Gone Girl – L’amore bugiardo, recensione
Visse due volte il rompicapo bugiardo
L’ultima opera di Fincher è il classico esempio di opus che manda in brodo di giuggiole i critici, pronti a “dissanguarlo” per discernere l’enigma the game al centro basilare della sua filmografia “criptica”.
Ancora una volta, una storia “a spirale”, con al centro il missing di una donna che, nel giorno del quinto anniversario col marito, scompare in circostanze sospette, lasciando poche tracce e una sola “macchiolina” di sangue indelebile, un graffio alla sua anima da incredibile Amy. Il primo squarcio che (s)vela l’apparenza intonsa, la “perfezione” di una vita programmata sin dalla nascita, proiettata a proiettar sullo sguardo dell’altro un’idea impeccabile di meraviglia. Una falda nell’ingranaggio “oliato” che hitchcockianamente scandisce il meccanismo a orologeria della follia che in lei regnava “soave”, sovrana d’un castello di sabbia, pronto a “deflagrare” al primo vento d’una “brezza” coniugale traditrice.
Un “bacio” nella tempesta che fa partire il “pretesto” e i sottotesti per una trama intricata, ove c’è un cadavere “occultato” dalla stessa orditrice del piano “omicida-suicida”.
Un marito che la sfiorò, conquistandola, sotto una nuvola di zucchero, che le piaceva molto, tutto ciò che lei non è/era/mai sarà, l’ingenuità peccaminosa “inquadrata” nell’ambiguo viso “(in)espressivo” d’un Ben Affleck con l’“aplomb” d’un sorrisetto indecifrabile, cinico e misogino.
Tutto calcolato in modo calibrato per intessere la tela da mantide mangiatrice, concupiscente un coniuge “incosciente”, ingenuo, pronto a crollare dinanzi alla misteriosa fuga nel vuoto del suo volerle “srotolare il cervello?”.
Una scala a chiocciola che c’aspira nel suo “saliscendi” emozionale, pieno di colpi di scena, ove il pathos è trattenuto da una suspense “al contagocce”, anche questa misurata con elegante opacizzazione fotografica, “immortalante” il buio plumbeo esistenziale di due vite in rotta di collisione con la durezza della realtà. Perché la realtà è tosta quando la si desidera “(ri)pulita” da “escoriazioni” e bruciature alla pelle della propria anima, e inesorabilmente s’infrangerà col destino in “agguato”. Con l’omicidio all’intima coscienza menzognera ché, per resistere agli urti della vita di coppia, “bisogna” necessariamente inventarsi un “piano di fuga”, un escamotage per rompere, divellere con furia, come un taglierino in una gola mozzata, la routine e trascinarci in un vortice di (ri)soluzioni “bastarde”.
Non c’è pace ai sensi quando ci s’innamora davvero e si cade prede d’un irreversibile, “fantasmatico” fato, di una “fata” con gli occhi “ficcanti” di Rosamund Pike che si scont(r)ano con la “plastica” da “videogioco” d’un Affleck scelto apposta, con puntiglio, come “manichino” dell’ordito “garbuglio”.
Al che, ci scappa il capolavoro, il Fincher più misurato mai visto, che cadenza la bellezza del film nel farlo rifulgere sotto una “pioggia” d’incognite “fraudolente” sia nella storia che nella nostra testa, persasi inevitabilmente nel delirio (im)preciso, pieno di “sbavature”, di cose e “case” che (non) tornano, d’un pareggiamento del dubbio, dei mille dubbi che ancora ci ronzano malignamente in “(rompi)capo” che ci ha raccontato almeno “una” bugia…
Sì, l’amore (è) bugiardo.
di Stefano Falotico