Essere artisti nonostante la psichiatria e l’ottusa pusillanimità del mondo

Birdman

Ora, si hanno parecchi pregiudizi verso gli apparati psichiatrici e la gente “comune”, molto disinformata, prevenuta e ignorante in materia, tende a considerarle delle strutture che curano i “matti”, appellativo quanto mai obbrobrioso e svilente le individualità di queste persone accusate di follia. Follia, poi, che termine abusato, schiacciante e orrendamente abbruttente. Matti, in questa società ingorda, famelica delle nostre anime, che non guarda in faccia nessuno e pare si compiaccia di questo menefreghismo ipocrita, lo siamo tutti. Chi più chi meno, senza eccezione alcuna. Con le dovute distinzioni.

Dicevo, si ha una visione assai generalista della psichiatria. Branca della medicina che, dagli umanisti dell’ultima ora e da quelli che si credono pensatori “democratici” e sono invece professori solo di cazzate, viene etichettata come scienza degli orrori, un abominio del falso progresso, un’evoluzione quasi del nazismo perché, a lor detta, vorrebbe curare, quindi far cambiare, le persone diverse, ribelli o non adatte alla società. Imprigionandole in diagnosi e “laboratori chimici” che sopprimono la coscienza, la irrigidiscono in parametri alquanto discutibili di presunta “normalità”. Ora, premetto che certi metodi sono, sì, arbitrari e volti sostanzialmente soltanto a voler mantenere l’ordine sociale, ma non facciamo di tutta erba un fascio.

Da che mondo e mondo, anzi, dal Novecento in poi, eh eh, fior fiore di artisti, letterati, poeti, insomma grandi menti, si sono affiancati a psicologi e psichiatri, non tanto per “curarsi”, quanto per avere chiarimenti, maggiori delucidazioni sulle loro ansie di vivere, riguardo il loro perpetuo “disagio”, affatto negativo, verso una società che non risparmiava loro colpi bassi, nonostante fossero appunto persone che, nel loro ambiente, venivano enormemente stimate o tenute in auge dagli intellettuali.

Caso eclatante di “folle” geniale, che sino a quando vivrà preferiamo tenercelo così, è Woody Allen. Senza i suoi dolori esistenziali, le sue imperterrite incognite, senza i suoi sesquipedali conflitti psicologici e le sue umanissime contraddizioni, non avremmo avuto i suoi film, le sue opere, avremmo avuto un qualsiasi uomo “normale” che ogni mattina si alza alle sette per timbrare il cartellino della mediocrità, annettendosi all’oscena baraonda frivola e mendace, superficiale e arrogante del cheto, “armonico” quieto vivere. Avremmo avuto l’apoteosi di tutto ciò che io, fin dall’età della ragione, combatto con ostinazione. L’uomo di tutti i giorni, retorico, perfetto a parole, quanto nefando, miserabile, egoista, opportunista e vigliacco nella vita pratica, che di fronte ai “problemi” scappa via impaurito, rintanandosi nelle sue fiere certezze da trombone. L’uomo che ha smesso di farsi domande, perché adattatosi all’andazzo lercio, materialista e utilitaristico della propria panza, quello che pensa solo ai ca… i suoi, che della vita degli altri se ne lava le mani, che se ne interessa solo quando può appunto ricavare dell’utile, quando l’altro diventa uno da sfruttare, da manipolare per i suoi sporchi tornaconti, quando vuol essere sempre lui a primeggiare, trascurando l’anima e le emozioni di chi non può “dargli” niente. Per lui, dare e avere corrispondono alla faccia manichea dell’appiattimento emozionale ove gli importa solo di sé stesso, dell’aggrapparsi a una metrica di valori assai faceti e impostati unicamente per e nel continuare a mantenere i suoi privilegi, per non aprirsi ai dubbi della coscienza, per tacere la voce vera del cuore, per non confrontarsi con chi la pensa diversamente, cementandosi nelle sue assurde, astruse convinzioni, nel suo fascismo ideologico, nella sua poco disponibile voglia di condividere in maniera importante, nel suo bisogno, ah ah, di apparire e non essere, rivelarsi per quello che è, altrimenti gli altri non lo “approverebbero”, nella sua scarsa, nulla capacità di provare empatia e far sì che nascano intenti di pura bellezza, di letizia, di socialità, questa sì, costruttiva e moderna.

