“Caccia spietata”, recensione
Never turn your back on the past
Uno slogan a promuovere un intero grande film incompreso. D’una “banalità” stupefacente eppure non c’è altro da aggiungere. Funziona diretto e secco come questa regia di David Von Ancken.
Presentato al Toronto Film Festival, inspiegabilmente mal distribuito qui da noi, è un’opera di tale eccentricità “balorda” da far sì che io, eletta stramberia incarnata nell’impersonare tal “vizio”, non potessi sfuggire al suo fascino “roccioso”, grezzo e tanto altamente sofisticato, di scuola pregiata e sottilissima, per l’eternità esser invaghito sobriamente di esso. Incatenato!
Diretto con maestria “spaventevole” per bravura tecnica, tempi perfetti su sincronizzati due volti “intagliati” nella pietra dei duri, Neeson e Brosnan, è un film costruito sul “nulla”. Una storia proprio di vendetta dalla trama tanto semplice da toccar livelli d’un parossismo acuminato in bellissimo frangermi dentro le sfumate increspature color crepuscolare del Cinema rovente, denso, forse oggi scalfito dalle “modernità” plastificanti. Appiattenti anche laddove basterebbe, come in questo splendido caso, solo “girare” e fluttuare liquidi di frame tra i falchi delle montagne. Dando fiato al “coraggio” della celluloide, impressionando i fotogrammi nelle immagini di paesaggi mozzafiato inquadrati con scaldanti filtri a bruciarci l’anima d’emozione fervida.
La vendetta arriva per chi sa aspettare…
Anche in questa tagline, nulla di nuovo sotto il Sole. Solita “sciocchezza” della revenge da servi fredda, nella calma diabolica. Invece, i raggi solari schiamazzano tensivi in lune d’enorme attrazione ipnotica, suadenti a elevar sonanti nostre liriche da licantropi agguerriti.
Sì, il regista, un “uomo venuto dal nulla”, ci regala il John Hillcoat che abbiamo sempre sognato e che forse mai sarà. Un western poetico come pochi, ma davvero profumato di ruggine e pura road… centrifugata nella “clessidra” della rabbia, di entrambi i contendenti a contundersi, consuma(n)ti a lubrificarsi un po’ di armonia e poi, di scatto, a fuggire, inseguire o essere inseguiti, più che dall’ombra del nemico, dal tormento metafisico. Dal demone del passato tornante, “orrendo”, a squamarti dentro, a farti urlar di gelo e paura nelle notti scure delle foreste in cui ti rifugi nell’estemporanea requie. Illusoria, come il canto “sirenesco” dei wolf, come un rocker triste che piange e ride nel virtuoso suo “catarro” su chitarra bluastra d’illividita limpidezza sgolante, inferocita in rugiade mansuete, linde e dolorose. Dell’esistenzialismo oltre le regioni confinanti dell’anima stanca. Qui, si combatte, le palpebre si stan chiudendo ma si apron d’incanto. E si feriscono. Le gambe crollano e vien scandita la battaglia che, anche se arranca per la bandiera bianca del predato già quasi abbrancato, si risveglia sempre incazzata e brada. Anime selvatiche.
Siamo nelle dirupi di Ruby Mountains, i lupi ululano, i cuori duellano e i coltelli sposano i fucili di arsioni all’amore, rubato, inganna(n)ti “per la pelle” a scannarsi per “stupidi” orgogli da uomini.
Siamo in “zona” guerra civile. Un sudista ce l’ha con un nordista. E, sino alla fine, non capiremo perché. Solo qualche “illuminante”, non tanto, flashback, qualche apparizione tra urla e fiamme.
Non voglio svelarvi chi (non) vincerà in questa fascinosissima sfida.
So solo che la fotografia, immortale, stupenda, è del grande John Toll. Direttamente dal suo amico Malick.
E il cameo di Anjelica Huston dice tutto.
Due interpretazioni titaniche su cui la spunta Brosnan “per un pelo”, nella sua prova migliore di sempre. Ma Neeson rivaleggia comunque di Liam chiaro come un miraggio sorseggiato nel deserto arido e fresco. Un Liam tosto, sgorgante.
Il titolo originale, poi, Seraphim Falls, oh mie cascate, vale già il prezzo forte.
Ora, stacca il biglietto e bacia il devil.
Qui c’è poesia, ragazzi. Cazzo.
(Stefano Falotico)