Dizionario dei Film, gli appioppò due misere e risicate stellette, rosicando come al solito non poco. Definendo mancante di suspense gli omicidi e sostenendo, a gran torto, che la ricostruzione storica è approssimativa e ripiena di “licenze”, come i libri Adelphi, incongrue rispetto all’anno in cui si svolge qui la vicenda, il ‘57. Perché Paolo si concentra sempre su dettagli risibili e poco considerevoli, soprattutto se riguardanti cineasti che a lui non garbano? Anche i film di Kubrick e di Scorsese sono stracolmi di errori storici, se è per questo…
Cosicché, fra un altro attore adesso morto, Ivano Marescotti come colonnello Verrecchia, un’apparizione di Cesare Cremonini, fra un Renato Scarpa, sarto per tre min. scarsi, un sorprendente Sergio Rubini/ispettore Giovanni Roverini che viene indagato, no, rimproverato da Ripley/Greenleaf/Damon per il suo mediocre inglese quando invero lo parla molto bene e non viene affatto doppiato, una parte centrale alquanto improponibile in quanto inverosimile nei suoi snodi narrativi surreali e grotteschi, una magnifica, come sempre, Cate Blanchett giovanissima e commovente non solo per bravura eccelsa, un Jude Law che fa il piacione, anche lui come sua abitudine, a mo’ di Alain Delon de La piscina, no, Leo DiCaprio sbruffone, altresì marpione, di Titanic e non di The Aviator ove Jude fu Errol Flynn, una Paltrow bella e, a parte tutto, eccellente, sebbene relegata a un character troppo melenso e melodrammatico, esageratamente piagnucoloso, un Seymour Hoffman manieristico e gigionesco oltre il legale accettabile, dunque da recita parrocchiale, no, recitativa denuncia penale, l’ottima ma un po’ da cartolina fotografia di John Seale, questa produzione statunitense praticamente girata quasi interamente in Italia e, nel secondo segmento a Roma, finanziata dalla Paramount e prodotta da Sydney Pollack, non è malvagia come Ripley e perciò non da uccidere in mare aperto come Greenleaf, no, gettare via. Diciamo che, in molti punti, affoga come il personaggio della Rocca e galleggia a stento, ciononostante si salva e lascia vedere piacevolmente. A dispetto della sua prolissità sovente insostenibile e qua e là soporifera. Minghella era sofisticato, diciamocela! Giuseppe Fiorello è il fidanzato della Rocca. Mah. Non era Greenleaf/Law? Ah, no, Law è fidanzato con Sherwood/Paltrow ma tromba Silvana/Rocca Stefania alla faccia del cornuto e poi distrutto Fiorellino. James Rebhorn compar(v)e nel cast di Ti presento i miei con Blythe Danner, la madre di Teri Polo, no, Gwyneth Paltrow nella vita vera. Com’è risaputo e da me sopra ampiamente esplicato, Jude Law ha avuto molti flirt e innumerevoli donne fra cui Sienna Miller, Lindsay Lohan, Nicole Kidman, Scarlett Johansson, Cameron Diaz e Natalie Portman. Su queste quart’ultime relazioni, nulla è mai stato però ufficializzato. Secondo il mio “modesto” parere, la sua donna più bella rimane, a distanza di an(n)i, in ordine cronologico non alla Cavani, ma di sue chiavate, Sadie Frost. Affermo ciò personalmente e nudamente. Che io mi ricordi, non mi son mai masturbato sulla Kidman, sulla Johansson, sulla Diaz e sulla Portman. Sulla Frost, invece, di Flypaper, sì. Questa recensione forse non vale una sega ma sa il fallo, no, Falò suo.
In conclusione: finale a Venezia, ricompare Rebhorn, eh eh, e accade qualcosa di molto inquietante.
di Stefano Falotico