Alì di Michael Mann

Ali Will Smith Michael Mann

 

 

di Stefano Falotico

 

Le Ali della grandiosità

Volteggia un discusso eroe lungo gl’impolverati sentieri del suo destriero, coriaceo s’invola a mantello alato che striscia giocoso di mosse prelibate, inafferrabile sferra pugni secchi e roteanti, guascone “delicato” d’avanspettacolo, saltimbanco del ring ove umilia i miseri altri fighter per nutrirsene vivamente orgoglioso, cumulo di rabbia esplosiva che si arrampica nei suoi ventricoli, li amplia ed enfiato corrobora carnalmente la massa muscolare perfetta d’atletismo, elastico balletto che, danzando veloce, schiva i colpi e ne assesta di più ferini, attorcigliando la sua ieratica figura diabolica nel santo angelico d’una morsa vampiresca, bigger than life.
Il capolavoro più incompreso di Michael Mann abita in una zona pugilistica che va oltre, ben oltre i confini del Cinema di genere sportivo. Strizza la pelle di Cassius Marcellus Clay Jr. per immolarla alla sacra mitologia del più grande di tutti, fatto Muhammad Ali.
Cassius viene imbrigliato dalla stessa America che mai gli riconobbe in effetti i natali, perché era “negro”. Schiavo come tutti gli altri suoi consanguinei d’una alterità genetica mal vista alla base dall’irreprimibile culto sciovinista dell’ariano concepire l’uomo. I neri, ieri come oggi, nonostante il tanto buonista politically correct e Obama alla White House come risarcimento d’ogni Amistad mai davvero sigillato nell’urlo di libertà, sempre trattenuto in gola, smorzato dall’evidenza caudina dei fatti e delle psicologiche torture mascherate da leguleia “giustizia” etnica ché, se ti ribelli, t’interdiremo di ricatti, deturpando la tua “faccia” e macchiandola di più “colore”, i neri… non hanno mai trovato vero, urlato riscatto.
Tutte moine ruffiane per altro gelarli d’ipocrita asservimento, rispettoso come “ogni” cittadino comunque delle leggi “inappellabili”. Guai a mormorare.
Così, anche un campione di tal “razza” viene incastrato dal sistema bugiardo. E imprigionato per “diserzione”, una scusa banale per sottrargli il titolo.
Ed è qui, in questa fracture dolorosa da far paura, da ucciderti nelle membra del tuo decoro vitale, che Classius si “divinizza”, ascende oltre al decretarsi portabandiera dell’islamismo, prima ripudiato per “spirito di adattamento”, quindi elevato in gloria, estrema, “masochistica”, da disossarsi, da volontà spasmodica di non dichiararsi mai e poi mai vinto. Lo coprono d’offese, gli mangiano il Cuore ma più è dolente appunto l’umiliazione e più sputa il suo respiro, quasi cosmogonico per elevatezza valorosa, di brindarsi invincibile.
Così, dopo anni di “segregazione”, deturpazione alla sua anima, meschini “complotti” celati dietro qualche fascicolo “incriminante”, Muhammad ritorna a battersi.
Riunendo attorno alla sua figura il canto del cigno d’una intera massa di “indiani”.
Il prodigio registico di Michael Mann sta “solo” nell’aver fatto detonare il suo mito a eco selvaggio. Vi pare poco? Non è un film biopic, non un mero esercizio di stile sulla boxe, è.
Perché, quando incalza la musica, romba Rumble in the Jungle.
E lì non ce n’è per nessuno.
Ed è qui, nel Cinema strepitoso di Michael Mann, che Ali viene accentato di Alì.

(Stefano Falotico)

 

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