The Hateful Eight e il suo Onofri che recensisce

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Rispettando le diciture, invece no, perché correggo tutto in Garamond, apponendo i grassetti e i corsiv(ett)i ove (oc)corrono, la perentoria, ribadente la parola CAPOLAVORO, dell’opus 8 di Tarantino, a cura dell’inestimabile Onofri. Da condividere, da (Non) Mi piace o semplicemente da (e)eleggere.

Questa è mia breve prefazione, dialogante alla Quentin con la mia “sconcertante” mente… e si fanno riferimenti a colonne sonore da concerti e (in)certezze.

 

THE HATEFUL EIGHT, di Quentin Tarantino. Come un musicista dell’800 ossessionato dall’idea del corpus delle Sinfonie di Beethoven e di non riuscire ad arrivare alla numero Nove, anche Quentin Tarantino comincia a contare i suoi film. In questo suo ottavo – che per restare nella terminologia musicale si potrebbe definire una “Sinfonia Macabra”, un Western in forma di Chamber Opera con tanto di “Overture” e “Intermission” musicali per permettere al pubblico di accomodarsi e riaccomodarsi in sala, suddivisa in sei movimenti legati da un crescendo drammatico simile a una colata lavica che lenta e implacabile “come melassa” tracima e incenerisce tutto quello che tocca – si è divertito a giocare cabalisticamente con il numero 8 già a partire dal titolo: I Detestabili Otto (in contrapposizione a I Magnifici Sette?). Ancora un Western dunque, ma distante anni luce dall’energizzante rielaborazione in chiave Kitsch/Rap del precedente Django Unchained. Il rimando non è neppure ai Western “autunnali” degli anni 70, quando autori come Peckinpah (omaggiato però con abbondanti e volontariamente caricaturali slow motion), Penn, Polanski, per dirne solo tre che iniziano per P, riesumarono con successo un genere agonizzante prima che morisse del tutto salvo rare eccezioni anche recenti (come l’inane El Grinta dei fratelli Coen). THE HATEFUL EIGHT è invece un autentico Western “invernale”, immerso in una cupa e persistente bufera di neve, concretamente restituita in tutta la sua orrorifica inquietudine da quella profondità di campo che le nuove tecniche digitali di ripresa ci avevano fatto dimenticare sul grande schermo: girato in pellicola e in ultra Panavision, chi avrà la possibilità di vederlo proiettato in 70 millimetri può scordarsi il lucore e l’alta definizione dei più recenti blockbuster, e se avrà qualche annetto in più rispetto al pubblico dei nativi digitali, invece che restarne “deluso”, come già si sente dire e si legge in giro o qui in rete, ripercorrerà proustianamente avventurosi percorsi di sguardo dentro la densa pastosità e il vibrante calore naturale dell’ormai desueta celluloide. È questa una delle essenziali cifre riconoscibili di un film che secondo le precise intenzioni di uno degli autori più colti del Cinema contemporaneo possiede connotati estetici tali da farlo assomigliare anche “fisicamente” a un reperto cinematografico d’antan uscito in questo 2016 in “versione restaurata”, sorprendentemente anticipatore, ma testimonianza di una stagione lontana della narrativa popolare svincolata dalle attuali esigenze di spettacolo per un pubblico sempre meno disponibile all’attenzione: dunque, con il passo classico dell’ormai perduto gusto di iniziare a raccontare una storia con un ponderato e solenne “C’era una volta”, che per accumulo si gonfia via via secondo i codici di percezione della Golden Age del Cinema dello scorso secolo. Tarantino autore colto, dicevo: sì, perché secondo un malinteso inspiegabile, ma alimentato forse dallo stesso regista che, da quel grande comunicatore che è, sa bene come attrarre su di sé l’attenzione di una stampa frivola e allocca ma distribuita capillarmente in tutto il pianeta, la cultura personale del buon Quentin non andrebbe molto oltre la pur abbondante produzione di Serie B americana e