L’ARTE DI VINCERE (Moneyball), recensione
Pian piano, tramite Netflix ITA, sto recuperando molti film che, per via di circostanze avverse, ascrivibili a un mio periodo funesto che non v’interessa ma forse mi stressò e financo, tuttora imbattibile, ancor mi stressa e l’animo divora in modo indigesto, a causa di livori miei, chissà se congeniti, e a momenti circoscrivibili alle contingenze negative che mi successero, dicevo…, al cinema e perfino in streaming, all’epoca, persi.
Qui, il protagonista inoltre perde, tradendo dunque il distorsivo ed erroneo titolo italiano appioppatogli per errore di marchiano orrore? Ho commesso imperdonabile spoiler? Yes!
Ma com’è possibile? Ha il volto del vincente per antonomasia, alias Brad Pitt che, peraltro, da tempo immemorabile agognò di esserne, giustappunto, il principale ed indiscusso interprete assoluto.
Per il ruolo ivi da lui incarnato, ovvero il realmente esistente Billy Beane, altresì detto Beanie, all’anagrafe William Lamar Beane, fu candidato all’Oscar come miglior attore protagonista. L’arte di vincere ottenne 6 nomination agli Academy Awards fra cui quella nella categoria maggiore, ovvero Best Motion Picture of The Year. Ma non vinse neppure una statuetta. Anche le rispettive candidature andate a Jonah Hill as best supporting actor e alla sceneggiatura non originale, basata sul libro omonimo di Michael Lewis, liberamente adattata e romanzata da Steven Zaillian (The Irishman, Oscar per Schindler’s List) & Aaron Sorkin su story di Stan Chervin, andarono a vuoto.
Pitt per anni inseguì il sogno di girare, non solo come attore, tale pellicola da me di Q.I., cioè quoziente intellettivo, no, qui presa in questione. Infatti, ne fu anche il produttore primario. Prima però del regista designato, ovvero Bennett Miller, colui che tal film girò, anzi, meglio il passato prossimo e non quello remoto, quindi, ha girato (scusate le ripetizioni delle diverse coniugazioni del verbo girare), essendo un film del 2011, è trascorsa poco più d’una decade, dunque un arco temporale relativamente breve, perciò utilizzo, anzi, utilizziamo il plurale maiestatico… dicevo (tempo imperfetto, eh eh), il director doveva essere Steven Soderbergh. Puntualizzatovi ciò, eccone la scarsa e scarna, eppur a suo modo pertinente, sanamente concisa sinossi di IMDb, sotto trascrittavi fedelmente in maniera (iper)testuale e in corsivo inseritavi dal sottoscritto in forma assai fedele? Può essere, anzi no, vi appronterò due virgole + un paio di accorgimenti, nel sinteticissimo testo, assenti:
Il direttore generale della Oakland A, Billy Beane, è riuscito a mettere insieme una squadra di baseball con un budget ridotto, utilizzando delle analisi generate al computer per acquisire nuovi giocatori.
L’analizzatore, diciamo, esperto dei dati statistici e dei calcoli delle probabilità è il giovane Peter Brand, neo-laureato in Economia con la sfrenata passione per le salsicce e le ciambelle, datone il peso non specifico, no, corporeo da (ex) ciccione Jonah Hill, no, con la passion dello smanioso amante delle mazz(at)e…
A parte tal gioco di palle, no, i giochi di parole e i panegirici, non giriamoci attorno… come dopo un fuoricampo. Il film fa strike? Abbiamo i prati verdi, no, Chris Pratt e, più defilato, tutto pelato e già molto invecchiato, non ancora defunto, Philip Seymour Hoffman come trainer. Che qui rincontra Miller dopo l’Oscar, da lui, invece, sì vinto, per Truman Capote. Indossa il cappellino. E tanto di cappello poiché, pur avendo un ruolo “minore”, è comunque centrale e incisivo, come sempre, a livello attoriale.
Il film è bellino, Pitt di più, appare infatti bello e figo come non mai e la sua recitazione, seppur ottima, altresì leggermente caricata, fu sopravvalutata. Finale amarissimo e un po’ sdolcinato ma è un film che si lascia vedere tutto d’un fiato e un bel colpo piazzato sportivamente, no, cinematograficamente da Miller con indubbia qualità da poveretto, no, da fuoriclasse provetto nello spiazzare le aspettative degli spettatori, non solo in platea… Giusto quindi assegnargli una tribuna, no, tributargli un applauso, se non scrosciante, perlomeno importante.
di Stefano Falotico