Kenneth Branagh? La verità? L’ho sempre adorato, venerato e qui ancor l’osanno, illustrandolo per chi il suo Cinema non ha visto e per chi (non) sa…
di Stefano Falotico
Branagh…, come direbbe Totò se si reincarnasse, il suo nome non m’è nuovo. E, aggiungo io, il suo Cinema m’è sempre stato familiare. Un Cinema unico, un genere e genio (in)discusso a sé, personalissimo, fuori da ogni classificazione possibile, perché mesce la potenza visiva, spesso barocca, roboante, “caricata”, a uno stile antico e altresì debordante, quasi avveniristico per come s’è sempre rinnovato, anticipando perfino commistioni future, un Cinema dunque, sì, aderente alla tradizione, sobria, pregnante d’emozioni vere, “a pelle”, viscerali e tonitruanti, un Cinema però anche d’avanguardia che fonde appunto le mescolanze del “vecchio”, apparentemente trito-ritrito, superato e (m)mobilmente déjà vu, con un “modus operandi” di macchina da presa roteante, mai ferma e così tanto vivamente “empatica”, anzi, d’immediata presa “diretta” agli eletti plaudenti, strepitosamente sempre avanti, tanto che ogni suo film è stato spesso incompreso e criticato alla sua uscita proprio perché troppo oltre, attinge dal Teatro tout–court, non solo scescipiriano, per assurgere appunto a unicità mastodontica, quasi mi(s)tica, un Cinema mitologico di Bardo reinventato, riaggiornato, di favole, leggende popolari, di schermaglie, tragedie grandi e piccole dell’esistenza, un Cinema indimenticabile a farcene innamorare folgorati, che subito s’attacca purpureo e gioiosamente sanguinante alle anime come la mia. Anime tormentate, combattute, repulsive al chiasso, all’isteria di massa, alle festicciole e alle baraonde, un Cinema particolare che cammina elegantissimo in punta di piedi, come fosse una danzatrice di balletto classico, longilinea, slanciata però muscolare, nervosa, femminile e dunque amabile al primo sguardo già invaghito, prostrato, adorante, che ammiri incantato, anzi, incatenato a qualcosa di sulfureo, di bellissimo, di liquido, abbagliante splendore.
Eppur in tanti mal sopportano Branagh. I soliti stolti, prevenuti e, oserei (ar)dire, bigotti, indietro, lenti, che non possono apprezzare appunto la Bellezza maiuscola di quel che in me, e spero anche in voi d’affinità elettive, profondamente effonde. Personalmente, gioente, me ne sprofondo.
Adoro ogni cosa di Branagh, ogni film, ogni sua pièce, i suoi grandi kammerspiel, sì, perché anche quando gira di panorami(che) moventi le mie aperte emozioni a sua cinepresa perennemente in movimento, è un Cinema spesso da “camera”…, eh eh, che gioca con gli spazi chiusi, coi castelli sfarzosi o tenebrosi in cui ambienta le dispute, i contenziosi, la tenzone, la (vi)cen(d)a della trama contorta, che sia ispirato/a… a Shakespeare o a un celeberrimo horror da Mary Shelley, che lui allestisce proprio a modo suo, fregandosene del giudizio altrui, che all’epoca fu infatti stroncante e lapidario, andando avanti imperterrito e “agguerrito” lungo la sua stupefacente, sfavillante vi(t)a cinematografica cavalcante, imbizzarrita da eccentrico “baronetto” di gran Arte e parte… in quinta. Sì.
Prendiamo il suo esordio, ad esempio, anomalo, “pazzo”, brillantissimo, “sporco” tanto che senti il fango delle pozzanghere penetrarti le ossa, accecato, le tue commosse iridi vengon incendiate dallo scintillio fragoroso delle armature, odi il tuonar “scricchiolante” della pioggia incessante e intermittente delle plumbee ser(at)e sanguigne in declina(n)ti tramonti lieti e poi nuvolosi, “sereni-variabili”, vieni colto da sobbalzi emotivi deflagranti nel seguir appassionatamente la forza della battaglia d’uomini “nudi e crudi”, rudi in combattimento, prima di tutto coi propri conflitti interiori spaventosi e vi(ri)li. Uomini che non si dan mai per vin(cen)ti.