italiana, fermandosi a Edwige Fenech e a Lucio Fulci. Come se non avesse invece dimostrato, per esempio in Bastardi senza gloria (dove Carmen uccide Tristano poco prima dell’Olocausto di Brunhilde) di conoscere Wagner e Nietzsche, e di aver letto magari la “Storia naturale della distruzione” di W. G. Sebald. Non accorgersi della straordinaria capacità di mescolare alta e bassa cultura, e dell’originalissima potenza di narratore tutt’altro che affetto da quel citazionismo congenito che gli viene continuamente, e del tutto a vanvera, rimproverato dai “cinefagi” più superficiali, è uno degli errori più frequenti e gravi di una critica con la vista così corta da non riconoscere nel suo Cinema quello che ne costituisce invece la peculiarità essenziale: il superare per qualità e spessore qualunque eventuale modello di partenza e riuscire a non assomigliare al Cinema di nessun altro autore tra i vivi e tra i defunti, ma soprattutto spiazzare il pubblico, anche quello dei presunti aficionados, quelli cioè che da un loro idolo si aspettano sempre lo stesso film, con opere sempre nuove, imprevedibili, inclassificabili, come si conviene al vero genio che insegue la sua personale idea dell’Arte senza dover rendere conto a nessuno. Scegliere di adottare il formato Ultra Panavision per poi chiudersi a filmare il buon 80 per cento dell’intero film all’interno di una spelonca sperduta tra le nevi del Wyoming, è indicativo dell’istintiva e animalesca “onnivoracità” cinematografica di Tarantino, che in parecchi hanno scambiato per teatralità, senza accorgersi di quanto Cinema possa pulsare fra quattro pareti senza ricorrere all’azione spericolata o a una virtuosistica mobilità della cinepresa troppo spesso manierata e comunque non necessaria: basti considerare il gioco dei cambi di fuoco nella sequenza della canzone accompagnata alla chitarra, suggestiva di una tensione narrativa di rara efficacia pur nella sobria semplicità della sua messa in scena. THE HATEFUL EIGHT contiene anzi una delle “mise-en-scène” più complesse e intricate dell’intera produzione tarantiniana, che nata sempre da un’unica mente creatrice vive di una ininterrottamente felice sincronicità di sguardi e parole, punteggiatura e stacchi di montaggio, sintassi del dialogo e scelta dell’inquadratura, una rete, insomma, che fin dal magnifico, lentissimo movimento di macchina all’indietro dell’incipit – perentoria e ipnotica dichiarazione di intenti e di stile – cattura chi se ne lascia più che volentieri invischiare con la riverenza e l’amore di chi, come me, si inchina prima di tutto alla supremazia dell’autore, forse per via di una personale esperienza di frequentatore del teatro di Ronconi, Lepage, Mnouchkine, Dodin, del melodramma wagneriano, ma pure del cinema contemporaneo di Lav Diaz, Tsai Ming Liang, Wang Bing o Bela Tarr, con il cui “Cavallo di Torino” THE HATEFUL EIGHT ha paradossalmente in comune più di quanto si possa credere. Questo film non è “solo” il consueto gioco delle scatole cinesi: basterebbe vederlo una seconda volta per godersi il “vero” gioco che si nasconde dietro tanta monumentale abilità nel racconto e nell’efficace illustrazione degli aventi, un gioco ahimè spacciato per facile e di cui in troppi si credono esperti, ma evidentemente riservato a pochi selezionati “solutori più che abili”, che è il grande e meraviglioso gioco DEL CINEMA. Stavolta più crudele, disincantato del solito, e imbevuto di un nero e grottesco pessimismo anti-americano, motivo per il quale l’Academy ha deciso di escludere dalla corsa agli Oscar (salvo le candidature alla fotografia di Robert Richardson, alla colonna musicale di Ennio Morricone, e alla stupefacente prestazione attoriale di Jennifer Jason Leigh) quello che probabilmente resterà il film più bello e più importante di quest’anno.

 

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