La vita di Scorsese, al di là
di Stefano Falotico
Arrostiscono i pensieri, sbandanti su lacrime tanto maleodoranti quanto piacevoli nello “stizzirmi”, strozzato vago in notti alcoliche, raffrenate dal fosco imbrunire delle emozioni. Ma, proprio quando la fiammella del mio amore, lì lì per svanire, sta finendo di brillare, con parsimonioso slancio miracolante osservo New York, forse immaginandomi star fra le stelle a Los Angeles, la città degli angeli.
Come Frank Pierce, il paramedico “opaco” che, dal nero della sua anima, sempre morente e languida, s’increspa di gioie da “idiota” dostoesvkijano, fra un bicchiere colmo e traboccante ansia e spugne non assorbenti delle sue allucinazioni permanenti. Soffia sull’asfalto l’ambulanza, s’insinua a “claustrofobia” del dolore, sputacchia lampeggiante di “crociato” arrossire per un’ineludibile pietas.
Chi è Frank Pierce, nato dalla penna di Joe Connelly, filtrato a luci proprio traslucide da Paul Schrader, e “adombrato” nelle vertebre, strizzanti odor funerario, di Nic Cage? Occhi che s’illanguidiscono, brancolano come zanzare d’una pulsione sempre prossima alla morte. In dirittura d’arrivo nella stagione dell’eternità, del suo sonnambulo. Nicolas Cage è alto, qui Scorsese lo ingobbisce, ne scolpisce i muscoli dentro un camice da paramedico color “appassito” a loculo della cristologica Passione. Tanto sparisce Nic da diventare invisibile, macchina Thanatos d’un desiderio di requiem for a dream, d’un riposo beatificante fra le braccia di Patricia Arquette, all’epoca erano ancora innamorati l’uno dell’altra.
Vira nella nerezza più haunted, ghiaccio di palpebre stanche, arranca, sta morendo a ogni frame, negli svaniti istanti sta per (non) essere Amleto nella brillantezza sua che non possiamo sapere se fu. Sfuma, beve, alcolizzato d’un dolore interno e cronico.
Lui stesso da “Chrono”(metrista) nella scandita palpitazione d’una spettrale maschera incisa a scoppiar da un momento all’altro. In tal caso, la recitazione, prima trattenuta e fin troppo composta, “dimessa” e senza retorica acting di Nic, poi a divampare eccessiva, caricata in dinamitardo esplodersi d’incomprensione, frammentata in mille accelerazioni sul pedale dell’ambulanza e del suo sovrabbondare di tic espressivi da (non) vedente, cambia improvvisamente, detona in sfumate inflessioni d’un attore che abbiam sempre sospettato, nell’aspettarlo (im)pazienti, che potesse spingersi appunto oltre le soglie d’una efficacia “anonima”.
Qui, Nic trova la grandezza che solo Lynch vide e catturò in pelle di serpente da Cuore selvaggio. Diventa la mutazione perenne, il nevrotico palp(it)o di mano miracolosa, taumaturgica a iridescenza del trauma in lui stesso mai curato. Sta male, soffoca, delira e l’intero capolavoro nostro cinematografico, donatoci da Martin, vibra e dunque vive d’assoluta funzionalità alla mimesi sofferta, lancinante d’un Cage straordinario.
Nic è stempiato più del solito, è sfibrato, la sua voce è ancora più spezzata, la tempra del corpo atletico non regge il peso dell’esistenzialismo, dei complessi (in)giusti di colpa, spacca il muro del suono su musica stordente, esagerata, “fuori sincrono” dei già, di loro lo sono, fenomenali e spaccatutto Clash.
Una colonna sonora da brividi, pezzi sparati a raffica, sbriciolanti, evocano magma e furia, forza contorta, abrasione, lacerazioni e nervosa “centrale elettrica” del patire, del patibolo, della crocefissione per un Dio, il Pater bastardo di tutti, (in)esistente si trasfigura in Frank, un Cristo che raccatta i “morti” dai tombini, li solleva, s’alza in volo sul coro (in)ascoltato, cardiaco.
La morte regna sovrana, nello sguardo franto della minorenne Rose, l’Iris moderna e drogata più della “tossica” prostituta Jodie Foster, immacolata Concezione divina del Cinema. Che non occhieggia al furbesco, per questo Al di là della vita rimane una perla nascosta, da “scoperchiare”, un tabù, un “neo” alla De Niro nel Cage evoluto(si).
Perché Scorsese non fa Cinema di voluttà. Non ammicca per farsi i critici amici. Gira quel cazzo che vuole anche se targato Paramount. L’Universal produsse, sotto l’egida di Spielberg, l’apoteosi del Cape Fear, il promontorio.
Scorsese cancella la paura del vivere nell’incubo più incompreso della sua trilogia notturna, Taxi Driver, After Hours e questo lapidario, roventissimo, “sanguinario”, kurosawiano Bringing…