“The Night of the Hunter”, recensione. Misticamente argentandolo di voce magnetica
Cacciatore mellifluo di bronzeo livore muscoloso nel lunare, metafisico licantropo
Charles Laughton, camaleonte per connaturata vocazione e “sprezzo” del talento da spezzettare in forme trasformiste già “inarcate” nel Mitchum a passo di sue palpebre ermetiche, crepuscolari come sobrio “alcolismo psicopatico” di un hunter desto e famelico nell’onirica Notte ammaliata di sé, incupito di funereo liquor fuggevole, anzi di fugacissima furbizia espressiva nell’impavida pallidezza d’una pelle levigata su portentoso sarcasmo. Dileggiator del suo brado illagrimarsi dentro, feroce di criminoso, teso piano messianico da indemoniato suo imbrunir il cratere vulcanico del lavico disincanto. Prigione soffusa d’iridi “livorite” nel buio specchiato di suoi tatuaggi “(a)nemici” nelle tante sue nemesi e “amnesie”. Carismatico istigatore dei più reconditi istinti, annusa gli abissi marini dell’umanità e la soggioga al suo gioco malizioso di “scaltra ipocondria”, virilissima dentro il melanconico suo bardarsi dietro una maschera cinica da spensierato buffone e ridicolo profeta.
Harry Powell, titanismo “tedesco”, convergenza di stili recitativi, monolitico enigma dal fascino attrattivo come calamite dense di vacue mestizie lì a bruciar adirate nei nervi martiri della Genesi cristologica, farneticazioni spacc(i)ate per follia, cosciente demenza irrisoria al puritanesimo bigotto, superomismo per tante interpretazioni psicanalitiche, indagatorio egli stesso di sue serpentine amorevoli al docile canaglia e poi al corpo guascone e maschio, esibito d’esoterico erotismo spettrale.
Non c’è trama se non un pretesto sciocco. Un mister nessuno che sbuca dal nulla, forse dai nostri incubi più arcani, antica modernità immolata a Dio satanico, pagliaccio delle sue personalità joker-ellanti-iellanti-elefantiache di gigantismo nella favola nerissima dello gnomo (non) essere… nero.
Un galeotto in possesso di un’informazione segreta, le “segrete” del tesoro. E il bambino li condurrà, “lapide” per la speranza rinascente della sua libera fuga catartica verso un agognato Paradiso.
Chi sa del tesoro? Due tesorini, figli della vedova d’un condannato al patibolo, Harper, forse il “ladro” da benedire della sua crucis evangelica. Così, Powell esce dalla sua cella e, dal gelo, rifiocca la neve calda, calore appunto heat duellante e antitetico del Love & Hate. Amore e odio, perenne scontro biblico e mitologico fra Bene contro Male, tra un infranto, angelico apostolo e il rovescio più scuro della sua medaglia, il Diavolo in persona.
Powell è rotto, un Uomo scisso, a metà dei bilici.
Ma c’è una tana che può salvare la vita. Come si fa ad acciuffare il suo “wanted?”. Semplice, sposare la signora Harper, sola-soletta nella casa delle fiabe… infantili.
Arriva nella cittadina, figlia di un’epoca futura e poi remota, senza Tempo nella cabala danzantissima dell’argentata fotografia di Stanley Cortez. Sogno, realtà e surreale in un intreccio proprio affabulatorio senza capo né coda, progenitore di Lynch e dei promontori di Scorsese.
Film che capti, sonnecchiandolo del suo magnetismo, che rammemora ricordi tenebrosi della tua anima rocciosa e poi friabile che s’arrochì, s’incenerì vagabonda di misticismo e demistificazione all’inconscio.
I desideri da reprimere, la riemersione di coscienza, pietra miliare e capostipite d’ogni capolavoro visivo.
Immagini atmosferiche “senza senso”, colte sul nascere e poi a dondolar acquatiche, una laguna dei peccati, delle colpe, dei firmamenti stellati su tramonti in bianco e nero nella frattura di nudità fosche, abbacinanti.
Film ch’è impossibile recensire per la sua valenza oltre la poesia. Perciò immane.
(Stefano Falotico)