Snake Eyes, here comes the pain!
di Stefano Falotico
Omicidio in diretta
Snake eyes, torbido complotto in quel di Atlantic City
Occhi del serpente, così il titolo originale. Un titolo più appropriato in linea con l’ottica “voyeur” dell’hitcockiano De Palma, che plana sinuoso a scombussolare, non solo i variegati piani visivi, ma anche a miscelarci nella costante incertezza che ciò a cui stiamo assistendo sia ancora finzione e che i livelli di realtà, percettiva, a nostro stesso istinto indagatorio, ne racchiudano altri come bomboniere matriosca di sofisticata quanto non decriptabile decifrazione. Imbastisce uno spettacolo di “solo” un’ora mezza che, a concentrico cerchio vorticoso del suo sintetico, conciso minutaggio, divampa folgorante in bagliori tanto frenetici tanto perfidamente ammantati d’ambiguo significante.
Inizia con un piano sequenza di rara lunghezza. Perfetto, che invero contiene alcuni “stacchi” bilanciati ancora una volta dall’occhio nascosto d’un montaggio allucinatorio e vividamente chirurgico. Si concentra, sin dalla prima, esplosiva inquadratura, sul volto e sulle movenze corporali del poliziotto Rick Santoro, un Nicolas Cage abbigliato come un cialtrone tamarro, con tanto di catenelle d’oro al collo e peli villosi su camicia floreale aperta, che esagitato sta scendendo in platea, nella prima fila “di classe” riservata ai tutori dell’ordine, per sedersi quindi a fianco del suo “amico” e braccio destro Comandante Kevin Dunne, un Gary Sinise già “criptico”, un prodigio di recitazione con la sordina d’altrettante iridi imperscrutabili e velate a cornice d’una maliziosa quanto fascinosa e carismatica “double face” che (non) ce la racconta giusta…
Inizia dunque l’incontro di boxe.
Dopo pochi minuti, come (pre)annunciato da un profetico guitto sugli spalti che urla “Ecco che arriva il dolore!”, coincidente al preciso istante nel quale il pugile Tyler va al tappeto, il Ministro della Difesa viene “misteriosamente” ucciso.
Gli spettatori, presi dal panico, corrono via, spaventati, a gambe levate.
Sul “luogo del delitto (im)perfetto”, rimangono solo i nostri due eroi… Santoro e Dunne.
Santoro, che in passato nasconde personali storie di corruzione e brutti giri di “affari sporchi”, viene, da quel momento in avanti, come colto da una voglia missionaria di giustizia e redenzione e, sospinto da quest’irrazionale sete di verità, perseguirà un unico obiettivo “focale”: volere veder chiaro in questo pasticciaccio.
Conosce fortuitamente la prostituta d’alto bordo Julia Costello (una super sexy Carla Gugino), e intuisce fin da subito che lei potrebbe detenere la chiave risolutiva di ciò che lui crede esser stata una cospirazione, una pura macchina ad orologeria.
Inizialmente titubante e mal disposta alle confessioni, si fiderà, pian piano, “ciecamente” di questo nuovo, curioso compagno, forse perché si sente anche lei sola e vulnerabile, forse al centro d’un gioco di “mirini” più grande di quanto avesse potuto immaginare. E gli confermerà che, in effetti, la sua intuizione non è così “sfocata” come potrebbe apparire…
Naturalmente, non vi svelo la fine.
Omicidio in diretta è un capolavoro magnifico perché, in una regia “crudele”, tagliata sibillinamente con l’accetta ma anche fiammeggiante di “maniera” sfavillante, calibrata ed “eccessiva” d’intrighi speculari a mille rovesci della medaglia, torce i nostri sensi, li avviluppa, li magnetizza in una spirale di suspense diabolica.
Un’altra vetta del nostro amatissimo Brian De Palma, che osa e rischia davvero tanto, caricando(si), in una storia semplice dalla trama “già vista”, la ferocia d’esplorare con camaleontici, mutevoli occhi, anche di messa in scena, la “banalità” del male dietro le apparenze “normali”.
Determinante in questo caso l’azzeccata scelta di Cage, qui davvero funzionale e “centrato” per il ruolo.
Che all’inizio recita istericamente “out of control”, e potrebbe sembrare l’esibizione pedestre d’una delle sue tante variazioni da “overactor”, ma poi lentamente si trasforma, anche nello sguardo, appunto, a un mood attoriale classicissimo, serio e compassato.
Come De Palma, un director (di) classic, ma imprevedibile, trasformista, sempre sorprendente nell’allibirci perché ci stupefà increduli dinanzi a tanta maestria così architettonicamente melliflua eppure tanto irresistibile.