Mindhunter, recensione finale
Ebbene, dopo averla vista, nei suoi eleganti dieci episodi, possiamo concludere col dire che abbiamo assistito a un prodotto non certo esente da difetti ma Mindhunter è estremamente affascinante. Questa “polizia del pensiero”, nei lontani anni settanta, conia il termine serial killer e incomincia a catalogare gli assassini seriali o anche più semplicemente i criminali che si sono macchiati di crimini violenti. Istituendo un “reparto” di scienza comportamentale il cui compito primario è dare un ordine, una sorta di spiegazione razionale all’entropia degli efferati omicidi, stupri, atti ignominiosi. E quasi “umanizzarli” per addivenire alle contorte logiche mentali che hanno sotteso certi gesti all’apparenza inspiegabili, nati e partoriti da “agenti stressori”, da eventi devianti, da raptus di follia non dominabili ma forse effettuati per imporre la propria stessa dominanza, nel nostro losco mondo ove i mostri esistono e il confine labile fra Bene e Male è spesso il rovescio della medaglia dell’indefinitezza esistenziale, della sottile linea di demarcazione fra giusto e orrendo, fra raccapricciante e moralmente retto. David Fincher ha diretto “solo” quattro episodi di Mindhunter ma la sua mano, il suo sguardo, la sua poetica “luciferina” si sentono dappertutto nell’andamento sobrio, pervaso appunto da attimi di follia detonanti, lungo l’intero, emozionante, calibrato arco narrativo. Eccetto la primissima scena, non succede quasi nulla, si susseguono interrogatori, ci si addentra con discrezione e delicatezza nella vita privata dei nostri detective, ma non vi sono spargimenti di sangue né scene brutali, la violenza è tutta racchiusa, “soffocata” negli sguardi, nelle dinamiche di gatto col topo, nei trucchi psicologici, in un’esposizione di galleria di mostri da far rabbrividire e anche lasciar stupefatti per la loro, sì, perversa natura disturbata, eppure così straordinariamente umana, essendo fatta di arcani, viscerali sensi di colpa, soprattutto nella “tenera” figura di Kemper, titanica dicotomia fra Bene e Male, fra umanità e aberrante disumanità. Una psiche di abbacinante splendore enigmatico, l’oscurità del Male nella sua apparenza banale, compassionevole. E il lungo, perfetto incontro finale con Ford non lascia dubbi in merito. Siamo agli inizi, insomma, Fincher è già pienamente al lavoro per la seconda stagione di Mindhunter, eh già, non poteva essere altrimenti.
(Attenzione Analisi sul Finale – Possibile Spoiler se non avete visto la serie) Chi è quello strano, inquietante personaggio che compare all’inizio di ogni episodio e scandisce le sue giornate in maniacali ritualità atterrenti per la metodicità anonima con cui lascia che già scorra pazzia nel suo animo perturbato? E Ford collassa all’ospedale, ha adesso perso tutto, la fidanzata l’ha lasciato, è indagato per un triste episodio di occultamento e insabbiamento delle prove, una registrazione compromettente, cosicché i deliri paranoici dei mostri che ha interrogato si sono diffusi anche nel suo animo originariamente puro. Qualcosa in lui è cambiato. Evoluzione preoccupante o soltanto il mero raggiungimento della maturità professionale attraverso il disvelamento delle sue paure più gelidamente profonde?
di Stefano Falotico