Big Fish, recensione
Parto col dire, sebbene ad alcuni possa interessare e ad altri decisamente meno, che sono un narratore di storie, quello che gli americani definiscono uno storyteller. I miei romanzi, apprezzati o meno, s’impongono, oserei dire, il tentativo, chissà se riuscito o fallace, di far immergere il lettore in avventure spericolate, articolate in una prosa energica, avvolgente, poetica, neo-gotica, ai confini della realtà e poi subitaneamente “crogiolante”, anzi, “gocciolante”, in attimi sinceri di realismo poetico e magico. A metà strada fra la realtà, che può essere miseranda, abietta e cinica, troppo opprimente e castigante la coscienza, contagiosamente vitale, oppure sognante nel far sì che venga trascesa, superata dalla più ardimentosa, “intraprendente”, creativa fantasia vulcanica. Li trovate in vendita se “circumnavigherete” online il nostro web irto di pericoli e al contempo incantato, o forse solo “incatenato” al profluvio inarrestabile di articoli e immagini su cui vi lascio naufragare con dolce mestizia e irruente curiosità.
Questa parentesi personale per affermare che, a mio modo, nel mio mondo, sebbene non mi faccia impazzire, sono un estimatore di Tim Burton e a lui quasi son imparentato per affinità elettive, gemellate di DNA che preferirà sempre alla soffocante “normalità” il gusto per la ricerca di storie che travalichino la mera, anche fasulla, capziosa e ingannevole, “mentitrice” vita di tutti i giorni, per proiettarsi e piroettare laddove esistono, e spero sempre ci saranno e di lor magma vivano eternamente salvifiche e rigeneranti, catartiche e acquiescenti, storie incredibili.
Da molti, questo film è considerato il suo capolavoro, ma non so se lo sia, e allo stesso tempo, però, non riesco a smentire il fatto, per molti appunto ineludibile, che Big Fish sia la summa più sincera e forse più “realizzata” di tutte le sue precedenti opere.
C’era una volta, anzi c’è… un uomo malato che per tutta la sua vita ha raccontato “cazzate” e inventato eccentriche storie immaginifiche per celarsi, oserei dire, fuggire da una vita “normale” di banalità. Al suo capezzale giunge il figlio, preoccupato della sua salute, che almeno in punto di morte vuole finalmente scoprire quale vero uomo si nasconda sotto questa “corazza”, questo cumulo, certo affascinante ma “finto”, di bugie, chiacchiere e favole. Egli ricorda, rimembra quel che il padre gli narrava quand’era piccolo e anche dopo, quando oramai l’età della ragione, della “maturità”, della presa di coscienza della condizione umana aveva fatto “crescere” inevitabilmente il suo animo di bambino esploratore dell’inconscio, della purezza, della fascinazione allo straordinario e all’irreale fantastico.
Quante storie, bizzarre, folli, come quella della strega pazza con l’occhio di vetro che ti mostra la tua morte, quella del gigante alto cinque metri, quella dell’uomo lupo mannaro, quella delle gemelle siamesi coreane.
Il figlio, forse, alla fine, realizzerà che ha fatto bene suo padre ad aver vissuto sempre di fantasia. Perché fra la versione “normale”, anonima e insignificante della vita nel suo “insulso” scorrere, è decisamente meglio, più bella quella surreale, mitologica, al di là della vita, bigger than life.
Il film, lo scopriremo nei minuti finale, diventa così anche un vero e proprio inno alla vita e soprattutto all’amore, una dichiarazione verso questo sentimento misterioso che in noi scatena tante battaglie interiori e conflitti spesso duri.
Un’esplosione, non sempre riuscita ma fortissimamente fascinosa, di vitalità, di esuberanza, di goticismo qui addolcito da Burton in sprazzi solari di ambientazioni perfino pop, colorate, variopinte come un arcobaleno fiorito. “Ingenuo”, ipnotizzante.
Da vedere.