La Mission di Roland Joffé
di Stefano Falotico
The Mission
Se è la forza che determina il diritto, allora non c’è posto per l’amore in questo mondo.
Mendoza, redimiti. Prega nel commosso De Niro, fra lo zampillante scroscio delle cascate dell’Iguazú, “identiche” per “visionarietà” a quelle del Nilo Azzurro, verga il tuo dolore a lirica mansueta di titanica salvazione, eleviamoci in gloria a delicato, supremo Ennio Morricone. E gioiamo festanti, moribondi vinti d’una missione impossibile. Convertiti, dopo tante fatiche di Sisifo, alle grinze indistruttibili dell’orrore…, che ha distrutto la speranza che però vivrà in eterno in potenza eterea. Vittoriosi!
Una Palma d’oro fra le più contestate. Il monumentale, “strombazzato” Mission di Roland Joffé.
All’epoca amatissimo. Un’opera epocale. Poi, col passare degli anni, sempre più snobbata, maltrattata dai nuovi erronei e lapidari revisionismi della “critica”.
A diritto di cronaca, personalmente, rimane un capolavoro. Proprio in virtù delle sue sofisticate, “insopportabili” imperfezioni, a partire dalla già citata colonna sonora del nostro ispiratissimo Ennio Morricone. Una musica che incalza dall’inizio alla fine, è invadente, sofficemente pomposa, allineata in modo magistrale e poetico all’intelaiatura retorica di un film che si presuppone proprio di essere variegate e mutevoli vertigini dell’eccesso, della sfrenatezza magnifica delle immagini, linde, incastonate nei naturali panorami fotografati da un plumbeo, atmosferico Chris Menges.
Orchestrato sulle interpretazioni gigantesche di due attori dagli stili di recitazione agli antipodi. Il fanatico del Metodo, De Niro, prima cattivo e dunque attorialmente egli stesso “caricato”, smorfioso e sconfinante nel sublime osare espressioni quasi troppo raggelanti, un terrificante mostro-cacciatore di schiavi che assassinerà suo fratello e, proprio d’allora, muterà nella voce misurata di corde interpretative allineate a una mesta, riappacificata serenità, però eternamente mosso da un’inquietudine turbinante di fondo così come il suo ghigno esploderà, lento e perfino oscuro, a schizzi furtivi di occhiate nerissime, incarnate alla profondità ineludibile del suo ambiguo personaggio, e Irons invece, per tutto il film, la personificazione tranquilla dell’orgoglio del Credo… combattivo.
Una storia, quella di questa “mission impossible”, narrata dai libri di Storia e Religione, che diventa quasi il pretesto per narrare l’impossibile dualità dell’uomo, scissa fra Bene e Male, fra desiderio di salvezza universale, miracolante, e l’infrangibile Peccato, non solo Originale, alla base di ogni massacro genocida.
Un film quindi “senza trama”, che si basa su eventi reali del passato, per immergersi soprattutto a nitore selvatico dell’urlo cosmogonico di libertà.
Un film che si affida al potere evocativo dello Sguardo.
Prima del nuovo Terrence Malick, prima degli alberi della vita, prima e oltre già un trentennio circa fa.
Ed è per questo che Mission è un’esperienza emotiva di forza indimenticabile.