BROOKLYN – recensione egregia ed esimia di Anton Giulio Onofri, detto Ago, non Argo
BROOKLYN, di John Crowley. Accidenti a sta (senz’apostrofo) cosa che oggi i film si possono scaricare e guardarli sul computer a casa o dove si vuole. Ora sono qui in treno (rigorosamente Trenitalia dopo il suicidio di Italo) in preda a incontenibili singhiozzi peggio di una liceale degli anni 40, devastato da questo film che pur lontano anni luce dall’essere grande Cinema (lo dico per sedare gli amichetti cinici che giuggiolano con Malick e su sta roba ci sputano perché ancora non hanno vissuto un solo minuto di VITA VERA, e probabilmente non la vivranno mai neanche da uomini fatti se non decideranno di smettere di mascherarsi dietro intellettualismi arroganti e antipatici e aprire il rubinetto dei sentimenti: e poi magari riuscire finalmente a provarne una reale, di felicità in amore, e comprendere quanto la vita sia orrenda NON perché lei o lui non ti riamano, ma perché COMUNQUE siamo burattini illusi di essere i nostri burattinai…), pur lontano, dicevo, dall’essere grande Cinema, scorre su un’emotività talmente scoperta che solo i cuori di pietra potranno resistergli. La confezione è senz’altro quella di un film ‘for ladies’, con un paio di slow motion in eccesso nei primi venti minuti, ma via via che la nobile radice letteraria prende il sopravvento (il romanzo del grande Colm Tóibín è stato sceneggiato per lo schermo da Sua Altezza Nick Hornby) si cade più che volentieri nella rete di questo period piece capace di intortarti con quella che alcuni (vedi sopra) scambieranno per melassa e che invece è un cosmico e luminoso senso di Pietas per le umane vicende, evidenziato dall’ambientazione in un’era come il secondo dopoguerra, quando sembrava che la giovane generazione di un’umanità di nuovo bambina provasse certe emozioni per la prima volta, mentre leggeva ancora negli occhi stanchi e segnati dal lutto dei genitori la rimozione forzata della paura e del terrore di qualche anno addietro. L’Europa “old fashioned” della brughiera irlandese contrapposta al sogno di una possibile felicità nel Nuovo Continente inducono a riflettere sul nostro infausto presente, dove per colpa di una malintesa democrazia ubriaca di benessere tutto è andato a rotoli, e non esiste più in nessun posto del nostro pianeta la possibilità che quel sogno si avveri. Perciò è bello – e fa bene al cuore – un film così, in grado di farti spudoratamente innamorare di tutti i suoi protagonisti, e di bagnarti le guance di lacrime come da un po’ non succedeva in questa misura.
Una recensione corretta e redatta dal Faloticus.