American Sniper, recensione di Anton Giulio Onofri
AMERICAN SNIPER, di Clint Eastwood.
Al termine del film ci sono due silenzi: il primo è quello d’ordinanza, qui nella versione di Ennio Morricone, a commento di immagini di repertorio; il secondo, eloquentissimo, accompagna tutti i titoli di coda, agghiacciante, luttuoso, e polverizza e spazza via ogni incomprensibile accusa di patriottismo manicheo mossa da chi evidentemente ha scordato che al Cinema esistono, se non i buoni e i cattivi, almeno “i nemici”. Nemici che per un marine arruolato nell’esercito degli Stati Uniti d’America incarnano il Male Assoluto. Come per John Ford i cattivi erano gli indiani nativi americani – ampiamente riabilitati molto più tardi anche dal Cinema di una nazione comunque libera di cambiare idea e di assumersi la responsabilità del pentimento – per Eastwood, e per buona parte di un popolo che giusta o non giusta che sia, ha visto tornare in patria da una guerra che qualcuno doveva pur andare a combattere, bare su bare su bare, sono i terroristi di Al-Qaeda. Il bene e il male, il soldato, la famiglia, il nemico, la guerra, le armi, la morte, sono ancora, per Eastwood, gli archetipi biblici a fondamento di quel Cinema che si incaricò di creare e fomentare il mito americano prima, durante e dopo la II Guerra Mondiale, quando senza lasciare spazio a dubbi e ripensamenti si seppe affrontare e sgominare un nemico dal volto segnato da un paio di baffetti neri. Altri tempi, certo. Quell’ingenuità e quelle certezze si sgretolarono nel ’68 in Vietnam, e lungo e produttivo è stato il periodo in cui l’America ha saputo rivedere e ricostruire la propria identità, per arrivare, sullo scorcio del secolo scorso, a quella che qualcuno definì “la Fine della Storia”. Ma l’11 settembre del 2001 la Storia è ricominciata. Eccome, se è ricominciata. Ed è, con buona pace di buonisti, complottisti e allocchi vari, una gran brutta storiaccia, che un signore, anzi un SIGNOR REGISTA, di 84 anni, dotato di cuore forte, occhio lucido e mano calda e ferma, ha tutto il diritto di raccontare come lui desidera, ripristinando con un film potente e magnifico la funzione affabulatrice di un Cinema capace di fare spettacolo, di toccare il cuore e di rinfocolare in chi lo guarda la consapevolezza della dignità dell’essere umano orientato, per educazione o per scelta, al bene proprio e della sua comunità. Il resto è chiacchiericcio. Anzi: silenzio.