“Zero Dark Thirty”, recensione di Davide Stanzione
Forse è più comodo e agevole sparare a zero facendosi scudo con posizioni rigide e spartane, piuttosto che accettare la problematicità di uno sguardo, la schiettezza di una visione che delega gli interrogativi a chi guarda e non cerca certo le risposte nel tessuto intimo e interno delle proprie immagini. La Bigelow, nel suo ultimo film, tende al massimo le corde della tensione e problematizza, dando voce a una realismo documentato e documentario, veritiero proprio perché in esso i buoni assumono i comportamenti dei cattivi e viceversa, le demarcazioni si sfrangiano e gli elementi rassicuranti sono davvero al livello di guardia. Tenace, rigorosa e impietosa, la regista californiana trova il suo riflesso più limpido e cristallino nella meravigliosa interprete-specchio Jessica Chastain, un raccordo che congiunge due sguardi femminili volitivi e non convenzionali, muscolari ed energici, pronti alla sofferenza tesa e scattante, ad essere sole contro tutti (o quasi). Zero Dark Thirty è una tragica opera civile con bandiere americane in penombra che si addensano nei margini delle inquadrature, il racconto frustrato e logorante di un obiettivo da raggiungere a dispetto delle impotenze dolorose e inesorabili e dell’approssimarsi implacabile di un fallimento, la cronaca di una fine quasi ineluttabile, a cui non può che fare da controcanto una storia macchiata da pieghe collaterali che sono anche innegabili piaghe, adombrate da “peccati” schiaffati in faccia allo spettatore in tutta la loro animalesca ferocia. La protagonista, mossa da quella riottosità ribelle ma anche stranamente controllata nel perseguire ciò che intende ottenere sopra ogni cosa, non la si conosce mai fino in fondo: non si sa cosa davvero si muove, vive e pulsa dietro quei capelli rossi e lo sguardo da ragazzotta costretta a crescere troppo in fretta, quei pasti alla spicciolata consumati freneticamente, quel suo essere volutamente asessuata, quell’asservimento totale a una meta che finisce col coincidere con la sua stessa vita. I suoi veri sogni, i suoi veri amori, la sua vera anima ci è negata, la sua autentica rabbia viene fuori solo qua e là, e l’unico barlume di autentica verità, sotto quella scorza coriacea, emerge solo nel bellissimo e dolente epilogo, unica concessione sincera a uno spettatore al quale fino a quel momento la Maya della Chastain si era inesorabilmente negata: le tensioni si sciolgono, le lacrime scorrono a fiumi. Come un lavacro conclusivo e solo in apparenza purificante, un’espiazione collettiva di colpe forse necessarie, forse (in)evitabili, di sicuro ancora non del tutto comprese a dovere nella loro profonda ambiguità. Zero Dark Thirty squarcia le fragili velature di un abisso (a)morale in cui si addensano le frattaglie di un’etica mutilata e ci costringe a guardare dentro di esso. Raccontare e non giudicare per rimettere, a chi osserva dall’esterno, il vero lavoro sporco di riflessione, è l’unico atto eticamente possibile di uno sguardo grandioso e impeccabile come quello di Kathryn Bigelow, spogliatasi dei suoi orpelli qui come non mai, subalterna a un’esigenza pressante di verità che suona perfino generosa e maestosa: basta vedere l’interminabile scena del blitz ad Abbottabad culminante nella morte del grande capo Osama bin Laden, una sequenza magistrale epurata delle soggettive convulse di Point break e Strange Days. Dinamica ma terribilmente controllata, impetuosa ma anche secca. Dritta al cuore (di tenebra) di una nazione.
Firmato Davide Stanzione