“Ronin” by John Frankenheimer

Hai paura di lasciarci la pelle? Beh, sì, mi copre il corpo.

Hai paura di lasciarci la pelle?
Beh, sì, mi copre il corpo.

 

di Stefano Falotico

 

La magnifica Parigi fredda dell’ultima perla polar

di John Frankenheimer

 

Cinque mercenari, appartenenti ognuno a un’agenzia segreta di spie, che non ci viene rivelata così come rimarranno nascoste le identità dei loro membri, chiamati semplicemente per nome “anonimo”, oggi oseremmo dire nick, vengono convocati in un luogo misterioso ubicato alla periferia di Parigi.

Sono stati assoldati per tale missione: riunire le loro forze e la loro esperienza in tecniche di guerriglia urbana per venire in possesso di una misteriosa valigetta, il cui contenuto però rimarrà a noi ignoto sin alla fine.

Insomma, il perno dinamico attorno a cui, è proprio il caso di dirlo, convergerà l’action nevralgico della struttura e della trama del film è il classico “colpo” da MacGuffin, quello stratagemma narrativo, diciamo espediente scaltro, “depistante”, coniato da Alfred Hitchcock nel cui “obiettivo” si concentra l’enfasi sulla quale ruota l’intera vicenda ma che, per gli occhi di guarda, il pubblico appunto, ha un aspetto totalmente irrilevante, proprio perché la sua importanza ci viene tenuta nascosta.

A capo dell’organizzazione, l’algida Deirdre (Natasha McElhone), che spiega alle spie, tutte specializzate in un campo (chi, ad esempio, nell’elettronica, chi nella guida delle auto), come portare assieme la missione, congiungendo le loro uniche abilità. Diciamo, una prova d’addestramento, con tanto d’ingegnoso piano, studiato nei minimi dettagli, per riuscire a estorcere dalle mani di un boss della mafia la valigetta tanto ambita.

Come si suol dire, in questi casi, è naturale che qualcuno tradirà perché forse è un infiltrato, la tipica talpa, che sotto copertura invece è schierato a favore dei “cattivi”.

E l’intreccio si complica. Chi fa il gioco sporco di chi? Chi è il “consigliere fraudolento?”. Chi sta fingendo di “arma a doppio taglio?”.

Il film è come un caffè amaro bevuto in un bistrot raffinato. Diluito nella pregiata miscela d’un Frankenheimer nel suo nostalgico, svettante canto del cigno.

Un Frankenheimer che torna alla grande dopo anni di appannamento, ambientando il suo ultimo capolavoro in Francia, fra le viuzze crepuscolari di Nizza, i tramonti languidi di pregna malinconia, inseguimenti automobilistici mozzafiato e “d’antan”, cioè ricreati in modo “artigianale” e “in diretta”, senz’uso della computer graphic o effetti speciali posticci.

Un film antico, quindi, memore di un’altissima scuola cinematografica oramai sbiadita dalla convulsa frenesia del finto luccichio dell’odierna, indigesta Hollywood tutta botti e spari ma, a differenza del grande nostro John, priva di anima.

Secondo gli stilemi proprio d’un classicismo da far rabbrividire per maestosa maestria registica, puntiglio tecnico, calibrata dosatura delle inquadrature, “ciniche”, secche e veloci come un’appuntita, ficcante, glaciale lama di rasoio, dopo tante peripezie, inganni e robusta adrenalina sontuosa, la missione viene portata a termine.

La valigetta finisce nelle mani dei buoni. Ma sono davvero buoni?

Su questa domanda, senza risposta, Frankenheimer ci stordisce d’altro impagabile retrogusto ambiguo da applausi.

Un film perfetto, che cresce col tempo. Sottovalutato quando fu presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia, è invece, ribadiamolo, un raro esempio d’impeccabile stile, rinvigorito da un parterre di volti d’attori straordinari, sui quali spiccano un grandioso De Niro “melvilliano” e il bessoniano Jean Reno, fenomenale accoppiata di recitazione sobria, giocata sugli sguardi, i furbi ammiccamenti complici, le “freddure” delle battute scritte dai due sceneggiatori, J.D. Zeik e soprattutto il solito beffardo, inarrivabile David Mamet, qui accreditato sotto il nome di Richard Weisz.

La fotografia nitida e acquosa, “allineata” alle rigide atmosfere decadentiste del film, a firma di Robert Fraisse, e le “sottili” location indimenticabili, contribuiscono a quel tocco di magia nostalgica ed emozionale, da lacrime agli occhi, tanto quanto la romanticissima colonna sonora di Ella Cmiral, ispirata, mesta, “dolorosa” e innervata dentro le coordinate d’una superba vetta melanconica dal profumo grande Cinema.

 

 

Lascia un commento

Home Another bullshit night in suck city “Ronin” by John Frankenheimer
credit