“Flawless”, recensione, omaggio a Philip Seymour Hoffman

La perfezione non esiste

La perfezione non esiste

 

di Stefano Falotico

 

Flawless

 

Nessuno è esente da difetti…

Parto subito col dire che questo è il miglior film in assoluto di Joel Schumacher, targato strano anno 1999, firmato MGM.

Joel Schuumacher, del quale disprezzo, però, con enorme prosopopea buona parte del suo “Cinema”. Un regista diventato famoso a Hollywood, negli anni ’80, per una serie pazzesca di pellicole ampiamente sopravvalutate. Ma non c’è da stupirsi, in piena epoca confusionaria, film dall’estetica furba, modaiola, giovanilistica e platinata, come l’impresentabile pastiche Linea mortale, trovavano il pubblico stupido che se n’imboccava con allucinante facilità, bevendosi ogni stramberia “variopinta” del nostro bel Schumacher tanto scaltro ad arricchirsi grazie a marchingegni ludici della celluloide più edonisticamente “merchandising”. Opere di rara bruttezza, girate però con quel “piglio” ritmato che allettava gli spettatori abbindolabili, ribadiamolo, a “virtuose” frenesie del montaggio, ai dialoghi “serrati” e a due/tre idee narrative all’apparenza “geniali”.

Flawless, visto in quest’ottica, rappresenta una sorpresa inaspettata, è una stupefacente opera, fra l’altro presa assai sotto gamba, insospettabilmente intimista che, nella semplicità di una storia (a)normale, umanissima, raccontata con una raffinatezza e quel delicato pudore che da Schumacher mai e poi mai ci saremmo aspettati, può essere tranquillamente ascritta ai film “misconosciuti” (in pochi infatti se ne ricordano e pochissimi, per di più, ne hanno saputo apprezzare il valore), che son passati sotto silenzio.

Eppure, nella locandina appare a lettere “cubitali” il nome di Robert De Niro, quel prodigio d’attore di cui, a gran torto, mai viene citata quest’interpretazione istrionica, difficile non tanto per la “tuta mimetica” della facciale mimica, qui (non) limitata dalla malattia del suo personaggio, bensì perché è una performance, addirittura vista come un campionario insopportabile di smorfie e tic espressivi indigesti, di invero fenomenale camaleontismo. Che plateale, madornale superficialità averla giudicata male quando il film uscì.

Ma procediamo con calma.

Schumacher, dopo i fasti al botteghino dei seguiti di Batman, torna dietro la macchina da presa per questo film assolutamente anomalo nella sua filmografia, ripetiamolo, pacchiana, effettistica e ammiccante al guadagno da blockbuster.

Questa è invece la storia di una strana, (im)possibile amicizia, quella fra il coriaceo, burbero poliziotto Walt Koontz (De Niro) e la drag queen Rusty (un bravissimo Philip Seymour Hoffman).

Walt è uno stronzo, omofobo, razzista, macho imperturbabile, playboy impenitente, maschilista e soprattutto dichiarato nemico dei travestiti, come il suo dirimpettaio, appunto, Rusty, il vicino di casa, l’uomo “ambiguo”, disturbante per la sessualità da “pervertito”, questo pensa Walt, che abita nell’appartamento antistante. Walt lo odia a morte, non sale mai in ascensore con lui, lo evita in ogni modo e, quasi ogni giorno, litiga, affacciandosi irritato alla finestra, perché Rusty, coi suoi “amichetti”, fa sempre casino e lo “deconcentra”.

All’improvviso, la storia si complica e si fa torbida. Alcuni coinquilini dello stabile in cui vive, di notte, vengono derubati. Walt si sveglia, allarmato da quel che riesce a udire, afferra la sua pistola d’ordinanza, scende in fretta e furia le scale per tentar di venir loro in soccorso ma viene colpito, “a sangue freddo”, da un ictus.

Walt, in seguito all’incidente occorsogli, rimane semiparalizzato, e a stento riesce a parlare.

Come cura riabilitativa per poter almeno riacquisire parziali funzioni normali, guarda un po’, gli viene suggerito di prendere lezioni di canto dal nostro Rusty. Dopo forti titubanze e notevole ritrosia… Walt pare infatti che preferisca vivere nel mutismo e nell’handicap piuttosto che “abbassarsi” nella dignità per ristabilire, in modo perlomeno accettabile, la sua “disgrazia”, ecco, Walt accetta, anche se non di buon grado.

Naturalmente, non saranno tutte rose e fiori, come si suol dire.

E a ciò s’aggiunge il fatto che il ladro, che ha rapinato i condomini, continua ad aggirarsi in maniera minacciosa per il palazzo, poiché “qualcuno” (indovinate chi?) è stato il testimone sgradito della sua malefatta. E vanno eliminati i testimoni scomodi. Ahia…

Walt e Rusty si coalizzeranno giocoforza, sventando la minaccia e diventando, nel frattempo, amici sempre più fidati e rispettosi l’uno dell’altro.

Perché Walt, dall’esperienza dolorosa e negativa del suo trauma, ha imparato un insegnamento importantissimo: è stato costretto a guardare in faccia la realtà e a non scremarla più con la sua boria da “stallone” fiero della sua indubbia mascolinità, invero così patetica e volgare. Era “malato” prima, non ora. Adesso, diciamo, che la malattia fisica gli ha permesso di osservare la vita da una prospettiva che mai avrebbe immaginato. Ed è una visione assai più “aperta” e rasserenata di quando era un bastardo poliziottone tutto divisa e donne da sventolare come “trofei”.

Dicevamo, appunto, un grande Robert De Niro.

Ma, a esser sinceri, qui la parte del leone la fa proprio la nostra “debole” checca… un Philip Seymour Hoffman strepitoso, incredibile, che recita con eleganza d’applausi a scena aperta. Tanto più bravo perché Rusty ispira, sì, simpatia, ma era difficilissimo renderlo in modo così umano, calzante, senza mai incappare nel “luogo comune” d’una recitazione isterica o sopra le righe, come poteva essere dato il suo personaggio folcloristico. Hoffman mantiene invece inappuntabilmente un bon ton in sordina da lasciarci stupendamente allibiti per tanta sobria, sofisticata bravura.

Un’interpretazione di sottilissima, alta scuola del Metodo.

 

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