Sto parlando del suo sorprendente Enrico V. Con cui, a solo 28 anni, dimostra di essere attore completo, anche “fisico”, di enorme presenza scenica e non solo un già lodato fine interprete da londinesi palcoscenici. Un film “briccone”, guascone, misurato, sobrio e poi brutale come una folle partitura musicale che parte piano, incalza, si sofferma, accelera di scontri devastanti, un quasi capolavoro mai scontato, imprevedibile, depistante, che talvolta eccede e “sbanda”, strafà, esagera, non dosa e poi p(l)acato, di silenzi “angoscianti”, di suspense calibrata, implacabile e melliflua, si riposa, di dialoghi eccitanti, pulsanti, il mio cuor innamorato spos(s)a.
Chapeau!
Mi ricordo dunque che alla prima liceo scientifico che frequentai, quel Sabin succursale di Bologna, da me amato-odiato-(re)spinto, (ri)mandato a quel paese su nullaosta perplesso del preside che firmò il mio ritiro scolastico, salvo riprenderlo in extremis di mia medias res da strano essere–non essere amletico, fra i miei ex compagni di (s)ventura che si stupirono perché uno come me abbandonasse gli studi per farsi i cazzi “sua”, ecco, in quell’an(n)o strambo, prima della mia (di)partita con un’adolescenza “altrove”, l’insegnante d’inglese, tale Martelli, donna ruspante eppur stronzissima, bella quanto una strega che più (ar)pia non si può, ci portò al cinema a vedere la versione originale di Molto rumore per nulla.
Insomma, la storia della mia vita…, delle mie sfighe “tragiche” che poi, alla mia età, chi mi conosce, esclama: “Cazzo, tutto questo casino per (fa) niente?”.
Esatto, Much Ado About Nothing.
E poi che razza di cast scelse? Che c’entrava Keanu Reeves, man adrenalinico da Point Break, con il suo ruolo da Don Juan? Non è credibile per nulla…
Quindi, Michael “Batman–spiritello porcello” Keaton nella parte (s)gradita di Carruba.
Il massimo, comunque, è Denzel Washington come Don Pedro! Ah ah!
A quei tempi, Emma Thompson stava con Branagh, Branagh sosteneva che, come per Alighieri Dante, Emma rappresentava per lui la sua Beatrice. Donna di pene… l’amava eppur, a quanto pare, era una gatta da pelare come po(r)che esistono. Una rompiballe di prima categoria. Ma Kenneth avrebbe fatto di tutto per lei. Infatti, le diede la parte appunto di Beatrice… Perché sospirare, donne, perché sospirare? Da sempre l’uomo non fa che ingannare. Di questa o di quella, infido amante, a nulla rimane costante. Cessate dunque, il pianto e il soffrire, e l’uomo con gioia lasciate fuggire. Siate felici, lamenti e sospiri, mutando sempre in allegri raggiri.
Ora, de gustibus non disputandum est, se piaceva a Branagh, (non) piace anche a me la Thompson. Detta come va “dato”, più che sulla Thompson, mi sarei buttato subito su Kate Beckinsale. Quel seno fresco, procace, quella donna “bambina” da mozzarti il fiato, la musa per cui scriverei poesie d’amore dalla mattina alla sera, a patto, e a “slacciata patta”, che dopo la sera “venga” con me di not(t)e,sospirarle, sì, sì, sì, ancora… il mio Shakespeare tutto tutto… “aspirato” di h… ah, ah, ah, dolce, soffice da Pene… d’amor perduto. Ecco, son (s)venuto al punto di non ritorno per ogni uomo e (s)venente per le donne.
Quindi, Coppola dà a Branagh la versione del Frankenstein “deniriano”.
Sul set, Kenneth incontra Helena Bonham Carter, e per Emma Thompson son altri… cazzi. Branagh perde la testa per Helena, e il divorzio con la Thompson gli costa un occhio della madonna. Branagh, l’indomito, però ha grinta vendere, si spende e il suo Cinema (si) spande.
Iago nell’Otello di Parker, il suo Hamlet in calzamaglia “vittoriana”, e partecipazioni alimentari in cui si sputtana, come Wild Wild West.
Gira film ma (non) lascia il segno, finché la Marvel non scommette su di lui per Thor.
Tutti, quando fu annunciata la sua regia alla guida di tal “fumetto”, pensarono che Branagh fosse davvero impazzito.
E invece Thor è, secondo me, la trasposizione cinecomic migliore di tutte.