Pasolini di Abel Ferrara, prime immagini di Willem Dafoe nei panni di Pier Paolo

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Il Pasolini di Ferrara: compaiono le prime immagini di Willem Dafoe nei panni di Pier Paolo ed evocano, all’unisono, il mio “omicidio” di similarità, rinascente qui, ora e per sempre

Di Stefano Falotico

Lettera a (crepa)cuore divorato dai cannibali

Lo sguardo. Aperto, libero, compassionevole, diverso, di sanguigne palpitazioni vergate rabbiosamente nei poetici versi, lo sguardo profondo, a radice d’una sensibilità martoriante, a escoriazioni nell’anima sempre inquieta, che giacque nel buio di luci intense notturne.

Quando, nei primi fremiti dell’adolescenza, distaccandomi dai miei coetanei per una necessità morale della mia intimità, anche sessuale, già molto incompreso, fuggii nella perdizione di me, remoto poeta freak in congenito combattere un porcile lontano dal mio cuore.

Ma fu solo una guerra persa già in partenza. Inutile, masochistica, forse stupida. Perché tanto questo è il mondo, e la gente è una massa di idioti.

Ottusa, belligerante. Se la combatti, ti ammazzerà, prima o poi.

Perché a quell’età i ragazzi, (non) come fui, pensan solo ad accontentare i genitori nel patto tacito ma ipocrita di rispettare la “segnaletica stradale” del comune percorso “indirizzante”. Soggiacendo complici al già farsi iniettare da ordini (d)istruttivi perché un giorno, una volta “adulti”, sian le persone stabili che tutti noi conosciamo e che io, tutt’ora, mi rifiuto di voler conoscere, eppur li so. Tristissimamente.

So come, schiaffeggiando i propri figli, solo perché ribelli vollero amare l’emancipazione giovane da una società dura e castrante, li obbligarono a frequentare le “buone” compagnie, nel ridanciano ma “compassato” (uni)formarli a quell’apparato burocratico, deformante e livellante che chiamano liceo classico. Ove ottemperano a vetusti e “ligi”, rigidi codici di compostezza per poi poter acquisire, di laurea “maggiorante”, la facoltà discriminante del discernimento borghese, quell’orrenda coscienza di cui Pasolini fu nemico ostinato, pur appartenendo, tormentato, inquieto sin allo sfinimento d’ogni più fine lineamento del suo viso, a tale identica classe sociale. Lui, sì, letterato e filosofo. In lui vissero sentimenti contrastanti, imbattibili, alla fine a sconfiggerlo inevitabilmente, fra il voler essere uno di quelli come gli altri e il non potere, in ogni senso, per inconscio proiettato a una sacra visione della vita a sua volta erotta nelle viscere da una carne che lo tradiva, lo torturava, gl’induceva malessere psicofisico che lui trasformava nella creazione… estenuante, mai a vincere i demoni di questa sua crocefissione a fuoco lento. Ad arderlo, a consumarsi, a vivere con la passione del pensatore che non vuole fermarsi all’apparenza ma, nel suo lancinante proiettarsi a scoperta di sé e di chi lo circonda, d’un mondo che non cambierà mai e che gli gravitò intorno, morì ancor prima d’essere brutalmente assassinato. Si lacerò “terroristicamente” da solo. Da qui il conflitto devastante fra la sua natura da “ala sinistra” dei campetti di strada, fra l’ingenuo esser sé stesso anche nel sesso dichiaratamente d’alterità orgogliosa quanto, dalle ragioni dell’educazione cattolica instillatagli, a generargli atroci ferite che tentò di rimarginare con l’Arte più “violenta”, a ferire l’omertà di un’Italia e d’un mondo (anche suo interiore) perennemente in lotta. Un mondo (s)porco, divoratore, di bugie e inganni, di scannamenti col “potere” dei poteri forti non scardinabili, un mondo che non puoi sognare migliore perché, forse, tu sei il primo, “recidivo”, ostinato e agguerrito peccatore.

Con questa mia, ambigua, che ognuno può interpretare come meglio, o peggio, vorrà, sono io.

A costo di morire, di essere ucciso da chi continua a non capire, non cambio. Perché per me il piacere è anche enorme sofferenza. Inscindibile, unico, diverso. Forse perché sono uno dei pochi che ha il coraggio di (non) essere me stesso.

 

 

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