Rocky V review
La grinta riesumata del vecchio leone indomito…
di Stefano Falotico
Ritorno dietro la macchina da presa per John G. Avildsen, autore del capostipite.
E ritorno anche nella periferia “scassata” della fatiscente e però candida Philadelphia.
Sì, perché Rocky, dopo essersi affidato alle mani d’un truffaldino e scellerato commercialista, perde tutto e si trova costretto a vendere le sue proprietà, ripartendo appunto daccapo e scende così nei “bassifondi” suoi natii di quella periferia tanto degradata tanto amante però del sogno americano, perché è in quelle palestre che è sorto il suo leggendario mito. E ora deve, per risorgere, “giocoforza”, riallenarsi soprattutto nella volontà, deve indossar di nuovo i “guanti” della vita dura, della vita che deve lottare per sopravvivere, per riscattarsi ancora dall’imprevista, profonda, buia caduta.
Dopo lo sconforto, Rocky si riambienta bene nel posto che conosce come le sue tasche. E decide di riaprire la palestra di Mickey, oramai in disuso. Così, prova a unire l’utile al dilettevole, congiungendo la sua inesauribile, bruciante passione per il ring col far da trainer alle giovani speranze che, come lui all’epoca, voglion “picchiar duro” per ambir a poter almeno trovare il loro spazio in tal mondo duro e disperato. Un mondo spietato che spesso non lascia scampo a chi è nato “sfortunato” e povero in canna. Un mondo lapidario, secco che fa male, ferisce più di tanti pugni con l’arma cattiva, ferente e frequentemente annichilente, che non offre quasi mai una seconda redentiva possibilità. Nessuno spazio ai (redi)vivi. Un mondo che “spacca le gengive” ai deboli. Rompe i denti e soprattutto spezza il cuore velocemente.
Tant’è che Rocky, di buona lena, rimette su la palestra in cerca forse del suo erede.
D’un ragazzo altrettanto talentuoso nel far a botte per consegnargli il passaggio putativo di “coscienza”. Un ragazzo che sia sveglio, che non s’arrenda facilmente di fronte ai colpi che la società duramente e senz’appello infligge. D’una società che ti butta al tappeto ancor prima che tu possa riprender fiato. E ti sbatte all’angolo, ove sanguinerai a morte… trucidato nell’anima (s)colpita senza esclusione appunto di colpi. La società che dà poco e devi conquistarti ogni centimetro di vita a stretti denti, saltellando atleticamente e instancabilmente di forza e soprattutto enorme, resistente intrepidità. Il coraggio dei vincitori che non si son mai dati per vinti. Di chi vuole rimanere vivo e non solo un manichino nelle mani di chi regge l’ingiusto gioco.
Rocky così trova un ragazzo che ci sa fare. Che non molla per niente. Che le “suona” leonino, Tommy Gunn. All’inizio n’è diffidente, poi addirittura comincia tanto a prender confidenza col giovane, da portarlo a casa sua e regalargli proprio la “cintura” del titolo di campione dei pesi massimi. Al che, Tommy, ottenuto ciò che voleva, gli volta le spalle.
Come se non bastasse, un losco organizzatore d’incontri, farà di tutto per metterli proprio uno contro l’altro, usando il ragazzo per provocare Rocky, al fine che Rocky, a scopi suoi di lucro, torni sul ring, in modo tale da creare un evento mediatico che gli possa esser egoisticamente furbo… e remunerativo.
Alla fine, il ragazzo casca nella trappola e, guidato dalla mano sinistra del losco “fig(ur)o”, una notte si reca al bar frequentato da Rocky e lo umilia. Rocky, dall’alto della sua signorilità, saggiamente gli consiglia di lasciar perdere, salutandolo tristemente da buon amico e sconsolato addio. Ma il ragazzo, sempre spronato dal “diavolo nero”, sferra un pugno al cognato di Rocky. E, a quel punto, Rocky non “ci” vede più dalla rabbia, lo trascina in istrada e comincia la sfida fra lui, campione innanzitutto di classe, padre “adottivo”, e il “figlio” prodigio poco prodigo ma molto ingrato. Parte la scazzottata micidiale. Alla fine, dopo darne e prenderne, Rocky stende Tommy con un montante vincente.
E la folla lo applaudirà nuovamente, elevandolo in gloria, a monumentale mito imbattibile come la statua a lui dedicata sempre vicina al museo degli underground risorgenti.
Non un capolavoro, anzi, un filmetto abbastanza mediocre. Ma spassoso, proprio “forte” come si suol dire. Che fila “diretto” di staffilate, fendenti e schermaglie di fioretto per sangue da “filetti”.
Curiosità: Tommy Gunn fu interpretato da Tommy Morrison che, all’epoca delle riprese, era davvero un pugile dei pesi massimi. Famoso per aver sconfitto George Foreman nell’incontro valido il titolo di categoria suddetta e “sudata”.
Tommy Morrison è deceduto alla sola età di 44 anni, lo scorso anno, affetto da una strana sindrome di deficienza delle difese immunitarie mentre, in questo film, fa la figura del deficiente indifendibile.