“The Immigrant” di James Gray, review
Un film che vi diranno essere noioso e manierista ma che per me è stata un’infatuazione. L’ho visto, l’ho ripensato e digerito per paura di santificarmelo troppo e innalzarlo ben al di là dei suoi meriti e invece son giunto alla conclusione che è proprio bello: pastoso e caldo, nitido nella sua compostezza retrò ma tutt’altro che formalista, al quale guardare estasiati come un’opera lirica impregnata del più puro epos americano, quello dei padrini e dei tori scatenati, dei cacciatori e delle apocalissi ora e subito, aspettandosi nelle ariose sequenze per le strade o nei teatrini di vedere sbucare da qualche vicolo interno un Don Vito ancor detto Andolini con in testa l’immancabile coppola. Sequenze su sequenze che sono Cinema meraviglioso e classicista: la preghiera in Chiesa, la lotta tra Phoenix e Renner, il bacio tra Renner e la Cotillard. La perfezione di un melodramma accorato che sgasa e accelera, poi frena e riparte, sembra sonnecchiare ma in realtà sta solo schiacciando un pisolino sul manto dorato delle sue immagini, avvolto nella coltre di una nebbia dolcissima. Difficile per quanto mi riguarda frenare nell’entusiasmo e rimanere scettico, anche se lo riconosco: non è un capolavoro, gli manca giusto lo scatto decisivo agli ultimi cento metri e in qualche modo ci si abitua ben presto a pensarlo così grande com’è. Della bravura di James Gray, in fondo, non si stupisce più nessuno.
(Davide Stanzione)