Un esempio lapalissiano, Allen, di “matto” che matto deve continuare a esserlo. Sia mai il contrario. E che per nessuna “giusta” ragione vogliamo diversamente.

Le persone più interessanti, credo e ho maturato questo pensiero, sono quelle anche all’apparenza più “disturbanti”, perché si scontrano sempre con le facili logiche, che non si attengono alla scemenza di massa e quindi polemizzano in continuazione, non hanno mai smesso di cercare la verità al di là delle frasi fatte, delle “gonfiezze” stolte, delle ampollosità vuote. E perseverano, indagatorie, estremamente curiose, quindi combattute, nel viaggio dell’eterna scoperta, delle rinascenze e poi delle resilienze emotive.

Un tempo, anch’io come quasi tutti, pensavo che dagli psichiatri ci finissero i cosiddetti tonti. Quelle persone sempliciotte o troppo stupide che hanno bisogno di qualcuno che spieghi loro come stare al mondo, che le indirizzi verso la “correttezza”, che dia loro manforte per affrontare gli ostacoli della vita, dando loro da mangiare chiacchiere e caramelline. Sì, in quelle sale d’attesa troverete sempre “dolcetti”… E, in effetti, mi spiace dirlo, in molti casi è così. Ah ah. Perché, per certe persone, la psichiatria non diventa altro che una triste, patetica valvola di sfogo, una consolazione buonista, un concentrato di banalità come le canzonette alla radio che incitano ostinatamente alle agghiaccianti romanticherie, al “culto” del vogliamoci tutti bene, al politicamente “sano”, alla sbandierata esibizione dell’evviva la pace e la serenità, alla demagogia più spicciola e, questa sì, pericolosa perché poco realistica, molto infantilmente favoleggiante e bugiarda.

Per le persone più intelligenti, invece, fortunatamente la psichiatria diventa qualcosa che invece può essere estremamente stimolante, perché le induce a battagliare coi propri conflitti interiori, a esplorare con maggior consapevolezza le loro affascinantissime complicatezze, porta a scoprirci e, in questa denudazione sincera, far sì che ci rianimiamo e risvegliamo quelle parti del nostro io che, per conformismo mentecatto, per autoinganni e irrazionali timori, avevamo sepolto, avevamo represso, avevamo tenuto a bada appunto per non “disturbare” nessuno. Per fingerci gelidamente “normali”. Per castigarci, per mascherarci, chissà poi perché… forse per far “contenti” i cretini, quelli che vogliono essere rassicurati su chi siamo come “maschere” e a cui, appunto, invero poco importa su chi siamo davvero. Nell’anima, nel profondo…

Sì, in questi casi, vivaddio, la psichiatria fa tutt’altro, fa sì che le persone creative, geniali, sanamente “deliranti” imparino a prendere coscienza delle loro potenzialità, della bellezza, affatto paurosa o da rigettare, dei propri vulcani emotivi. E dà senso, grandiosità all’immensa, stupefacente complicazione dell’uomo in quanto essere senziente e pensante. Quindi vivo!

Allor che bello il delirio “religioso” se si diventa come Dreyer, che bello il mal di vivere se si è Dostoevskij, che belle le proprie ossessioni metafisiche e anche carnali se si è Paul Schrader. Insomma, se le cosiddette ideazioni “deliranti” vengono incanalate nell’Arte con la A maiuscola, nel superamento delle grigie ovvietà, nell’elevazione di coscienza rispetto alle insulsaggini di un mondo ove purtroppo spesso trionfano i mediocri, gli “impiegati” della “cultura”, le persone povere di spirito, quelle che sembrano in gamba e invece sono solo melensi, prevedibili stronzi.

Siate dei birdman in questo raccapricciante, sciocco e poi stupendo teatro (dis)umano.

 

di Stefano Falotico

 

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