Cannes 2017 – Wonderstruck, recensione di Anton Giulio Onofri
Non si sa da che parte cominciare per demolire questo inatteso passo falso di Todd Haynes, tra i registi più interessanti e produttivamente sperimentali della generazione statunitense nel pieno della maturità, considerato una firma garantita da cui attendersi una qualità mai al di sotto dei minimi standard. Purtroppo invece, con questo Wonderstruck, in corsa per la Palma d’Oro al Festival di Cannes, siamo ai livelli di una catastrofe insospettabile, che nonostante l’applauso convinto al termine della proiezione stampa peserà sulla filmografia di chi ha realizzato capolavori assoluti come Safe o I’m not there come una tappa imbarazzante, inaccettabile, indifendibile.
Alla fonte c’è un romanzo di Brian Selznick, quello dal cui Hugo Cabret Scorsese aveva tratto, a prarere di chi scrive, uno tra i film più fallimentari della sua carriera. E sarà forse il caso di partire proprio dalla fonte letteraria di questo stomachevole pastiche, considerandone esclusivamente quanto se ne apprende dalla trasposizione cinematografica (mai e poi mai potrebbe venirmi in mente di affrontarne la lettura).
Gli Stati Uniti – Dio li benedica insieme al loro cinema, alla loro letteratura, e alla loro arte moderna e contemporanea – peccano talvolta di una presunzione grave: afflitti da un complesso di superiorità che li fa sentire investiti del ruolo di leader nella gestione della cultura dell’Occidente (in Europa, del resto, poco o nulla si fa per arginare il fenomeno), invadono impunemente spazi della nostra memoria storica accumulata in secoli e secoli di mitologie antiche e fiabe francesi, nordiche o italiane, sostituendo alla saggezza popolare scaturita dalla fatica di vivere e dalle paure insondabili dei nostri nonni e trisavoli, un immaginario relativamente giovane (appena 250 anni), dunque infinitamente meno complesso, eppure spacciato come fondativo e universale. Francamente, chi come il sottoscritto è abituato alla spontanea naturalezza della rappresentazione dell’infanzia comune a tutta la letteratura al di qua dell’Oceano, stenta a ritrovarsi in questa spettrografia elementare dove gli accadimenti si verificano non secondo una fenomenologia hegeliana, ma anzi stabiliti a tavolino unicamente per dimostrare quello che si vuole dimostrare, cioè non qualcosa di innato, fatale e inevitabile, ma qualcosa che succede perché qualcuno (l’autore) ha deciso così in barba a qualsiasi probabile veridicità, al solo scopo di coinvolgere e commuovere chi è disposto ad accettare acriticamente il cliché, tragedia che è ormai linfa essenziale di tanta produzione seriale televisiva a stelle e strisce, e che dispiace vedere adottata al cinema da chi, come Todd Haynes, ha da sempre dimostrato di maneggiare ogni tipo di materiale con l’originalità e l’intelligenza di molti altri suoi colleghi (Paul Thomas Anderson, per citarne uno), ancora fortunatamente immuni da simili capitomboli.
Nel raccontare le due storie parallele (genere inventato da tale Plutarco, un greco vissuto due millenni fa) di due ragazzini vissuti in due epoche differenti ma legati dal comune handicap della sordità, Haynes ha scelto di adottare lo stile del “period piece”: ok, Wonderstruck è un film per ragazzi (così come lo era Hugo Cabret – anche se ho vividi e chiari ricordi di film per ragazzi concepiti e realizzati per restare inossidabilmente nella memoria collettiva di tante e tante generazioni, non soltanto di quella 2.0, o che comunque non prende più un libro in mano), e per farsi capire deve necessariamente semplificare: quindi, visto che siamo negli anni ’20 e negli anni ’70, nel primo caso il riferimento è al cinema muto e in bianco e nero, nel secondo alle pellicole verdine e gialline ottenute con l’effetto “Nashville” di Instagram, e con l’ampio abuso in colonna sonora di David Bowie ed Eumir Deodato. Colpisce però, senz’altro negativamente, l’eccesso di semplificazione da parte di un rivisitatore di stili e di immaginari del cinema del passato (si pensi all’eccellente ricreazione degli anni ’40 e ’50 compiuta in Lontano dal Paradiso e in Carol), qui neppure preoccupato di scegliere “come” guardare ambienti, colori e atmosfere delle due Americhe rappresentate nel film: va bene il bianco e nero per gli anni ’20, ma se l’effetto è una mera decolorazione computerizzata di normalissimi e comunissimi movimenti di macchina indistinguibili da quanto si fa ai giorni nostri, significa che qualcosa non funziona. (Appena meglio nel caso degli anni ’70, con zoom e tecniche di ripresa “free” vicine al documentario, come si usava ai tempi).
Ma il peggiore difetto del film, quello che ne assimila la visione alla consumazione di un mostacciolo avvolto nella carta stagnola che rimane sgradevolmente appiccicata alle dita, è l’enfasi melassosa del racconto, spinto in avanti a colpi di ulteriori palate di zucchero, secondo canoni e codici narrativi inaccettabili da chi bene o male esce da due Guerre Mondiali, dal ’68 e dal crollo delle Torri Gemelle, né giustificabili con un’esigenza di nostalgico recupero dei buoni sentimenti, che così realizzata ottiene l’effetto esattamente contrario del frettoloso ricorso al telecomando o al mouse per stopparne ogni eventuale futura visione televisiva o sullo screen del computer (visto che produce Amazon…). Molta della responsabilità di tanta preconfezionata overdose emotiva va attribuita all’invadenza delle musiche di Carter Burwell, che, ottimo finché si vuole, è un compositore per il cinema: la musica per il cinema funziona quando accompagna le immagini e i dialoghi; in assenza dei dialoghi (data la sordità dei due protagonisti), ascoltare per quasi due ore le musiche di qualcuno che non è né Bach né Brahms produce noia e assuefazione. Almeno a chi un po’ se ne intende. Coincidenze irritanti, altrettanto quanto le piagnucolose espressioni di una Julianne Moore mai così sottoutilizzata, effettistica strobizzata da televisione anni ’90, rallenti fastidiosi e stucchevoli, montaggi incrociati elementari e didascalici, TUTTO concorre al sollievo dell’arrivo dei titoli di coda, dopo uno dei finali più sorprendentemente ridicoli degli ultimi anni. Che dispiacere ritrovare Todd Haynes impantanato in un’operazione tanto infelicemente celebrativa di un’idea storica degli Stati Uniti così miseramente edulcorata per assecondare il gusto definitivamente imbastardito delle platee televisive planetarie. E che dispiacere ritrovarlo qui a Cannes, addirittura in concorso.